Niente donne perfette, per favore è il titolo di un delizioso libricino uscito nel 2016 per L’Orma editore. Il libro, curato da Eusebio Trabucchi, è una selezione di lettere private tratte dal ricco epistolario di Jane Austen, autrice di Emma e di Orgoglio e pregiudizio, una delle migliori penne della letteratura europea, la cui prosa è un concentrato di ironia, intelligenza e modernità. È alla scrittura ineguagliabile della Austen e alla forza di quelle lettere che ho pensato quando ultimamente ho sentito parlare di nuovo di letteratura femminile, intesa come questione su cui dibattere. Esiste sì una letteratura femminile se a scrivere un romanzo, un saggio, una raccolta poetica è un’autrice e, per lo stesso motivo, ne esiste una maschile: perché si dovrebbe dibattere dell’una e non dell’altra?

Presumibilmente perché è ancora viva quella credenza secondo cui la presenza delle donne nel mondo culturale sarebbe ancora una variante rispetto alla norma. Eppure da molto tempo ormai, seppur dopo secoli di completa esclusione, il contributo delle donne al mondo delle arti è ufficialmente riconosciuto e, in particolare, l’universo letterario è stato con loro forse uno dei più generosi, specie se paragonato a quello musicale o a quello delle arti figurative. I primi nomi femminili compaiono sui manuali delle letterature europee non prima della seconda metà del diciannovesimo secolo e dalla fine dell’Ottocento in poi, ad alcune di loro vengono assegnati importanti riconoscimenti fino ad allora riservati alla sola voce maschile, l’unica consentita. Lo sdoganamento dunque è avvenuto da un bel pezzo ma tracce di disparità sono evidentemente ancora vive, (complice anche un canone letterario vetusto e una sottoesposizione della donna nel mondo culturale) specie nella conquista da parte delle scrittrici, di quell’autorevolezza e di quel prestigio che non dipendono solo dal valore delle loro produzioni, ma dalle effettive possibilità di essere ascoltate e di farsi punto di riferimento per gli altri.

Di questo e di molto altro ho parlato con Helena Janeczek, scrittrice, giornalista e traduttrice tedesca naturalizzata italiana, autrice di quattro romanzi tra cui Le rondini di Montecassino (Guanda 2010), struggente ritratto della più feroce battaglia della seconda guerra mondiale, quella che vide la distruzione dell’antica abbazia benedettina, un romanzo storico eppure diverso dagli altri dello stesso genere, che rivela scenari sofferenti e realtà insabbiate, spesso scomode.

Helena è anche direttrice artistica del Festival SI Scrittrici Insieme, manifestazione ideata da Emilio Paccioretti nel 2011, che ospita narratrici e saggiste, sia esordienti sia affermate.

 

L’approdo alla scrittura da parte delle donne: quanto è stato difficile e quanto ancora c’è da fare?

Scrivere, come sappiamo, per secoli è stato appannaggio di poche donne colte, nelle condizioni di potersi dedicare alla scrittura. D’altronde, se non limitiamo lo sguardo alla narrativa, la storia delle scritture praticate dalle donne è ancora più antica e multiforme di quanto venga in mente nell’immediato. Penso ai testi delle mistiche, alle grandi poetesse del nostro Rinascimento, all’arte epistolare di Madame de Sévigné e di altre signore nobili del Settecento. Poi arrivano le romanziere, soprattutto inglesi e infine la presenza femminile comincia ad allargarsi, di pari passo con l’emancipazione delle donne, la conquista di ruoli pubblici, senza dimenticare alcune liberatorie invenzioni: dalla contraccezione alla lavatrice. Oggi una scrittrice non sconta difficoltà maggiori d’un uomo nel farsi pubblicare, anche perché il pubblico è composto in gran parte di lettrici. Persiste invece il gender gap che concerne il (pari) riconoscimento di un’opera letteraria scritta da una donna. Una scrittrice di valore si ritrova quasi sempre definita una “brava scrittrice” o, esagerando, “bravissima scrittrice”. Un uomo viene più spesso elogiato come “grande scrittore” o “scrittore importante”, se l’attributo “grande” risultasse eccessivo. Non è difficile scorgervi l’influenza di stereotipi che non riguardano solo la scrittura: a una donna vengono più facilmente attribuite “virtù femminili” come, appunto, l’essere “brava” come una prima della classe, mentre la “grandezza” resta una qualità tradizionalmente attribuita al maschile. Poi, certo, esistono alcune “grandi scrittrici” canoniche, ma il canone letterario è ancora riservato a poche donne: per un’autrice contemporanea, a meno che non abbia vinto il Nobel (e in tal caso scatta quasi sempre l’immancabile contestazione che sia stata premiata in quanto donna), l’attributo viene usato con notevole parsimonia.

