Atti umani della scrittrice sudcoreana Han Kang, ultima sua opera pubblicata in Italia, è un romanzo composto da sette quadri. Sette storie di sette personaggi legati da un unico evento: l’insurrezione di Gwangju il 18 maggio 1980. Si tratta di un avvenimento storico quasi sconosciuto alla cultura occidentale, ma centrale nella vicenda moderna della Corea del Sud: dopo l’assassinio del presidente Park Chung-hee il 26 ottobre 1979 e l’instaurazione della dittatura da parte del generale Chun Doo-hwan, nella primavera del 1980, la popolazione di Gwangju, città del sud del paese, si ribellò al potere autoritario. Guidati dagli studenti dell’Università Nazionale di Chonnam e da tanti lavoratori – uomini e donne –, i rivoltosi presero il controllo della città e per nove giorni resistettero agli attacchi dell’esercito nazionale, che non risparmiò mezzi e tecniche di repressione per annientare la rivolta democratica. Si stima che le vittime di quei giorni di guerra civile siano tra 2000 e 3000: molti corpi non furono riconosciuti, perché sepolti in fosse comuni nelle campagne alla periferia della città. Molti ribelli furono detenuti per giorni o mesi nelle carceri – o in strutture adibite alla reclusione per l’occasione – e torturati al fine di estorcere delle confessioni incriminanti. Ci vollero anni prima che la verità venisse a galla: Chun Doo-hwan rimase al potere fino al 1988, e solo nel 1996 venne condannato – insieme al suo successore Roh Tae-woo – per i crimini commessi (e paradossalmente fu graziato dal presidente Kim Young-sam un anno dopo).

Han Kang, che all’epoca dell’insurrezione aveva 9 anni, ha composto il suo romanzo ricostruendo vicende vere e verosimili di persone che realmente vissero quell’esperienza: ci sono le storie di Dong-ho e di Jeong-dae, amici di quindici anni che si trovano coinvolti in un avvenimento di cui non capiscono molto e che affrontano una morte atroce con incoscienza e candore. C’è la madre di Dong-ho, che a distanza di trent’anni non si è ancora data pace per aver lasciato uscire il figlio dopo il coprifuoco nella notte in cui tutti sapevano che i soldati dell’esercito avrebbero ucciso senza pietà chiunque avessero trovato sulla loro strada. C’è Kim Eun-Sook, che all’epoca dell’insurrezione, insieme a un’amica, si era presa cura dei corpi dei miliziani uccisi in una palestra trasformata in obitorio, accogliendo i familiari che andavano a riconoscerli e poi a ripulirli, prima di portarli via per una sepoltura privata: cinque anni dopo, redattrice di una piccola casa editrice, si trova a rivivere quei momenti tragici mettendo mano alle bozze di una pièce teatrale boicottata dalla censura. E poi ci sono “l’operaia” e “il prigioniero”, che, nonostante il trascorrere degli anni, non hanno mai dimenticato le torture e le sevizie che, già ai tempi del presidente Park Chung-hee, gli erano state inflitte per via del loro impegno politico e sindacale: per loro al tempo eccezionale del dolore e della morte non ha fatto seguito alcun ritorno alla normalità. Non importa che le condizioni politiche e sociali della Corea si siano lentamente trasformate, aprendo spazi di libertà prima impensabili: per loro, l’unico orizzonte d’esistenza è un immedicabile desiderio di annientamento che tuttavia non produce alcun gesto estremo, ma si esprime solo nell’atonia con cui questi personaggi affrontano la quotidianità.

Era una comunissima biro, una Monami nera. Mi allargarono le dita, me le accavallarono torcendole e ci misero in mezzo la penna.
La mano sinistra, naturalmente. Perché la destra mi serviva per scrivere la confessione.
All’inizio era più o meno sopportabile. Ma dato che ogni giorno mi ficcavano quella penna nello stesso identico punto, ben presto la pelle si scorticò lasciando esposta la carne, e dalla ferita prese a colare sangue mescolato a secrezioni acquose.

