«Sì, pensò, tra il dolore e il nulla sceglierò il dolore».

Le palme selvagge di William Faulkner, il libro letto dall’indimenticabile protagonista dell’ultimo film di Wim WendersPerfect Days, ci introduce fin dalle prime scene al dilemma che dilania il protagonista Hirayama: che cosa scegliere tra un passato di sofferenza e un presente fatto di routine, apparentemente privo di tutto? Diversamente dai disperati di Faulkner, il personaggio interpretato dal sempre superbo Koji Yakusho (13 AssassiniBabelCure) sembra optare per la seconda via, quella del nulla. 

Quando lo incontriamo, all’inizio del film, Hirayama è un uomo umile che lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Un compito che svolge con grande attenzione, in una serie di “giornate perfette” che sembrano ripetersi in loop, alternando audiocassette di Lou Reed e degli Animals, incontri casuali, libri usati, giri in bicicletta e piantine da innaffiare. Rituali precisi che Hirayama ottempera con devozione quasi monacale, con rimandi alla spiritualità Zen e all’essenzialismo di San Francesco d’Assisi – d’altronde questo è un film su Tokyo diretto da un regista tedesco – in un continuo intersecarsi di suggestioni occidentali e rimandi alla cultura giapponese, in particolare al cinema di Ozu Yasujirō e alla sua poetica dello sguardo lento, monoplanare.

Wenders ci mostra un microcosmo invariabile e costruito intorno a una ritualità di momenti (e movimenti) di cui il protagonista è l’architetto stesso. Un haiku ripetuto come se fosse un dogma per cui, almeno all’inizio, non si può che provare fascino e un po’ di invidia. Man mano che il film avanza, però, qualcosa inizia a incrinarsi nelle “giornate perfette” di Hirayama. Ciò che nelle prime scene sembrava semplicemente una vita tranquilla si trasforma ben presto in un disco rotto e, infine, in un vero e proprio disturbo ossessivo-compulsivo. È a questo punto che il film cambia forma e comincia a far intravedere Hirayama sotto una nuova luce. Assentarsi dall’adempimento dei suoi compiti quotidiani è simile per lui al turbamento vissuto dal personaggio di Desmond in Lost, costretto a premere un pulsante ogni 108 minuti per prevenire la fine del mondo. 

In questo senso, Hirayama è la “poker face” per eccellenza. A un livello superficiale veniamo stregati dal suo sorriso a trentadue denti, dai modi gentili e dall’amore per le piccole cose. Una spensieratezza stoica che, però, nasconde al suo interno un trauma molto più profondo. La sua è una rigida routine pensata in parte per liberarsi e in parte per soffocare un passato troppo doloroso, che vediamo emergere soltanto in sporadiche scintille. Come nella struggente sequenza dell’incontro con la sorella, che lascia intuire un rapporto piuttosto turbolento con il padre e il rifiuto, da parte di Hirayama, delle sue origini altolocate. Se in Ricomincio da capo (Harold Ramis, 1993) Bill Murray rimaneva imprigionato suo malgrado in un loop infinito nella Giornata della marmotta, qui è il protagonista stesso a scegliere di congelare il tempo. Un atto voluto per prendere le distanze dalla vita e trasformarsi da passeggero a semplice osservatore.

Ce lo conferma il fatto che, nonostante venga più volte posto di fronte a occasioni ideali per voltare pagina – l’evidente attrazione della proprietaria del suo locale preferito, il rapporto con la nipote o l’amicizia con la fidanzata del collega di lavoro – Hirayama si rifiuti categoricamente di coglierle, forse non ancora pronto a uscire dal suo bozzolo di false sicurezze. A testimonianza di una quotidianità ritualistica che è sia gabbia che trampolino di lancio verso un domani non meglio precisato. Da qui la scena finale, tutta giocata su un lungo piano sequenza del volto del protagonista, che lo vede alternare diversi stati d’animo, dal pianto alla gioia estrema, forse perché finalmente consapevole di essere a suo modo prigioniero di sé stesso e, quindi, lasciando aperta una porta a un futuro inedito. 

Perfect Days, però, non è solo il ritratto psicologico di un uomo ferito, ma anche due film in uno. Secondo le intenzioni originali di Wenders, infatti, Perfect Days doveva essere un documentario realizzato su commissione dall’amministrazione del quartiere Shibuya e incentrato sul Tokyo Toilet Project, un’iniziativa atta a incentivare l’uso di bagni pubblici all’avanguardia, abbattendo lo stereotipo che li vede associati a luoghi sporchi e degradati. È evidente che qualcosa sia cambiato in corso d’opera. Tuttavia Perfect Days non teme di mostrare un’anima più documentaristica, accompagnata da un rinnovato interesse per la cura degli spazi pubblici e da una descrizione dettagliata della città di Tokyo nelle sue mille sfaccettature. Caratteristica che ha contraddistinto tutta la filmografia di Wenders, da Fino alla fine del mondo, con le sue panoramiche di una Parigi futuristica, fino a Il cielo sopra Berlino (qui per quanto riguarda, naturalmente, la capitale tedesca).

A metà via tra Paterson di Jim Jarmusch e Smoke della coppia Paul Auster-Wayne Wang, vedendo Perfect Days si ha l’impressione di essere entrati troppo tardi in sala e di assistere, più e più volte, all’ultimo fotogramma prima dei titoli di coda. Il bellissimo epilogo di una storia a cui non abbiamo assistito. Un film per tutti quelli che si sono chiesti che fine avesse fatto Bromden dopo la fuga dal manicomio in Qualcuno volò sul nido del cuculo: in altre parole, com’è proseguita la sua vita? Dove se n’è scappato? È riuscito a ripartire da zero? Wenders decide di non mostrarci mai cosa sia successo nel passato di Hirayama, ma di focalizzarsi su un racconto (di transizione?) che parla di ferite, ossessioni e rinascita attraverso la gentilezza e l’amore per le piccole cose. Come i giochi di luci e ombre che scandiscono il passaggio dalla veglia ai sogni di Hirayama.