Cosa c’è di diverso rispetto ad un uomo, quando una donna impugna una penna e si mette scrivere?

Comincio a rispondere con una battuta: un uomo che scrive non deve occuparsi della casa, della spesa, della cena, dei figli, dei genitori anziani, del cane gatto canarino ecc. –  almeno non nella misura in cui queste mansioni ricadono solitamente sulle donne, qualsiasi status abbiano raggiunto al di fuori di tali ambiti tradizionalmente femminili. Non voglio però eludere una domanda che mi viene da affrontare con le pinze. La mia cautela nasce dalla considerazione che, per secoli, gli uomini hanno definito la natura del femminile sulla base dei modelli da loro stessi imposti. Temo che noi donne potremmo finire per rimetterci da sole quel tipo di corsetto normativo, se a partire dalle nostre esperienze, com’è giusto, diventa quasi automatico pensare che ci sia qualcosa di essenziale, nel nostro modo di stare al mondo, qualcosa che vale per tutte e per sempre. Ora, se volgiamo uno sguardo generico alla letteratura che le donne scrivono, possiamo dire che siamo più attente al corpo e ai sentimenti, o se non proprio ai sentimenti alle dinamiche psicologiche, che raccontiamo con più frequenza storie intime – storie di donne, famiglie, coppie – piuttosto che trattare questioni epocali attraverso la narrazione romanzesca. E infine ne potremmo trarre che le scrittrici sono più sensibili e sensuali, più portate all’introspezione, persino più umili perché prioritariamente dedicate a un tipo di materia di cui hanno diretta conoscenza o perlomeno a storie e protagoniste in cui non faticano a immedesimarsi. Tutto questo – arrivo alla prima osservazione critica – risponde molto agli stereotipi di genere, oltre a essere un po’ la scoperta dell’acqua calda: perché le donne che scrivono sono pur sempre formate in una certa cultura e nell’orizzonte esperienziale che ne deriva. Seconda obiezione: Anna Karenina, Madame Bovary («Madame Bovary c’est moi», disse Flaubert) I Buddenbrook, Ritratto di signora, chi li ha scritti? Il romanzo di famiglia, il romanzo psicologico “d’interni” centrato un personaggio femminile, sono le forme par excellence del romanzo borghese. Un altro esempio, ad un convegno a Bologna che si occupava giustappunto di donne e letteratura, s’è fatto un giochetto istruttivo: indovinare se il tal brano fosse scritto da un uomo o da una donna. Gli estratti con uno stile hard-boiled venivano attribuiti alla mano maschile, quelli più fioriti al femminile e questo nonostante le partecipanti fossero tutt’altro che poco avvedute sulla questione. Il discorso ha vari aspetti: il primo è che il pregiudizio spinge al margine della visione tutto ciò che non vi si conforma. L’esempio macroscopico è che focalizzandosi sulla letteratura al femminile, la prospettiva di genere – il bisticcio è necessario – esclude quasi in automatico i generi a cui le donne hanno fornito capostipiti, maestre, autrici note in tutto il mondo: Agatha Christie, Fred Vargas, Alicia Gímenez Bartlett, Patricia Highsmith, Patricia Cornwell, Jane Rowling, Ursula LeGuin, Licia Troisi, Cornelia Funke, Suzanne Collins di Hunger Games e si potrebbe proseguire. Mi soffermo su Patricia Highsmith ormai riconosciuta per la sua notevolissima statura letteraria, i cui romanzi, gialli o no, hanno poco a che vedere con l’idea comune del “tipicamente femminile”; qualcosa di simile vale, per esempio, anche per Marguerite Yourcenar. Non penso che ci sia alcun merito nel scegliere per protagonista un Mr. Ripley o l’imperatore Adriano rispetto all’esplorazione di un Lessico familiare, ma credo che la letteratura sia tale soltanto laddove è capace di prestare una voce unica a ciò che rappresenta, non importa se racconta qualcosa di insolito o si dedica a narrare ciò che è esperienza comune di molte donne.

Le scrittrici italiane, secondo lei, scontano ancora il ritardo culturale che il nostro paese si porta dietro, rispetto agli altri paesi europei?

