Quanti anni avrebbe compiuto oggi Luciano Bianciardi?

Novantaquattro per l’esattezza, che, se fosse riuscito a compierli, probabilmente sarebbe ancora affamato di giustizia e di ideali e li perseguirebbe con forza, non solo sulla pagina.

Un uomo onesto innanzitutto e poi un grande intellettuale, a riprova del fatto che le due cose messe insieme non dovrebbero essere un dettaglio né un colpo di fortuna. Non è soltanto per la ricorrenza del suo anniversario di nascita che di Bianciardi si parla ancora, però piuttosto lo si fa perché è per intellettuali come lui che le celebrazioni non sono mai troppe. La lezione della sua opera è sempre più attuale e l’esempio della sua vita è perfettamente aderente alla pagina: dai romanzi alle dichiarazioni , dagli appunti alle interviste, le parole dello scrittore grossetano risultano profetiche e ancora esatte tali da sembrare scritte ai nostri giorni. Lo spaesamento dell’uomo moderno, i luoghi sociali vuoti di valori e privi di certezze da lui descritti e denunciati senza rassegnarvisi, non sono poi così lontani da quelli imperanti nel mondo in cui viviamo.

Figlio di un impiegato bancario e di una maestra elementare che lo vuole sempre preparato e diligente, sin da piccolo Bianciardi unisce agli studi scolastici quelli di violoncello e di lingue straniere. Da adolescente, al liceo Carducci, si distingue per il rendimento pur risultandogli indigeste certe lezioni di letteratura intrise di sola retorica, notizie queste rivelate negli anni della maturità che, insieme ad altre, raccontano quanto la personalità dello scrittore grossetano fosse già ben delineata in tempi ancora lontani dalla sua carriera di intellettuale. Arrivano poi gli anni universitari a Pisa, l’avvicinamento ma mai la convinta adesione alle idee del socialismo liberale, una lettera a Mussolini al quale candidamente chiede di dimettersi e, nel’ 43, la chiamata alle armi preceduta da settimane di addestramento militare in una scuola ufficiali. Qui Bianciardi, affidandosi agli insegnamenti patriottici, si illude per pochi mesi di poter riporre fiducia nel futuro, fiducia che sarà presto tradita dopo aver assistito al bombardamento della città di Foggia e alle brutalità della guerra.

Nel ’45, approfittando di un bando riservato ai reduci, torna all’Università dove riprende gli studi e si laurea in Filosofia. Inizia subito ad insegnare nelle scuole pubbliche, si sposa e diventa padre del suo primo figlio, Ettore. «Non ci sarà soluzione sicura per mio figlio se non sarà sicura anche per tutti i bambini del mondo», afferma poco dopo la nascita e si interroga sul futuro che attende il piccolo.
Dal 1948  è impegnato nella ricostruzione della Biblioteca di Grosseto dove si fa bibliotecario autodidatta, per diventarne poi direttore nel 1951, e il suo percorso è descritto magistralmente in un manuale di recente pubblicazione, a cura di Elisabetta Francioni e intitolato Luciano Bianciardi bibliotecario a Grosseto. Animatore culturale sempre attivo, in questi anni Bianciardi inventa il bibliobus perché intuisce che la cultura, specialmente in certi casi, debba mettersi in cammino e andare incontro alla gente più lontana da essa, non solo fisicamente. Se il lamento di un paese con un alto numero di non scolarizzati e un basso numero di lettori è udibile già a quei tempi, Bianciardi non si limita ad un’analisi teorica di possibili soluzioni ma propone un rimedio e lo mette in atto: prende in prestito dal comune della sua città un pulmino in disuso, lo riempie di libri e si reca nei piccoli centri della provincia grossetana dove non abitano certo eruditi e professori ma manovali, minatori, agricoltori e porta a casa loro volumi e pubblicazioni di ogni tipo, insieme alla possibilità concreta di un’istruzione e di un avvicinamento alla conoscenza. Sì, perché in quell’andare di persona nella provincia più inoltrata, Bianciardi opera un vero percorso di autocritica nei confronti della classe intellettuale e riflette sulle responsabilità di un mondo culturale chiuso, corporativo e salottiero, che, a parte rarissimi casi, non offre mai segnali reali di inclusione alle classi sociali meno fortunate.

In questi anni inizia a collaborare con la «Gazzetta di Livorno», «Belfagor», «Il Mondo» e con «L’Avanti!» dove, insieme a Carlo Cassola, è autore di un’inchiesta sui lavoratori della miniera di Ribolla, nei pressi di Grosseto. L’indagine lo impegna molto: in quei mesi Luciano stringe rapporti significativi con i minatori, si affeziona a loro e ne indaga a fondo sentimenti e opinioni. Nel 1954 un’esplosione di grisù dovuta alle condizioni di lavoro disastrose causa a Ribolla decine di morti tra i suoi amici minatori e l’accaduto fa piombare lo scrittore in uno stato di delusione e incredulità. Bianciardi decide di lasciare Grosseto perché non riesce a capire come nessuno voglia rendere giustizia agli operai tragicamente scomparsi, né può comprendere il disinteresse delle autorità ad indagare sui responsabili della tragedia . No, lui proprio non ce la fa ad abituarsi agli «ormai», ai «lascia stare», «è così» e abbandona la Toscana per iniziare nuovamente la sua vita da un’altra parte, per ridare spinta ad un’esistenza già stanca ma non ancora del tutto spenta. Una nuova casa editrice, la Feltrinelli, sta nascendo a Milano e Bianciardi accetta l’invito di un collega a collaborare al progetto. Giunto nel capoluogo lombardo, lo scrittore è di nuovo profondamente deluso: Milano incarna, suo malgrado già a quei tempi, il ruolo di città del boom economico, del consumo sfrenato, della produttività e della cosiddetta “epidemia del sabato”, ma è anche il luogo della rinascita italiana e la città in cui i lavoratori e intellettuali del tempo si stabiliscono in cerca di un impiego migliore. A Bianciardi certi meccanismi stanno stretti da subito: lo scrittore rintraccia ovunque mancanza di umanità, non riesce a stabilire rapporti d’amicizia con nessuno, si dice tartassato da ritmi di lavoro pressanti e non sopporta i compromessi di un mondo in cui non si riconosce.

