Ci sono molti modi per definire un labirinto. Per il Borges de L’immortale il labirinto è «un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura […] è subordinata a tale fine». Eco da parte sua, in una celebre introduzione a Il libro dei labirinti di Paolo Santarcangeli, ne distingue tre modelli fondamentali: l’unicursale (il labirinto del Minotauro, con un’entrata e un’uscita, percorribile dispiegando e poi seguendo a ritroso un filo di Arianna), quello manieristico o multivario (costituito di successioni di bivi e biforcazioni, dove tutti i percorsi portano ad un punto morto tranne uno) e per ultimo la rete infinita (e una rete non può essere srotolata: non c’è interno o esterno e può proliferare all’infinito).

Labirintica è Venezia, di fama e nella pratica. A visitarla, sicuramente si ha l’impressione di rimanere incastrasti in una rete senza termine, simile a quella del terzo tipo echiano. Ma Venezia è anche una città che, borghesianamente, confonde. È questo che si prova a perdersi tra le calli, deviare dagli itinerari, gironzolare senza meta, prendere una direzione convinti di arrivare a destinazione per poi bloccarsi e ritentare all’infinito.

Costruita su 121 insulae, collegata da 436 ponti: Venezia è una città non conforme al lineare, un posto dove il percorso più veloce da un punto A a un punto B quasi mai è la retta. Non c’è persona che visitandola non si sia smarrita, più o meno intenzionalmente. D’altra parte, non c’è guida che questa esperienza – paradossalmente – non la raccomandi. “Perdersi per Venezia” è quasi un imperativo per l’avventore, che riceve questo suggerimento come la rivelazione di un segreto prezioso che in realtà è stato rivelato a chiunque: un esercizio di cui tutti siamo unanimemente chiamati a godere.

È curioso però che questo labirinto sia tutto terrestre. Nella vita di Venezia, a guardare bene, l’acqua è spesso stranamente rimossa: tutti vengono a vedere la città nata sull’acqua, pochi però quell’acqua la frequentano. Trattata sovente come un impaccio logistico o una caratteristica pittoresca, chi prova i canali o la laguna aperta quest’esperienza la fa al più in modo fugace e addomesticato: che sia per un viaggio strumentale su un vaporetto o per la gita scenografica di pochi minuti su una gondola.

Si viene a Venezia, dicevamo, e a piedi se ne rimane fatalmente imprigionati: come persi e confusi. Vi è però una via per provare ad uscire dal labirinto e dalla massa di persone che lo affollano: la via, per l’appunto, dell’acqua. Quel reticolo di canali e di rii che, a osservarlo su una mappa, sembra più intricato e occludente di qualunque passaggio su terra, può essere invece una linea di fuga.

Quando ho deciso di vivere a Venezia, quasi d’impulso, ho deciso di imparare a vogare. Dopo qualche mese avevo già preso una barca a remi. Non da solo, ma con amici: amici diventati tali proprio attraverso la voga. Si tratta di un sandolo, una imbarcazione tradizionale tra le più diffuse un tempo a Venezia: in legno, piccola e essenziale, spoglia e buona per trasportare merci o persone, non ha motore e si usa solo a remi. Non “pesca” che pochi centimetri: questo significa che è poco profonda e quindi, con il fondo piatto, può andare praticamente ovunque. Ci è stata venduta da una coppia di amici che vivono sull’isola della Giudecca. Anche loro l’avevano acquistata a suo tempo da qualcun altro: la sua identità si è persa nel tempo. Di anno di nascita incerto ma padre noto (il cantiere Amadi di Burano), ha almeno 40 anni.

La nostra barca era orfana di nome. Glielo abbiamo quindi dato noi e ora si chiama Minarai (見習い): significa “imparare osservando”, che è il modo giapponese per indicare l’apprendistato. E l’apprendistato anche a Venezia funziona allo stesso modo, soprattutto nella voga: non ci sono manuali, non ci sono tecniche formali e nemmeno una pedagogia dichiarata. Si guardano i vecchi e si impara osservando.