L’Italia è un paese che non ritiene necessario fare i conti con i suoi retaggi più retrogradi: sessismo, omofobia, razzismo. C’è un tragicomico conformismo dell’anticonformismo nei confronti del politically correct, le cui ragioni non liquidabili con qualche battuta salace non sono nemmeno pervenute. Nelle nostre università, per esempio, non mancano docenti e ricercatori che coltivano o integrano le prospettive degli studi culturali (“cultural studies”), e in particolare quella di genere, ma l’inclusione nell’offerta formativa di corsi e cattedre dedicate è piuttosto deficitaria. L’Italia è arretrata ma il problema non esiste solo qui. Un uomo normale, mediamente istruito, al giorno d’oggi è disposto a esecrare con sincero orrore la violenza sulle donne, però fatica a riconosce un sostrato di discriminazione più sfuggente che rimane radicato nella testa. Contano indubbiamente di più i progressi fondamentali compiuti nella parità di genere rispetto al fatto che, per esempio, nei dieci migliori libri di narrativa dell’anno scorso selezionati dal «Corriere» non compaia uno scritto da una donna. «Io non leggo i libri di donne!» è una frase che spesso si sente dire anche da lettori esigenti. E perché? «Perché le donne scrivono di cose che interessano le donne». E torniamo al punto di prima. Naturalmente ciascuno legge ciò che lo attira, e quindi ci sono i lettori (e le lettrici) di gialli, i lettori di fantasy, le lettrici di narrativa femminile. Ma se parliamo di lettori (e, peggio, di lettori per professione) che scelgono un libro perché è letteratura, il criterio tematico-pregiudiziale diventa indifendibile. Conosco lettori colti che non hanno mai letto un romanzo di Jane Austen, mentre è più raro che lettrici analoghe dichiarino un sereno disinteresse per Il vecchio e il mare o Moby Dick perché la pesca al marlin e la caccia alle balene non sono proprio la prima cosa affascina una signora. Il canone è maschile, vale a dire che presenta ciò che seleziona come neutro, eccelso, vincolante per tutti.

SiCosa e quanto può dare al nostro panorama letterario, il Festival Si Scrittrici insieme?

Il nostro è un piccolo festival partito dall’idea di ristabilire un po’ di pari opportunità, presentando un programma il più possibile vario e di buon livello. Abbiamo quindi invitato molte “pure narratrici” ma pure un numero crescente di autrici di saggistica. Insomma donne che scrivono di argomenti che hanno studiato, autorevoli nelle loro discipline e competenze: storiche, storiche dell’arte, economiste, filosofe, sociologhe. Talvolta con un interesse verso i temi più caldi – penso alla fantastica affluenza di quest’anno per l’incontro con Michela Marzano – ma nient’affatto con un occhio preponderante all’attualità. Sono state nostre ospiti Benedetta Craveri o Chiara Frugoni, grandissima studiosa di San Francesco. E infine non abbiamo mai voluto allestire una specie di recinto in rosa, ma organizzato pure svariati incontri dove un’autrice si confrontasse con un autore, perché i loro libri offrivano un terreno comune per intavolare un dialogo. Uno dei più belli è stato quello tra Benedetta Tobagi e Giorgio Fontana che, tra l’altro, sono poi stati invitati sempre in tandem anche al ben più importante festival di Mantova.

La scrittura femminile è certamente un fenomeno più recente rispetto a quella maschile, in compenso però, le donne di ogni paese sono sempre state padrone dell’oralità, del racconto accanto al focolare.

Quest’anno, a Scrittrici Insieme, abbiamo avuto ospite la curatrice del Premio Pieve Santo Stefano (AR) che si dedica da decenni a premiare ma anche archiviare diari, lettere, scritture memorialistiche e biografiche. Come ci ha raccontato Natalia Cangi nel suo bellissimo intervento, la presenza femminile rimane assai forte e significativa nell’ambito di queste scritture ad uso ristretto della cerchia familiare o comunità di appartenenza. Tra poco ci sembrerà anacronistico il televisore in sala quale “moderno focolare”: il racconto come momento di condivisione e trasmissione intergenerazionale è parecchio in crisi, per quanto sarebbe bello non perderlo del tutto. Direi che sarebbe bello che, accanto a nonne, madri e zie, ci fosse anche qualche nonno o zio che avesse voglia di fare la sua parte complementare, come accadeva una volta.

La scrittura femminile manca ancora di un canone, è priva di una tradizione organizzata e precisa. Quali soluzioni?

Non sento una mancanza di un “canone femminile” bensì di un canone più inclusivo di tutte coloro che non rappresentano il “maschio Alpha” proiettato nell’ambito della letteratura. Per questo, a mio parere, ci sarebbe più bisogno del temibilissimo arrivo del gender nelle scuole, ossia di un’educazione che affronta la radice del problema, che di una maggiore attenzione a includere nelle antologie d’italiano Elsa Morante o Gaspara Stampa, naturalmente graditissima. Ciò che ci renderebbe più liberi – non solo le donne – è la destrutturazione degli stereotipi di genere di cui, come sappiamo, i libri di testo sono ancora intrisi. Mi pare diversa la questione dello studio accademico o comunque a un livello superiore di quello scolastico di singole autrici o anche di certe linee di discendenza “matrilineari”, ossia un’auspicabile maggiore attenzione alle opere scritte dalle donne.