Atti umani è un romanzo pieno di dolore, che indaga la fisiologia della sofferenza; un romanzo che racconta un frangente storico in cui nella moderna e “occidentale” Corea del Sud si è creato un vuoto, una sospensione dei diritti umani – di quelli riconosciuti dalle istituzioni internazionali, ma anche di quelli spontaneamente rivendicati dalla morale comune. Impunite, le forze dell’ordine si sono accanite su una popolazione in rivolta, torturando, uccidendo, ma anche umiliando la memoria degli scomparsi con crudeltà inumana. Atti umani indaga l’estremo con asciuttezza e senza compiacimenti, riportando i fatti alla loro nudità, nel tentativo di recuperare un pur minimo residuo umano attraverso la ricostruzione del semplice e atroce ordine delle cose.

Han Kang fa i conti con un ricordo cruciale della memoria collettiva del suo paese; spinta da un sotterraneo senso di colpa, da un desiderio di espiazione e testimonianza («Perché per me le stagioni continuavano a succedersi, mentre per lui il tempo si era fermato per sempre a quel maggio?»), inserisce anche se stessa nell’ultimo pannello di questo polittico, mettendo in scena i ricordi privati, ma soprattutto la sua personale ricerca per ricostruire un brandello di verità al di là di quel muro di silenzio – di omertà, di vergogna, di retorica di regime – che per anni ha fatto velo a quell’evento.

Di personaggio in personaggio, di storia in storia, cambiano le voci narranti, ma identici restano l’intensità e il profondo rigore morale con cui i fatti vengono affrontati. La polifonia non diversifica il racconto, ma conferma l’immagine di un’umanità che di fronte a una violenza incommensurabile matura una capacità di resistenza stoica. La morte azzera qualsiasi distinzione, accomuna tutti in un’identica sorte. Chi l’ha subita in prima persona si trova privato della dignità di una sepoltura che consenta ai cari di perpetuarne il ricordo attraverso riti che hanno lo spessore di momenti identitari; chi si è salvato, ma l’ha vista impartire a un suo prossimo, è costretto a fronteggiare un rimorso che nessun ritorno alla vita può medicare, perché quell’esperienza svuota di senso qualsiasi scelta di vita rivolta al futuro. Di fronte a una disperazione suicida, che tocca alcuni, l’unica strategia di sopravvivenza è l’attesa dimessa che il destino intervenga a pareggiare i conti.

A parte i due anni che hai passato in prigione, non sei mai stata senza impiego. Sei stata instancabilmente diligente e instancabilmente taciturna. Il lavoro è una garanzia di solitudine. Grazie alla tua vita solitaria, il ritmo regolare di lunghe ore lavorative seguite da brevi pause di riposo ti aiuta a superare le giornate, senza lasciarti il tempo di temere l’oscurità al di là del cerchio di luce.

Atti umani è un romanzo destinato a incontrare grande favore nel pubblico occidentale. Come ha fatto anche nel successivo La vegetariana, che l’ha resa nota al pubblico italiano, Han Kang adotta un modulo narrativo diffuso ed efficace, la narrazione polifonica di un evento traumatico, che in questo caso ha un carattere collettivo e storico. Tanti sono i casi di romanzi che hanno fatto ricorso a questa strategia per raccontare alcuni grandi buchi neri della civiltà occidentale: se il pastiche adottato in Troppo forte, incredibilmente vicino (2005)da Jonathan Safran Foer per raccontare l’11 settembre e metterlo in prospettiva con la Seconda Guerra Mondiale e una complicata genealogia privata, può apparire distante rispetto a questo romanzo, più vicini appariranno senz’altro Dans la foule (2006) di Laurent Mauvignier, racconto a sei voci della tragica notte dell’Heysel, il 29 maggio 1985, e Il demone a Beslan (2011) di Andrea Tarabbia, che dà voce a carnefici, vittime e inconsapevoli spettatori della strage dei separatisti ceceni nella scuola di Beslan, tra l’1 e il 3 settembre 2004. Esempi tra i migliori di quella letteratura dell’estremo che grande corso ha avuto e ha ancora nelle letterature occidentali (e ne ha parlato molto bene Daniele Giglioli, qualche anno fa, in Senza trauma). Esempi, questi, che trovano nella polifonia, nella ricostruzione corale dell’evento, la soluzione migliore per sollevare chi narra dal problema della verità – che da assoluta si fa relativa – e dall’onere del giudizio sui fatti narrati – giudizio che, nelle opere deteriori di questa linea, finisce invece per incanalarsi in un’enfasi sui caratteri violenti e morbosi, “estremi” appunto, degli eventi. Paradossalmente, la polifonia apre la strada a una trattazione più scabra degli eventi, consente – grazie alla moltiplicazione delle voci – di adottare sguardi obliqui, prospettive sghembe, che girino attorno al buco nero dell’evento senza caderci dentro.