A salire su una barca a remi, dicevamo, la prospettiva si riarticola: curiosamente, il labirinto sembra dipanarsi, la rete inestricabile dall’acqua diventa territorio, lo sguardo si orienta nuovamente e scopre nuovi posti. La città si rinnova e mostra la sua vita, anche se da terra molti non la vedono e – anzi – la pensano già morta. Dall’acqua la vista si rimodula e forse si riconoscono luoghi che non si pensava di vedere.

Saliamo quindi su Minarai e proviamo a girovagare: scopriremo che i casi in cui questo accade possono essere numerosi. Si può ad esempio passare per il Canal Grande, infilarsi in un rio strettissimo e percorrerlo fino ad arrivare letteralmente al di sotto della chiesa di Santo Stefano. Più precisamente, al di sotto della sua abside: costruita sopra all’acqua, custodisce un passaggio per le barche accessibile solo con la bassa marea. Un luogo sacro che non ostacola lo scorrere mondano della città attorno ad esso. Si può quindi proseguire sullo stesso rio per scoprire di essere sul fianco di Palazzo Pisani, sede del Conservatorio Benedetto Marcello, e vogare lentamente mentre si è avvolti dalle armonie degli archi dei musicisti intenti nello studio.

Gironzolando nella stessa zona, quella tra l’Accademia e Piazza S. Marco, capita anche di seguire il tracciato dei rii e poi sbucare davanti alla porta d’acqua del Teatro La Fenice: un accesso sfarzoso, imponente e monumentale, ma praticamente invisibile se non dai canali che lo attorniano. Progettato nel Settecento come punto di ingresso principale al teatro, è ora un accesso di servizio, utilizzato principalmente per il carico/scarico delle attrezzature.

Dall’acqua quindi si scoprono nuovi accessi alle cose: così come gli ingressi di alcuni tra i bacari più smaliziati. Ad esempio quello di Francesco, che ci consente di ormeggiare a fianco della sua barca, davanti al pontiletto della sua osteria. Entrando al locale dall’acqua, si apre una porta e «si ha l’impressione di entrargli direttamente in cucina», come mi ha riferito divertito un amico foresto (forestiero, ovvero non veneziano) che ho portato in barca con me qualche giorno fa. E l’impressione di intimità e cordialità con gli osti diventa la medesima di quando finisci a casa di un ospite in una cena improvvisata tra amici.

Dall’acqua, con una barca a remi, i rapporti con le persone mutano: chi ti vede dai ponti o dalle fondamenta ti guarda incuriosito, i gondolieri ti salutano per lo più cordialmente e accettano con bonomia una eventuale poca scaltrezza nelle manovre. Con una barca a remi cambiano i modi di relazione: le possibilità si aprono, le situazioni diventano un poco più informali e così cambiano anche i luoghi. Lasciando la barca ormeggiata a Campo San Barnaba, ad esempio, può capitare che un gruppo di anziani si raduni spontaneamente per osservare, discutere e – soprattutto – criticare. La manutenzione, l’ormeggio o quant’altro: infiniti possono essere i pretesti. Ma questo è un modo tutto veneziano di dimostrare cura e vicinanza: di riconoscersi. Allo stesso modo, passando sotto un ponte di quelli che intervallano la lunga Strada Nova, a Cannaregio, non è raro trovare qualcuno che passeggiando ti istruisca su come meglio gestire la barca: e lo fa sempre in dialetto, spesso urlando. Non sembrano modi gentili, possono certo essere presi come ostici ma, con il tempo, si apprende che più che maleducazione esprimono un senso tutto storto e veneziano di intendere la familiarità.

Visti dall’acqua, anche i modi con cui le barche sono assicurate alla riva sono differenti, ancora più bizzarri ed eccentrici. A Venezia ogni pezzetto di canale è impegnato da uno scafo di qualche tipo, in apparenza oltre ogni razionale plausibilità. Con il tempo si apprende tuttavia che una logica che governa questo fenomeno, concreta e contorta, esiste. In molte zone della città, di fatto, un “posto barca” autorizzato e personale è impossibile da ottenere. Gli stalli sono stati assegnati molto tempo fa e mai più aggiornati. Negli anni si è attivato quindi un tessuto di concessioni mobili e informali per cui – come la lettera rubata di Edgar Allan Poe – ogni barca manca al suo posto. Osservando le barche ormeggiate nei vari canali si può ricostruire il loro motivo d’essere: relitti a fondi che non vengono rimossi proprio per non lasciare spazio ad altri, gommoni da spiaggia ormeggiati su spazi per barche di dimensioni ben più grandi, scafi attraccati nei più clandestini (e irregolari) anfratti pur di avere un alloggio temporaneo.

