Pavese ne Il mestiere di vivere scriveva: «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta».

È proprio la dimensione del ricordo che domina le pagine dell’ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, offrendo al lettore un’esperienza dai risvolti inaspettati e capace di parlare – scuotendolo – al nostro presente.

Il pretesto narrativo è tanto semplice quanto capace di smuovere violentemente l’intima serenità della protagonista: Lucia, madre di Amanda e voce narrante dell’intero romanzo, si ritrova – in un momento che si desume essere collocato durante il corso della recente pandemia – a fare i conti con il ritorno a casa della figlia, ventenne universitaria, la quale si rintana nel silenzio e in un depresso scollamento dalla vita dopo un soggiorno a Milano che il lettore capisce essere stato segnato da un evento traumatico: «A un certo punto perdiamo la presa sulla vita dei figli. Vanno da soli e ci guardano spietati. […] La vita segreta dei figli. Sappiamo che esiste, ma non siamo mai pronti a toccarla» (pp. 96-97). Amanda si chiude in camera, mangia a stento e cerca di evitare qualsiasi contatto con quel mondo che pare averla delusa irrimediabilmente.

A questo rapporto contrastivo con la figlia, per Lucia viene a sommarsi l’incombenza dell’eredità di suo padre – ancora in vita ma deciso a disimpegnarsi della responsabilità dei propri averi. Nello specifico, il problema più ostico risulta essere quello legato al destino di un suo terreno – denominato Dente del Lupo– che si è stratificato «su tragedie e disastri» (p.56) e che ha inciso a fuoco la memoria del paese vicino a Pescara nel quale la vicenda è ambientata: tre ragazze – due sorelle in vacanza e un’amica storica di Lucia, Doralice – disperse nei boschi si fanno custodi dei risvolti macabri di questo libro.

È il Dente di Lupo il luogo che riconduce Lucia alla propria memoria, a quel momento che ha scandito indelebilmente la sua storia, mostrandole come l’apparente amenità del mondo rurale nel quale è cresciuta può diventare teatro delle mosse del male dell’uomo: «A un certo punto la vita accelera. Dopo tutto resta fissato a un’immagine, un suono del momento. Si torna sempre lì» (p. 67).

Il trauma imperscrutabile di Amanda e la sorte del terreno del padre – già preda di uno speculatore edilizio dalla fama discutibile ma pronto a mettere mano al portafoglio – sono precursori dell’immersione del lettore nell’universo del ricordo di Lucia, la quale – per l’appunto, come se lo vedesse per la prima volta – ricostruisce il quadro della vicenda di cronaca nera che ha trovato tra gli alberi del Dente del Lupo il proprio avverarsi. Ecco allora che il lettore viene messo a conoscenza della scomparsa delle ragazze, della caccia all’uomo, della famiglia delle due sorelle disperse smembrata dalla perdita, dell’ambiguità di un paese che oscilla tra solidarietà e reticenza, dell’ennesima testimonianza del fatto che «dove arriva l’uomo, può portare il male» (p. 150). Chi legge ricapitola la storia della protagonista, sviluppatasi attorno a un nucleo profondamente infausto: un incontro con la morte altrui precoce, violento e foriero di sensi di colpa che torna a farsi sentire nel presente di Lucia in maniera bruciante, come se volesse affidarle un nuovo insegnamento mai sospettato prima.

Nella risonanza tra passato e presente della protagonista che scandisce il ritmo ondulatorio e carico di tensione della narrazione, il lettore svela la storia di una donna che mostra le proprie ferite al pari di strati sovrapposti di una roccia sedimentaria: il distacco da Amanda, il divorzio in sospeso con Dario, il rapporto con il padre e con la sua eredità, il vecchio legame con Doralice. Un ritratto, quello di Lucia, che risulta affascinante esattamente nel momento in cui è più spogliato, inerme, minacciato nella propria femminilità – di madre, di figlia, di moglie e di amica – e instabile nel suo continuo abbandonarsi al richiamo del ricordo. Ed è proprio grazie al continuo rimembrare vecchi avvicendamenti che questi sembrano rivelare il proprio insegnamento nascosto, capaci infine di trovare una propria risoluzione, concedendo un nuovo rasserenato equilibrio anche alle inquietudini presenti: Lucia riesce a trovare una sua intima chiave di volta, utilizzata per riallacciare il rapporto con Amanda e per decidere finalmente che sorte destinare all’eredità del Dente del Lupo.

In questa storia divisa in cinque parti, avvincente alla stregua di un noir, grazie alla lente offerta dall’intimità della voce narrante di Lucia, si sondano alcune tematiche care all’autrice – la genitorialità, la donna chiamata a relazionarsi con un mondo ritagliato su misura maschile, la difficoltà intrinseca della vita. Proprio attraverso questa esplorazione si viene a creare un ponte saldo con la nostra contemporaneità, alla quale viene lanciato un messaggio diretto ed eloquente: in un anno nel quale la cronaca ha spesso rivolto la propria attenzione su casi di violenza di genere e su alcune proposte volte a scardinare il dogma classico-tradizionale della famiglia – volente o nolente, difficile dirlo – questo romanzo aggiunge la propria voce a un dibattito che si fa sempre più corposo. Una voce a tratti inedita e affatto scontata: nonostante la parvente fragilità, è della donna la forza intrinseca a saper gestire le resistenze di luoghi impervi – fisici ed emotivi – spesso risultanti tali perché soggiogati dall’arroganza maschile; quello che Di Pietrantonio suggerisce in ogni sua opera è l’inversione del paradigma, per l’autrice possibile attraverso una messa in discussione del consueto rapporto genitore-figlio, dove l’educazione possa risiedere nella sensibile tenacia della donna.

