Il criterio assoluto della letteratura weird è la sottile e progressiva intrusione dell’Invisibile, dell’Inconcepibile, nel mondo che ci è familiare.
– Maurice Lévy

La città di Monza è antica quasi quanto Milano, la metropoli che da sempre orbita con un misto di ammirazione e indifferenza, sorella minore a un tempo fiera e invidiosa. Dal 2009 Monza è capoluogo di provincia, accorpata a quella Brianza con cui spesso viene confusa, ma quando ci sono nato, nel 1991, faceva ancora parte della provincia milanese.

Menziono questa metamorfosi amministrativa in quanto esempio flagrante di quei processi di mutamento a un tempo sottili e significativi di cui mi occuperò qui; uno dei tanti segnali innocenti e anche noiosi che, se collegati l’uno all’altro, fanno emergere una mappa portentosa e inquietante del rapporto tra capoluogo e satellite, tra capitale finanziario e umano.

Qualche anno fa scrissi un romanzo incentrato sul pluridecennale fallimento di estendere la metropolitana milanese quei cinque chilometri che la separano da Monza. Un romanzo che, a partire da questa quisquilia provinciale, tracciava un quadro fumoso e sinistro delle forze che governano la vita lombarda. Una storia in cui i giovani e ignari protagonisti scoprivano orrori sepolti sotto le fondamenta secolari delle loro case e tracce di mostruosità nel loro albero genealogico, fino all’emergere, appena oltre l’orizzonte narrativo, di ombre impalpabili a governare la vita della loro città.

Rimasi stupito quando nessun editore lo trovò interessante.

Monza, come dicevo, è città plurimillenaria. Gli edifici affacciati sulle vie principali del mio quartiere hanno un paio di secoli; proseguendo verso il centro se ne trovano di ben più vetusti, con scorci, nelle vie attorno al Duomo, di come la città potesse apparisse in epoca medievale, se non addirittura romana.

L’area esterna al centro città – i quartieri periferici, così come parte del territorio che separa la città da Milano – era però aperta campagna fino alla seconda metà del ventesimo secolo, quando il boom industriale spinse migliaia di persone a trasferirsi in questa zona. Nuovi quartieri vennero costruiti in un batter d’occhio. I borghi limitrofi, da piccoli centri d’industria e artigianato, esplosero fino a diventare città-dormitorio piene di condomini colossali progettati per ospitare i lavoratori delle fabbriche locali, o quelli che facevano ogni giorno i pendolari fino a Milano.

Il luogo in cui sono cresciuto è dunque profondamente urbano, che si parli dell’urbanità elegante e romantica di certe piazze in centro Monza, del tedio nervoso dei quartieri residenziali, o della severità decrepita delle sue zone industriali e periferiche; ma è al tempo stesso un luogo in cui i segni di un paesaggio scomparso in epoca estremamente recente si insidiano con tenacia in mezzo al cemento. Stesi in mezzo ai condomini e alle villette vi sono infatti un gran numero di lotti inutilizzati, campi squadrati spesso recintati, perlopiù coperti d’erba incolta e occasionalmente coltivati a mais.

Da bambino mi capitava di passare spesso davanti a questi lotti. Ce n’era uno vicino alla mia scuola elementare; un paio sulla strada per l’ospedale, dove mio papà, uomo assai sfortunato, era ricoverato con preoccupante regolarità; e moltissimi sulla via per gli appartamenti dei miei zii e cugini, tutti residenti in paesini attorno a Monza. Ogni volta che passavo di fianco a questi campi ero colto da una sensazione strana e potente, la stessa che sperimentavo leggendo Piccoli Brividi, la serie di libri horror per ragazzi di RL Stine, piena di mostri e maledizioni in agguato sotto la facciata oziosa del quotidiano.

Era una sensazione tanto sinistra quanto affascinante, un disagio diluito in una gran dose di meraviglia. Non me la sono mai scordata, anche se, per quasi trent’anni, la sua origine è rimasta un mistero.

I campi, infatti, per quanto incolti, non erano affatto spaventosi (e comunque non era paura quella che provavo), né assomigliavano in alcun modo alle ambientazioni suburbane e americane dei Piccoli Brividi. Credo che il motivo per cui avessero un tale impatto sulla mia sensibilità sia che operavano un processo di rottura, lo stesso che sta al cuore di molta narrativa fantastica, e soprattutto di quel genere noto come il weird: un’intrusione nel mondo razionale e ordinato del quotidiano di forze che sono nascoste, sconosciute, invisibili, o fuori dalla portata immediata della nostra comprensione e dei nostri sensi. Anche per un bambino, soprattutto uno nervoso e ipersensibile come me, era ovvio che quei terreni incolti non appartenessero al mondo di bar, negozi, e condomini in cui erano sospesi, mondo che peraltro a me appariva eterno e immutabile ben più delle Alpi all’orizzonte, offuscate dallo smog. (Ricordo quanto mi fosse difficile concepire l’idea che la gente, in epoche passate, non avesse la televisione. Che diavolo facevano tutto il giorno?) Ciascuno di quei lotti incolti era un’invasione, un messaggio che parlava di un mondo sconosciuto e parallelo, proprio come i mostri e gli oggetti magici nascosti nelle soffitte, nelle biblioteche, e nelle aule scolastiche dei protagonisti dei miei adorati Piccoli Brividi.

