La prima volta che ho messo piede sul tatami avevo sei anni. I miei genitori mi avevano iscritto a una lezione di prova di karate, o “charatè”, come amavano apostrofarmi i miei compagni di classe. Ci scherzavano su, ma non gliene faccio una colpa. In fondo, di arti marziali, in un piccolo paesino di provincia tra le campagne di Reggio Emilia, nessuno aveva mai sentito parlare, se non attraverso i film di Bruce Lee e Chuck Norris. Due attori che hanno, sì, contribuito a portare nei cinema occidentali il Karate e il Kung Fu (o, per essere più precisi, il Wing Chun), ma deformandone, al contempo, i dettami e i valori, adattandoli ai gusti del pubblico dell’epoca. Ciò che ne è derivato è stata un’idea di arti marziali posticcia e aperta ai fraintendimenti. La stessa idea che avevo nella mia testa la prima volta che sono salito sul tatami. 

In Tatami, film co-diretto da una regista iraniana (Zar Amir Ebrahimi) e da un regista israeliano (Guy Nattiv), presentato all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, il vero protagonista è proprio lui: il tatami, che dà anche il titolo al film. Un non-luogo in cui si consumano lotte di potere e di libertà, tra politica e sport. La disciplina al centro del film, in questo caso, non è il karate, ma il judo. E l’atleta che muove tutta la vicenda non è un ragazzetto di sei anni nato nella Bassa reggiana, ma Leila Hosseini (Arienne Mandi), una judoka iraniana che rappresenta il suo paese ai campionati mondiali di Judo di Tbilisi. Il suo sogno è di portare a casa la medaglia d’oro e ha tutte le carte in regola per farcela. C’è un solo problema: per riuscire nell’impresa, potrebbe finire per competere in finale con un’atleta israeliana, ovvero la rappresentante di quello che l’Iran considera il paese occupante. Pur di evitare un simile scenario, il regime di Teheran ricorrerà ai metodi più subdoli per impedire a Leila di vincere, arrivando anche a minacciare di morte lei e la sua famiglia.

Quella di Leila è una storia simbolo che vuole raccontare il vissuto, non solo di atleti, artisti e intellettuali, ma anche di tante persone comuni che si sono trovate ad affrontare, spesso in solitudine, un Paese in cui la propria identità e il libero pensiero vengono messi continuamente a repentaglio. Un Paese capace di soffocare l’ambizione e le scelte individuali con la violenza, sia fisica sia psicologica. Lo sa bene Zar Amir Ebrahimi, attrice iraniana con cittadinanza francese, qui alla sua prima opera come regista, ma già attrice in Holy Spider di Ali Abbasi, che dall’Iran è dovuta fuggire per davvero e che, dopo aver sostenuto pubblicamente la protesta per la morte di Mahsa Amini, ha ricevuto diverse minacce dagli ayatollah. Una situazione, la sua, speculare a quella di tanti altri suoi compatrioti. Ma come raccontare lotte sociali e di potere che attraversano secoli di storia iraniana in un film di appena due ore di durata? Per facilitare l’impresa, il duo di registi ha scelto di ambientare questo antagonismo in un microcosmo, quello del tatami.

Il tatami, come appresi alla mia prima lezione di karate, non è solo un tappetino fatto con paglia di riso intrecciata e pressata. È uno spazio circoscritto, dai confini netti, con una duplice funzione: da una parte accogliere lo scontro, dall’altra assorbire gli shock. Quando si accede al tatami, tutto cessa di esistere. Il resto del mondo scompare e si rimane da soli con il proprio avversario, in uno scontro alla pari. Uno scontro che non è fatto di mirabolanti piroette al rallenty, calci rotanti e azioni spettacolari, come ne I 3 dell’Operazione Drago, ma di pazienza, tecnica e ammirazione per il contendente. Si capisce quindi che si tratta del contesto ideale per un film che alterna momenti di grande delicatezza, come quelli che vedono protagonisti Leila e la sua famiglia, ad altri in cui la ferocia esplode improvvisamente, prendendo il sopravvento. Nella maggior parte dei casi, il tatami è di forma quadrata, un po’ come il formato scelto dal duo di registi per il film, un 4:3 in bianco e nero che, oltre a rendere tributo a Toro Scatenato di Martin Scorsese, è capace di trasmettere allo spettatore la claustrofobia della situazione vissuta da Leila. Si ha una forte sensazione di soffocamento per l’intera durata del film, come se i lati del quadrato del tatami si chiudessero lentamente intorno a noi. Un indirizzo registico consolidato dalla moltitudine di primi piani, spesso strettissimi sugli occhi dei personaggi, a ritrarne lo spaesamento e la disperazione.

Tatami è un film essenziale, grezzo e viscerale, che colpisce allo stomaco lo spettatore con due forme di violenza: una manifesta e una sottintesa. Lo stato di oppressione in cui vivono Leila, la sua famiglia e l’allenatrice ex judoka Maryam (interpretata proprio da Zar Amir Ebrahimi), è presente fin dalla prima scena, inizialmente in maniera quasi subliminale e, poi, più esplicita. In un crescendo emotivo in cui l’unica via di fuga è lo sport, a dimostrazione della sua superiorità rispetto agli scontri politici. Non a caso si è scelto il judo per raccontare questa rivalità. Un’arte marziale nobile, come il karate e altre discipline giapponesi, di incontro-scontro tra avversari. Si lotta, ma ci si rispetta, secondo un preciso codice d’onore che elimina qualsiasi forma d’odio e di prevaricazione. Un patto non scritto che, in Tatami, si manifesta sia all’esterno del film, nella collaborazione tra Ebrahimi e Nattiv, lei iraniana e lui israeliano, sia all’interno, tra Leila e la sua avversaria, in un gioco che diventa quasi metanarrativo.

Ogni pugno che Leila sferra contro le sue avversarie, lo sta in realtà sferrando contro il regime del suo paese. In Tatami la lotta trascende i campionati di judo e il sogno della medaglia d’oro, diventando una vera e propria lotta per la libertà. Di Leila, della sua famiglia e, forse, di tutti gli iraniani oppressi da una dittatura che non lascia spazio all’individuo e ai suoi sogni.