Che Di Pietrantonio faccia dell’indagine del legame genitore-figlio una delle pietre d’angolo della propria narrativa non è una novità. Anzi, si potrebbe addirittura suggerire che sia la genitorialità il filo conduttore che, con diversi gradi di esplicitazione, lega tra loro tutti i titoli che la scrittrice ha scritto fino a oggi. Basti pensare al suo romanzo più famoso, nonché vincitore del Premio Campiello 2017, L’Arminuta (Einaudi), o al suo folgorante esordio letterario avvenuto nel 2010: Mia madre è un fiume (Einaudi).

È questo che rende Di Pietrantonio un’autrice dirompente – nonché amata – nel panorama letterario italiano odierno, non solo per la corposa rosa di lettori che raccoglie a sé, ma anche per la schiera di colleghi che negli anni non le hanno mai risparmiato continue attestazioni di stima. Murgia, in occasione dell’uscita di L’Arminuta disse che Di Pietrantonio «è una delle voci letterarie più rilevanti, più significative, più letterarie del panorama italiano»; Bentivoglio, invece, in concomitanza con la pubblicazione di Bella mia (Elliot, 2014; Einaudi, 2018) è arrivata a definire l’autrice «una furia espressiva che chiede ascolto».

A ciò, si aggiunge la capacità dell’autrice di disegnare sulle pagine protagoniste femminili squisite alla lettura proprio perché straordinariamente credibili. Questo è di certo l’altro comune denominatore della sua opera: il riportare al lettore figure di donne autentiche, lontane da sentimentalismi e travestimenti romanzeschi; le donne di Di Pietrantonio risultano ruvide, indurite dal dolore – spesso legato alla sfera della perdita –, in un continuo stato di resistenza a quella vita che si presenta loro avversa e davvero difficile da accogliere con spensieratezza. Oltre alla figuralità delle tre dimensioni della descrizione, nei romanzi dell’autrice la donna scommette la propria verosimiglianza sulla quarta dimensione: quella dello scavo introspettivo. Che siano impelagate in relazioni – sentimentali o familiari – bifide e problematiche o circondate da luoghi tendenzialmente ostili e testimoni di eventi drammatici, queste figure femminili magnetizzano l’attenzione per la loro intimità messa a nudo, abbacinante nel suo essere spudorata, come un segreto proibito esposto in bella mostra e, proprio per questo, sovversivo e disturbante. Un esempio è contenuto nelle pagine di Bella mia o Borgo sud (Einaudi, 2020). La Donna che Di Pietrantonio (de)scrive, in definitiva, sussurra al lettore attraverso carta e inchiostro un’unica certa verità: la realtà, e quindi la vita, non è semplice.

Nella narrativa Di Pietrantonio – per utilizzare nuovamente un’espressione de Il mestiere di vivere cara a Pavese – la potenza letteraria risiede proprio in questo: «Nelle sue pagine la vita è terribilmente chiara». Non si leggono i suoi romanzi se si è alla ricerca di esiti felici, ma lo si fa per trovare un riscontro esperienziale sincero, spesso doloroso e commovente. Attraverso una prosa scarna, rapida e petrosa come le rime dantesche, l’autrice restituisce un referto lucido e aderente all’effettiva indocilità della realtà a quella prova magmatica che è la vita. In questa assenza di orpelli retorici e di mistificazioni narrative, la storia raccontata in L’età fragile emerge dalla pagina con vividezza travolgente, consentendo un’immersione efficace nel testo a favore del lettore. Quelli che, riga dopo riga, vengono a presentarsi agli occhi di chi legge sono ritratti di personaggi reali: il padre di Lucia vittima a tal punto della propria introversione da non riuscire a palesare il proprio affetto, Amanda soggiogata dai demoni tipici delle insicurezze giovanili, un paese intero che ritiene più comodo nascondere piuttosto che aiutare. Infine, in particolar modo, la protagonista di questa storia, spossata dagli imprevisti cambi di rotta della vita, consegna al pubblico ogni stortura del proprio essere, quella fragilità che viene annunciata al lettore fin dal titolo: da un lato l’attenzione amorevole – a tratti compassionevole – nei confronti della figlia Amanda e del padre, dall’altro l’esasperazione soggiacente a tale premura, l’antico senso di colpa per aver trascurato Doralice e l’indecisione – dovuta all’altalenanza tra denaro ed etica – sul destino dei terreni del Dente del Lupo. In queste pagine il confine tra l’ingenuità della giovinezza e la consapevole fralezza della maturità è così labile da confondere i due elementi.

Con una lingua schietta, che arriva dritta all’emotività del lettore, fatta di parole aguzze al pari delle montagne dove questa storia è ambientata, ecco allora che il romanzo Di Pietrantonio sembra affidare a chi legge una domanda alla quale non è così immediato rispondere: qual è l’età fragile? Quella di una gioventù spersa e incapace di dare voce alla propria difficoltà? O quella di una maturità che non riesce più a raccontare gli scogli della vita ai propri figli?

Di Pietrantonio Donatella, L’età fragile, Torino, Einaudi, 2023, pp. 176, 18,00€.