I ruderi delle fabbriche della periferia cittadina, e quelli ben più massicci e scheletrici di Sesto San Giovanni – l’ormai perduta “Stalingrado d’Italia” che separa Monza da Milano – sono altri simboli che hanno sempre stimolato il mio senso di stupore, stagliandosi contro i campanili delle chiese medievali e i profili dei grattacieli sorti di recente nel cuore della metropoli. Segni di mondi perduti ma non scomparsi, il cui spettro si impone su un paesaggio determinato a ignorarli.

L’angolo cittadino in cui ho sperimentato quest’atmosfera weird con maggiore intensità è però, probabilmente, il Parco di Monza. Uno dei parchi recintati più grandi d’Europa; una chiazza verde nell’oceano di cemento. Il Parco è cosparso di cascine, bar e punti di ristoro, ma spingendosi al di là dei suoi percorsi principali si possono raggiungere zone più incolte e silenziose; sentieri che, agli occhi di un ragazzino cresciuto tra i condomini e gli ipermercati, sembravano attraversare foreste primordiali.

La sensazione cresceva poi esponenzialmente durante l’estate, quando il Lavoro – vera religione dominante di questa terra – concede ai fedeli il proprio Ramadan, e Monza diventa una città fantasma. Il circuito di Formula 1, situato all’interno del Parco, diventa un mondo incolto e strano durante i mesi di luglio e agosto. Gli spalti deserti sono perlopiù accessibili. Erba e cespugli crescono fino ad avvolgere sentieri e recinzioni. In certi tardi pomeriggi d’agosto, quando il sole comincia a tramontare, si ha l’impressione di trovarsi in un mondo in rovina. Non tanto un futuro post-apocalittico, bensì un presente in cui il cataclisma è già avvenuto ed è già stato dimenticato. Un cataclisma che potremmo forse essere noi stessi, che coi nostri bisogni alimentari, abitativi e industriali abbiamo avvelenato un paesaggio che ora striscia tra le crepe dell’asfalto in cerca d’aria.

(La provincia di Monza è tra le più inquinate d’Italia. Di papà sfortunati, da queste parti, ce ne sono molti).

Credo che la mia sensibilità a queste intrusioni di un passato inquieto su un presente all’apparenza placido sia una delle ragioni dietro la mia enorme fascinazione per HP Lovecraft, autore weird per eccellenza. Lovecraft mi è caro poiché, come molti degli scrittori che più lasciano il segno sulla nostra immaginazione, sa descrivere cose che ho sempre provato, ma che prima di lui non mi sono mai riuscito a spiegare. Gli orrori più disturbanti di Lovecraft si annidano appena sotto la facciata di un paesaggio altresì blando, pittoresco e benestante (nel suo caso, quello del suo amato New England), per poi raggiungere le radici più remote della cultura che ha eretto questo paesaggio.

*

Sicuramente queste mie riflessioni sono esagerate. Mi paiono motivate dalla più becera auto-esegesi; ancora peggio, mi chiedo se non siano un tentativo di forzare i miei ricordi e le mie letture per piegare il mondo alle regole della letteratura, e così liquidarne i misteri. (Ma d’altronde tutti i protagonisti lovecraftiani si chiedono se il loro incontro con realtà incomprensibili non sia semplicemente uno scherzo operato dalla propria psiche). Eppure penso che mi faccia bene riflettere sull’impatto che queste intrusioni hanno sulla mia immaginazione. Quei campi abbandonati in mezzo al cemento mi parlano della rapidità con cui un paesaggio eterno è cambiato sotto la pressione di forze economiche, politiche e sociali: forze oscure e inarrestabili, divinità inintelligibili che operano sull’umanità plasmandone i sogni.

Mi ricordano che il mondo primordiale è in attesa sotto ogni edificio e strada, pronto ad emergere da ogni crepa fino a ingoiarli, così come le nostre nature animalesche sono sempre in agguato dietro la barriera dei nostri impulsi civilizzatori. Non è solo il paesaggio, in Lovecraft, a rivelarsi mostruoso: le sue storie sono piene di protagonisti che scoprono in sé stessi proprio quelle aberrazioni che stavano cercando di sfuggire. A Monza, il cui richiamo avverto con sempre maggior forza, non vivo ormai da dieci anni, ma più passa il tempo più mi rendo conto di come tutto ciò che io sono non sia altro che un prodotto della mia terra altera e avvelenata, agiata ed agitata.

I lotti incolti mi parlano, infine, di come fenomeni e realtà che è facile considerare relegati per sempre al passato siano in realtà perennemente vicini alla superficie del nostro presente. Una buona parte dell’area a nord di Milano era aperta campagna fino a settant’anni fa. Qualche anno prima era assoggettata a valori e ideali che mi sembravano incomprensibili quando li studiai da bambino.

La campagna è più vicina di quanto si pensi: anche in una delle aree più cementificate d’Italia è sempre in agguato in fondo alla strada, sotto alle fondamenta di casa tua. È possibile che altre forze un tempo considerate sconfitte – militarismo, autoritarismo, un’obbedienza feudale al denaro come forza auto-giustificatrice – aspettino solo il momento giusto per riemergere? La domanda è retorica: queste forze sono già tra noi; e comunque la maschera del mostruoso, insegna Lovecraft, emerge sempre in primis allo specchio.

Non è morto ciò che può giacere in eterno,
E col passare di strani eoni anche la morte può morire.
– HP Lovecraft