In attesa della cerimonia di premiazione della XLedizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 27 aprile alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Tocca oggi a Franco Stelzer, in cinquina con Stiratore di luce (hopefulmonster 2023).


Sorprende, in Stiratore di luce, l’ambientazione. Che, se dal punto di vista topografico è identificabile anche con grande precisione, risuona così esotica da somigliare a un luogo fuori da qualunque coordinata geografica. È legittimo pensare a un’ambiguità voluta, per cui la storia narrata assume allo stesso tempo le sembianze di verità ed emblema?

Certo che è voluta, l’ambiguità. Mi piacciono le storie che posseggono un’ambientazione quasi del tutto astratta, con magari solo qualche indicazione, non necessariamente chiarificatrice, che,  isolata, produce appunto una sorta di ambiguità sospesa. Ad esempio, nel racconto viene fornito un dato geografico, il Lorettoberg, ma senza specificare dove si trovi. Lorettoberg, poi, è di per sé un nome esotico. Ha a che fare con il famoso santuario in Italia, ma non mi sono mai curato di sapere  come sia arrivato a definire quella piccola altura sopra la città di Freiburg. E poi, nella pronuncia tedesca assume un tratto ancora più lievemente misterioso. D’altronde, a proposito di questa imprecisione sospesa, non ho inventato nulla… Vedi Kafka, Agota Kristof ecc…

Bodo affronta il mondo adulto con l’equipaggiamento emotivo e linguistico di un bambino: vi si getta senza ragionare sulle conseguenze delle proprie azioni e delle proprie parole. Al di là degli aspetti patologici della sua condizione, è corretto affermare che il personaggio di Bodo oppone una donchisciottesca resistenza all’invasione del linguaggio, delle relazioni, per cui si è chiamati a essere sempre pronti, scattanti e, con vocabolo che si qualifica da sé, multitasking?

Certamente. Bodo è portato, per definizione, a fare una cosa sola alla volta… Come i bambini, appunto, di cui infatti, in genere, è affascinante osservare la concentrazione assoluta e sospesa, quando giocano, quando creano una storia per le loro avventure ecc… Bodo riporta ogni cosa alla sua purezza iniziale, primigenia, virginale. Cercare di trovarne la voce ha rappresentato per me un bel momento di lavoro sul linguaggio. Quel limare solitario, concentrato e assorto dell’artigiano, che abbandona il pezzo solo ed unicamente quando ha raggiunto la propria levigata (e semplice) perfezione.

La terza domanda è parente della seconda. Bodo, è detto espressamente nel libro, conduce una vita piuttosto monotona, e l’impiego nella bottega di famiglia gli impone di ripetere ogni giorno i medesimi gesti.
Ma ciò non sembra un disvalore. Semmai il contrario: è quello che fa ogni buon artigiano (e dovrebbe fare un bravo scrittore), il quale si concentra sull’intensità anziché sulla quantità. In Stiratore di luce c’è dunque, in filigrana, una certa simpatia per l’artigianato, la dedizione, l’attesa?

In pratica ho già risposto. La concentrazione sospesa di certe attività – inclusa sicuramente quella di chi scrive – possiede per me un grande valore. E’ una sorta di piccola estasi. Quasi una forma di preghiera laica. Di meditazione profonda. Destarsi da questo imbozzolamento solo perché hanno suonato alla porta… (E magari è tua moglie, che ti porta un’ondata fresca dalla strada e tante novità in forma di racconto… Un’altra forma di bellezza!)

Infine, una domanda leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?

Beh, molto banalmente, c’è un Bodo in ognuno di noi. Forse questo potrebbe far guadagnare consensi al libro.