Il tema del diritto alla casa si applica insomma anche alle imbarcazioni. Per alcuni versi, anzi, questo scenario sembra uno specchio non molto deformato della situazione abitativa della città umana, dove diventare residenti appare una chimera e avere un affitto continuativo e regolare è purtroppo un privilegio per pochi. Mentre gran parte degli immobili viene sottratta alla residenzialità per usi più lucrativi, le case di proprietà del Comune rimangono non assegnate a chi ne avrebbe diritto: come riporta l’osservatorio indipendente OCIO [Osservatorio CIvicO sulla casa e la residenza], più di 2.000 alloggi di proprietà del Comune di Venezia sono al momento vuoti.

Girando per rii si possono anche scoprire degli angoli di città che sembrano bloccati nel tempo. Come ha notato Cees Nooteboom, scrittore olandese, grande viaggiatore e frequentatore di Venezia: «l’anacronismo a Venezia è l’essenza delle cose». A ben guardare, più che di anacronismo si tratta di complanarità di tempi diversi. Può capitare quindi di trovare cocci di vetro seicentesco sulle rive dove approdano i vaporetti (penso alle rive di S. Alvise che guardano l’isola di Murano), o cucine di design ultra-moderno che si fanno ammirare attraverso porte d’acqua di diversi secoli fa. Il luogo giusto per capire Venezia è quindi forse l’antiquario, che contiene tutti i tempi in un solo posto. Per questo ci avviciniamo a Dorsoduro per raggiungerne uno in particolare. Un negozio, senza riscaldamento e da sempre ricolmo di oggetti di ogni tipo e valore, che ad esplorarlo con attenzione custodisce anche un piccolo tempio della voga: attrezzi, forcole e remi di varia fattura. Come i saperi alchemici custodiscono le leggi per mescolare le materie, così il proprietario della bottega governa in segreto più scienze e tecniche: è antiquario e remer, cioè l’artigiano che ripara e costruisce i remi in legno per le barche tradizionali. Questo però Sandro lo rivela solo agli iniziati, solo a coloro che hanno gli occhi per vedere: per gli avventori occasionali, rimane un venditore di modernariato. Sandro ha il volto affilato, gli occhi vividi e la barba bianca lunga di un San Girolamo. Lui ci ha aggiustato i nostri vecchi remi. Di recente ci ha anche dato i remi che ha vogato negli ultimi anni: a lui non serviranno più. A breve chiuderà il negozio, gestito dalla sua famiglia da tre generazioni. Ha deciso che non vale più la pena tenerlo aperto. In questo momento lo sta svuotando: andrà a vivere in Brasile.

La barca a Venezia è anche lo strumento iniziatico per accedere ad esperienze che non potrebbero essere fatte altrimenti. Penso ad esempio al cinema allestito all’interno del bacino dell’Arsenale. Penso anche al “Cinema Galleggiante”, che ogni anno a fine estate viene montato su una grande zattera al largo dell’isola della Giudecca. Entrambi sono raggiungibili solo con un’imbarcazione, o facendosi trasportare da una barca in piattaforma. In entrambi gli eventi l’organizzazione è gestita da associazioni locali e prevalentemente da giovani volontari. In due modi e punti antitetici della città (un cinema guarda alla laguna nord e l’altro emerge nel mezzo della laguna sud), per qualche settimana all’anno aprono la visione ad un mondo altro che resta precluso a chi a Venezia ci cammina soltanto.

