Vi sono scrittori che saggiano il proprio destino con la consapevolezza che qualcosa, della loro opera, finirà inevitabilmente per andare a catafascio. È ciò che s’avverte quando si è davanti a un autore i cui libri hanno seriamente corso il rischio di inabissarsi nei polverosi recessi delle biblioteche o, peggio, di finire inghiottiti dalle mobili sabbie del tempo. Alla penultima specie di scriventi appartiene senz’ombra di dubbio un poeta che merita di essere considerato a tutti gli effetti un classico del Novecento nostrano. Si tratta di Umberto Bellintani, del quale Mondadori ha appena ristampato Nella grande pianura, compiendo una vera e propria operazione di recupero.

Nato il 10 maggio del 1914 nella frazione di Gorgo a San Benedetto Po, Bellintani frequenta dapprima l’arte attraverso la scultura – diplomandosi all’Istituto per le Industrie Artistiche di Monza nel 1937, sotto l’ala complice del docente Marino Marini –, per poi abbandonarla gradualmente e, infine, esordire in poesia nel 1946. Al Premio Internazionale ‘Libera Stampa’ di Lugano, difatti, Bellintani condivide il secondo gradino sul podio, in ex aequo con Vittorio Sereni. Da qui, il suo nome inizia a circolare attraendo su di sé lo sguardo sempre vigile della critica di settore. A tenere in vita il suo ricordo saranno principalmente i suoi lettori più forti, Suzana Glavaš e Maurizio Cucchi. Con entrambi, il poeta intrattiene un dialogo continuativo durante l’arco della sua vita, sia privata che artistica.

A seguito dell’esperienza bellica su territorio albanese e greco e a lato degli anni di prigionia nei campi di lavoro tedeschi, così come a causa del suo temperamento, Bellintani sposa definitivamente la poesia e stringe amicizia con Parronchi.

A dispetto di tutto ciò, la sua indole e le circostanze lo consacrano quale intellettuale particolarmente distante dai circuiti sottesi a regolare il mondo delle lettere. Dunque, Bellintani si isola volontariamente, un po’ per innata modestia e un po’ per via d’un ambiguo sentimento – che forse oggi diremmo d’inferiorità –, fino a vedersi scomparire dalla scena. Eppure, nel 1998 Cucchi riesce a pubblicare un volume antologico – Nella grande pianura – all’interno della collana Lo Specchio di Mondadori, sottraendolo ad anni di silenzio. Tuttavia, a un anno dal suo felice ritorno in libreria, Bellintani si spegne attorniato dalle mura domestiche.

La poesia di ‘Berto’ è costantemente in bilico fra il mondo classico, nel quale affonda le sue radici, e una dimensione primitiva in cui ristagna la presenza animalesca della fauna da egli poetata (gatti, iene, topi, bufalo, asini, grilli, gorilla, rondini, ranocchi, eccetera). Essa non è sovrapponibile a quella della cosiddetta linea lombarda; eppure, antologizzati nel ’54 da Piero Chiara e Luciano Erba, i versi del poeta di Gorgo si distinguono ancora oggi tra tutti quelli editi sulle pagine di Quarta generazione. Alla riflessione lirica e metafisica del suo percorso poetico, Bellintani coniuga un andamento visuale altalenante del verso sulla pagina; in sostanza, innalza una suspense del dire per mezzo del bilanciamento di una versificazione più fluida e prosaica che fa da contraltare ad una versificazione più incisiva, quasi frammentata dal vigore degli enjambements: «E da qui usciremo, è dove | Caino schiaccia la dorifora | e prima o dopo accoltella Abele» (p. 202).

A sveltire il sentimento nel flusso della sua versificazione contribuiscono gli innumerevoli rimandi agli «immediati dintorni» del suo cuore – per prendere in prestito un’espressione di Sereni –, ovverosia quei luoghi natii, dal sapore d’infanzia, in cui tutto l’epos del verso bellintaniano si innerva.

Tra i componimenti di chiara ascendenza panica, si ricordi almeno Dolce chiude l’ora di sera, dove regna un arcano sentore di pacifica connivenza fra l’umanità «e i coccodrilli». In una sua recensione apparsa sulle pagine online dell’osservatorio poetico Laboratori Poesia, la studiosa Olga Cirillo ha condensato in poche righe una riflessione calzante circa il panismo bellintaniano:

Un panismo alternativo, quello di Bellintani: un amore sconfinato per il luogo della sua vita, per quell’orizzonte di semplicità bucolica dove, però, non basta rifugio e schermo a trovare pace. Dove si insinua l’ombra della storia, e più ancora l’orrore della cronaca. Con qualche tenue passaggio dedicato a parentesi di amori poco o mai vissuti, all’ombra di un regime familiare, ancestrale e rassicurante nelle sue forme autentiche e certe, il poeta di Gorgo viaggia tra un ricordo e l’altro, un timore e un desiderio, un fremito e un sussulto, ma trova il vigore più autentico quando traduce in epitaffi le corde della sua ispirazione[1].

Nella poesia di Umberto Bellintani vi è la vita intera, nel bene e nel male. Chi ne leggerà si sentirà talmente avvolto dal suo tepore che non potrà fare a meno di sentirsi al contempo schiacciare, costretto dalla crudeltà dell’esistenza.

Che si tratti delle golene e dei pioppeti oppure degli animali che popolano i meandri del Po e della Bassa mantovana, la penna di Bellintani compone delle poesie di strabiliante grazia e tempra espressiva. In effetti, sin dal suo libro d’esordio, intitolato Forse un viso tra mille (Vallecchi, 1953), l’autore elargisce una poetica che gronda una virulenza del verso quasi spasmodica, le cui contrazioni ne evidenziano «la volontà di perseguire un chiaro decoro letterario nei toni e nei modi»[2].

Eppure, come ha rilevato Marco Pelliccioli in un suo articolo apparso il 4 febbraio scorso sulle pagine de «L’Ordine» – supplemento domenicale de «La Provincia», il nostro «ricorre a incipit colloquiali e strutture fàtiche (alla Raboni) che introducono testi di denuncia civile, come Ai pinco pallino galoppanti, dimostrando una capacità di muoversi in nuove e diverse direzioni»[3].

In conclusione, l’arcano dei suoi versi traspare persino dai componimenti più prosaici, apparentemente più colloquiali e narrativi, poiché il dettato bellintaniano scorre dal registro alto a quello più basso con scioltezza, come ha notato il curatore della nuova edizione accresciuta di Nella grande pianura. Ma buona parte della propria cifra stilistica Bellintani la condensa proprio qui, fra le sue pagine più improbabili; e nei versi più schivi e umani, popolareschi, come quelli che dedica a Tutti coloro che ha in cuore: «A me basta | essere nato per esprimerti | e riconsegnarti adesso questa voce | del cuore che mi hai dato» (p. 253). Bellintani è stato, è, e sarà una voce fuori dal coro, senza tempo perché nel tempo.


Umberto Bellintani, Nella grande pianura, Mondadori, Milano 2023.

[1] https://www.laboratoripoesia.it/nella-grande-pianura-umberto-bellintani/. Pagina consultata il giorno 08/02/2024.

[2] Maurizio Cucchi, Introduzione, in Umberto Bellintani, Nella grande pianura, Milano, Oscar Mondadori, 2023, cit. a p. VIII.

[3] https://ordine.laprovinciadicomo.it/archivio/pagina/COMO/2024/2/4/2/4542/. Pagina consultata il giorno: 08/02/2024.