A conquistare il primo piano non è allora il fatto storico in sé, storico o privato che sia, ma le ripercussioni che il suo passaggio violento ha lasciato sulle persone (e si pensi a come, recentemente, nella Ragazza con la Leica Helena Janeczek è riuscita a raccontare la morte di Gerda Taro senza darle la parola e dando spazio solo ai riflessi che la sua vita ha lasciato nelle esistenze dei suoi amici). Han Kang amplifica l’effetto di questa scelta narrativa, affiancando alla narrazione in diretta di alcune vicende della rivolta di Gwangju nei primi due pannelli, il racconto di come quegli avvenimenti riecheggino ancora a distanza di anni o addirittura decenni nelle vite dei personaggi. La profondità cronologica – sfaccettata dal ricorso a voci narranti diverse per ogni tassello (dalla seconda alla prima, alla terza) – certifica la verità del trauma. Il tempo a venire, unico orizzonte su cui proiettare le residue speranze di redenzione e riscatto dalle umiliazioni subite, viene sequestrato dal racconto, mostrato nel momento del tradimento, quando i fantasmi che speravamo ci avrebbero prima o poi abbandonato, si mostrano ancora impuniti, esiziali.

Non c’è redenzione in questo mondo, in questa patria. È quello che sembra dirci Han Kang attraverso la voce dei suoi personaggi. E se questa è la vita, non resta che confidare nei momenti in cui questa si trova sospesa, quando la veglia diurna viene interrotta. Sono pochi istanti, talvolta brevi momenti di incoscienza, talvolta invece lunghi e tormentati sogni, che aprono sconvolgenti squarci di visione, in cui l’individuo è sottratto al controllo degli input razionali e si trova preda di pulsioni irriflesse. Sono momenti da non rivelare, da custodire al riparo da sguardi indiscreti, perché rivelano lo spazio di un “altrove” che non si conosce e per il quale non esistono contromisure. È qui, però, che è necessario puntare lo sguardo, perché solo qui è possibile immaginare qualcos’altro, rispetto al deserto che è diventata la vita.

Quando una persona viva ne guarda una morta, accanto al corpo non potrebbe esserci anche l’anima del defunto, che scruta la sua faccia dall’altro?

Chi legge sa che questa ipotesi contiene la verità: il racconto del giovane Jeong-dae proviene proprio dalla sua anima defunta, che attende di staccarsi dal suo corpo, ormai in putrefazione, per andare a fare visita ai corpi – anch’essi morti – dei suoi cari. Ma per chi vive si stratta di un dubbio inquietante e al tempo stesso confortevole. L’ignoto si affaccia e mostra un volto che potrebbe essere d’incubo, ma anche di salvezza. Quando la barbarie, l’esilio dall’umanità comunemente intesa, è diventato l’unico orizzonte dell’esistenza, sono questi, forse, gli unici, possibili “atti umani”.


atti umaniHan Kang, Atti umani, Adelphi, Milano 2017, 205 pp. 19€