In molti di questi luoghi si potrebbe andare anche con una barca a motore, certo. Ma muovendosi a remi la geografia cambia: le distanze si allungano e il tempo di viaggio diventa più dilatato e, insieme, più intenso. I tempi lunghi sono quelli ideali per una gita nella laguna. Magari verso l’isola di San Giorgio, a esplorare l’anfiteatro ora in disuso e ormai integrato con il verde dell’isola. Oppure andando ad attraversare i canneti delle Vignole. O verso l’isola di Poveglia: viaggiando da solo alla valesana (la tecnica di voga a due remi) e decidendo di partire dall’isola della Giudecca, con Minarai si impiega poco più di un’ora ad arrivarci.

Dal punto di partenza e guardando l’orizzonte della laguna sud, Poveglia non si vede. Non perché troppo lontana, ma perché nascosta da un’altra isola. Si tratta di Sacca Sessola, ora rinominata “Isola delle rose” con un vero e proprio atto di cosmesi semiotica: isola artificiale creata con il materiale degli scavi del porto di Santa Marta, fu luogo di coltivazione, poi sanatorio per i tubercolotici, poi ospedale. Da qualche tempo è stata data in concessione a un gruppo privato che gestisce hotel di lusso. Il parco all’interno dell’isola è pubblico, ma questo non vuol dire che sia accessibile. Quando nella bassa stagione l’hotel chiude, ad esempio, non è possibile andarci: se vorrai tentare, troverai dei solerti custodi che ti inviteranno ad andare via perché “l’isola è privata”.

Poveglia è invece ancora pubblica e coperta da una vegetazione selvaggia e rigogliosa. Si tratta di uno degli insediamenti più antichi della laguna: abitata fin dal VI secolo, fu florido e indipendente centro di commercio nel Medioevo, poi lazzaretto, poi ospedale. Ora, disabitata e accessibile solo tramite barche private, è diventata terreno di identità e di militanza per tanti veneziani. Nel 2014 il Demanio mise la concessione dell’isola all’asta e, per sventare la speculazione, l’associazione “Poveglia per tutti” lanciò un’iniziativa di azionariato popolare con lo scopo di mantenerla pubblica e creare un parco per la collettività. La vendita non andò a buon fine in nessuna delle direzioni possibili, l’isola rimase al Demanio ed è tutt’ora abbandonata a sé stessa. L’associazione è però ancora attiva in costanti iniziative di presidio, di pulizia e manutenzione del verde: con la propria barca (o facendosi trasportare da qualcuna delle loro) ci si può unire e contribuire.

Minarai ha il suo posto barca alla Giudecca, nella zona di Santa Eufemia, ed è qui che il nostro percorso si conclude. A pochi passi dall’ormeggio, la casa di reclusione femminile di Venezia. Convento di monache in un tempo antico, si trova sulla fondamenta denominata per l’appunto “delle Convertite”. Proprio sulla traccia delle monache che gestivano coltivazioni e serre, anche in carcere è stato sviluppato un orto variegato, con quaranta tipi di ortaggi che alimentano i banchi del mercato ortofrutticolo del giovedì mattina. Un mercato che si svolge davanti alle porte del carcere, gestito direttamente dalle detenute.

In altri giorni dell’anno è invece possibile varcare quell’ingresso, superare i controlli di sicurezza e accedere all’interno della casa di reclusione per assistere agli incontri tra scrittori e detenute: se ne occupa l’associazione “Closer”, che con questa e altre attività cuce una relazione tra il dentro e il fuori attraverso la parola letteraria.

Percorrendo la Fondamenta delle Convertite si arriva infine a campo San Cosmo: un campo in senso letterale, dove cresce ancora l’erba dato che il terreno non è mai stato coperto dalla pavimentazione. Lì potremo conoscere Aron e Daisy: i cani della famiglia di pescatori che nel campo abita, usandolo come zona di lavoro. Non lontano i pescatori ormeggiano le barche, scaricano il pesce, districano le reti o selezionano le moeche (i pregiati e sempre più rari granchi di laguna). Aron e Daisy osservano i lavori: nel periodo estivo, potremo trovarli a troneggiare sulle scale della Chiesa di Santi Damiano e Cosma, dioscuri a guardia delle cose.