Non amo più la compagnia del prossimo, e sento che l’antica vena ironica sta diventando cattiveria. Per questo amo tanto sentir parlare di Grosseto, e a volte mi sembra di aver tradito la mia città, voi amici, le mie origini, venendomene quassù.

L’editore Feltrinelli lo licenzia dopo alcuni anni “per scarso rendimento”, pur continuando ad affidargli lavori di traduzione (Bianciardi traduce oltre 80 libri in tutta la sua carriera). La perdita del lavoro fisso e il suo impiego da “collaboratore esterno ” gli consentono di lavorare autonomamente, senza più gli obblighi dell’ufficio, sostituiti però da quelli assillanti delle consegne. A Milano intanto lo raggiunge la sua nuova compagna Maria Jatosti, anche lei scrittrice, che gli resterà affianco per tutta la vita e dalla quale avrà un figlio Marcello (la figlia Luciana invece l’aveva avuta dalla moglie rimasta a Grosseto). Nel frattempo Bianciardi, che non ha mai smesso di scrivere contributi per giornali e riviste, si concentra sul suo esordio da scrittore che arriva nel 1957 con Il lavoro culturale, il primo romanzo della cosiddetta «Trilogia della rabbia» , che prosegue con L’integrazione edito nel 1960 e si completa nel 1962 con il suo capolavoro, La vita agra, che narra, in una prosa delusa ma densa di invettiva e dolore, il tentativo fallito di un giovane emigrato a Milano di far saltare in aria il grattacielo della Montecatini, per vendicare la morte di decine di minatori durante un’esplosione. L’intento del protagonista si spegnerà col il trascorrere del tempo fino ad essere definitivamente accantonato per una carriera da pubblicitario.

Il libro è un successo: vende in pochi mesi migliaia di copie e conferisce a Bianciardi autorevolezza e notorietà, ma nonostante ciò lo scrittore non è felice. «La storia di una colossale incazzatura» – questa la sua definizione de La vita agra – non dà gli effetti sperati: Bianciardi destruttura e critica, senza troppi fronzoli, un preciso mondo e questo stesso mondo invece di indignarsi o meglio ancora di cambiare, lo loda, lo intervista, lo invita a parlare, gli fa consapevolmente recitare il “ruolo dell’incazzato”. Non è questo che lo scrittore vuole, non lui che non si ferma sulla soglia del lamento, non lui che ha ancora il coraggio di attendere dai suoi simili azioni conseguenti ai pensieri. Per l’ennesima volta deluso, abbandona definitivamente il genere autobiografico,  pur non abbandonando la scrittura e nel 1964 pubblica La battaglia soda, romanzo storico che rivela la sua passione per il periodo garibaldino. A 8 anni Bianciardi riceve in regalo un libro di Giuseppe Bandi intitolato I mille e questa lettura lo condiziona a vita, spingendolo in età adulta a studiarne ripetutamente le vicende e a scriverne. Una passione, quella per il Risorgimento , che lo scrittore grossetano ha in comune con altri grandi autori del novecento (Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo ad esempio), un interesse intenso e tragico per un periodo di slanci e di fallimenti, anni che per tanti versi non differiscono poi così tanto da quelli della Resistenza e del dopoguerra, vissuti tra l’altro in prima persona: luoghi storici cruciali, ambedue volutamente deviati, durante e dopo i quali è il popolo ad essere sconfitto e dunque tutti noi.

Ho sempre pensato che con La battaglia soda Bianciardi, pur spostando l’ambientazione al secolo precedente, volesse riprovare ancora una volta a parlare ai lettori, a dir loro che il solo lamento, la sola denuncia non possono bastare a cambiare le cose. Capace di partecipazione solidale e vera per l’umano dolore, Bianciardi trascorre i suoi ultimi anni di vita sempre più isolato e in preda ad una grave dipendenza dall’alcol; si ritira spesso in un piccolo centro della Liguria e si lascia avvicinare dai pochi veri amici che gli sono rimasti, tra i quali molti minatori.

Se non l’avesse ucciso l’alcolismo, oggi, Luciano Bianciardi sarebbe ancora vivo? Non lo so, ma se così fosse, lo scrittore avrebbe certo trovato nella società contemporanea più di un aspetto in comune con i suoi. tempi: lo spaesamento umano dinanzi alle scelte politiche ed economiche dei governi di turno, la precarietà e le condizioni lavorative stressanti, votate al solo profitto e a mere logiche di vendita, il trionfo delle formalità e dell’arrivismo, l’alienazione e la corsa sfrenata al bisogno imposto, tutti scenari già esperiti, insomma, che non lo avrebbero colto di sorpresa. Da che parte starebbe allora Bianciardi se fosse ancora qui? Provo a fare qualche ipotesi, ma nessuna mi convince, così arrivo ad una conclusione: probabilmente non starebbe da nessuna parte, nemmeno dalla sua, com’è sempre stato, e continuerebbe a non allinearsi, a dissentire, a sfidare i tabù che tuttora governano il nostro paese.

Preferirebbe ancora una volta persistere nel non servirsi e, soprattutto, nel non servire nessuno.