Questo girovagare acqueo per Venezia ci ha forse fatto intravedere una città minore in contrasto a quella maggiore, monumentale, celebre: che apre spazi di possibile ignoti a chi la conosce solo camminando. Una città concreta, fatta di relazioni e di socialità, di vita quotidiana: di difficoltà e frustrazione, così come di occasionali epifanie.

Sappiamo che Venezia, vista da una mappa, ha la forma di un pesce. Percorrendo la via dell’acqua ci sembra però più simile a un’esca, che aggancia tutti ma in particolare chi passa a filo di laguna. È un’esca che ti trattiene, ma non è chiaro con quali intenzioni.

A viverla da una barca Venezia irretisce, ma per qualche ragione non persuade fino in fondo. Questa Venezia minore è come se rivelasse un tono della città preciso e indefinibile insieme. Una forma di attrazione intensa, eterna e contingente: che sembra promettersi per sempre ma che potrebbe comunque terminare il giorno dopo, senza colpa di nessuno.

Alcuni di coloro che sperimentano questi tratti ne rimangono avvinghiati per tutta la vita, come storditi. Molti a un certo punto ne vengono espulsi, come traditi da promesse troppo grandi: e sono due facce dello stesso destino. 

Venezia è una città splendente ma anche difficile: è complicato abitarla, è complicato lavorarci. Anche a esplorarla negli interstizi, anche a scrutarla da una barca, concede una bellezza inedita e allo stesso tempo ferisce e delude. È come diceva Brodskij in Fondamenta degli incurabili: «in questi lunghi anni […] credo di essere stato felice e infelice quasi in egual misura».

Ci si ritrova a Venezia come due amanti: il paesaggio e lo sguardo, la città e chi la attraversa. Forse è una storia che è già stata scritta in un romanzo, in altro modo ma a guardare bene con le stesse parole: quelle di Fruttero&Lucentini ne L’amante senza fissa dimora. Nel libro, che in apparenza ha la trama quasi banale di un romanzo sentimentale, i protagonisti a Venezia si conoscono e proprio tramite Venezia si riconoscono. Ciò accade loro percorrendola e attraversandola. Insieme, fino a quando il tempo glielo concede: «galleggiando fianco a fianco ma come se da un minuto all’altro una latta vuota, un remo, un palo dipinto d’azzurro potessero separarli facilmente e definitivamente».

E se a Venezia ci si ritrova come due amanti, gli amanti in realtà sono l’uno la città, l’altro noi – che ostinatamente ci incaponiamo a viverci. È sempre il gioco dell’acqua, della corrente, delle onde: della marea che irretisce, avvicina e poi respinge. A Venezia si dice dell’acqua che sìe ore ea cresse, sìe ea càea: per sei ore cresce, per sei ore cala. È un riferimento al moto della marea, che in un ciclo continuo si alza e si abbassa. È anche un inno dialettale al fatalismo: un modo per dire che la vita è circolare, che al brutto succede il bello, che è inutile affannarsi perché tutto alla fine va come deve andare. Ma un proverbio può essere anche un inganno: il gioco costante dell’acqua che entra ed esce dalla laguna può anche portarti altrove. Un remo, un palo dipinto d’azzurro, un’occasione possono spazzarti: lasciando tutto il resto così com’è.

Percorrendo Venezia si ha l’impressione insomma di essersi sbagliati. Il rischio (anche da una barca, anche dai rii) è sempre quello di rimanere irretiti o incastrati, nonostante i più tenaci tentativi e le più eccentriche esplorazioni. Catturati per l’ennesima volta dal labirinto costruito per confonderci, un labirinto ancora più difficile da risolvere di quello da cui siamo partiti. Forse, a volte, la soluzione è ancora nell’acqua. Prendere la barca e uscire, vogare e guardarsi attorno. Se si è fortunati e l’acqua è calma, capita di vedere i pesci (siegoi, orate) che saltano sopra la superficie della laguna per poi rituffarcisi. Può poi capitare, specie al tramonto, di uscire in laguna nell’esatto momento in cui la luce satura l’aria: l’alto non è più discernibile dal basso, l’orizzonte cessa di essere una linea di confine e, in questo spazio, anche lo sguardo svanisce.

[le foto sono dell’autore con contributi di Davide Tosi e Inès Rocques, compagni di acqua]