Non senza fatica, ogni tanto mi capita di avere la meglio sui miei pregiudizi snobistici e di concedermi uno di quei saggi di self-help che spopolano fra i motivatori del web e che immagino vadano a ruba nelle edicole degli aeroporti. Questa volta è toccato a Deep Work. Concentrati al massimo (2016) di Cal Newport, edito in Italia da ROI edizioni nel 2020, che con quella smilza lampada reclinabile in copertina mi ha subito sedotto con facili promesse di ascetismo intellettuale e gioiosa efficienza cognitiva. In copertina, il cerchio di luce proiettato dalla lampada illumina la ricetta del metodo di Newport: Quattro regole per ritrovare il focus sulle attività davvero importanti. Solo quattro regole? Forse posso farcela persino io, ho pensato, e già mi vedevo con sobrie magliette in cotone bianco da minimalista della Silicon Valley a digitare potentemente sulla tastiera del portatile, ineluttabile nelle mie ritrovate capacità di gestione del tempo.

Risparmio a me e a chi legge le facili ironie sulla retorica efficientista che libri come questo si portano dietro, come se gli effetti dell’economia dell’attenzione e della quarta rivoluzione industriale sul mercato del lavoro potessero essere davvero ammortizzati solo dalla nostra abilità di efficientare i nostri pomeriggi, irrimediabilmente tarlati dall’aggiornamento incessante delle mail, dallo scrolling compulsivo e dalle micro-interazioni richieste dal gruppo Whatsapp del calcetto del giovedì.

Credo che lo spopolare di questo genere di pubblicazioni, di qualità altalenante e le cui metriche di vendita vanno però dalle decine alle centinaia di migliaia di copie vendute (almeno nel mondo anglofono) risponda a un disagio reale e generalizzato, da non liquidare con troppa velocità, dal momento che molta saggistica recente, e penso a titoli come Stand Out of Our Light (2018) di James Williams, The Age of Surveillance Capitalism (2019) di Shoshana Zuboff o Dopamine Nation: Finding Balance in the Age of Indulgence (2021)di Anna Lembke, hanno chiarito come i nostri cervelli siano tutti ugualmente morbidi come il Didò di fronte alle operazioni di ingegneria psicologica di massa, indipendentemente da quanti libri abbiamo letto o da quanti anticorpi pensiamo di aver sviluppato in autonomia. Una delle testimonianze che più mi ha colpito del documentario diretto da Jeff Orlowski The Social Dilemma (2020), che è andato in trend per qualche settimana giusto un paio di anni fa e che ha raggiunto un pubblico più ampio della nicchia che di solito si interessa a queste cose, è forse quella dove Tim Kendall, l’ex-presidente di Pinterest, descriveva come i tool di design psicologico realizzati e varati anche con il suo contributo avessero su di lui, che letteralmente li aveva inventati, la stessa presa che potevano esercitare sul più sprovveduto degli utenti, ostacolandolo nel dedicare tempo e attenzione alla sua famiglia.

Come emerge con chiarezza dalla bella panoramica sociologica di Jean-Marie Twenge sulla Generazione Z americana (Iperconnessi, Einaudi 2018, il titolo integrale in inglese è lungo come un abstract), il problema esiste eccome e riguarda in particolar modo i più giovani, che ormai nascono, crescono e prosperano, si fa per dire, in un mondo che non ricorda come si vivesse prima dell’invenzione dell’iPhone. Qui da noi, il livello medio di informazione a scuola su questi temi è la somma delle tirate di editorialisti agée, predilette dalle antologie e dalle tracce dei temi di maturità, e di colloqui occasionali con vigili o, quando va alla grande, con agenti della polizia postale. Al netto dei soliti quattro docenti solitari che riescono a far di meglio, vincendo l’atavica inerzia del sistema, ci stiamo preparando a dirottare l’uragano in arrivo, anzi già arrivato, agitando una mazza da baseball.  

Non che l’affiliazione accademica o il padroneggiare un sapere specialistico tecnicamente molto complesso siano per sé garanzia di alcunché, soprattutto quando ci si cimenta nella saggistica divulgativa rivolta al grande pubblico, ma in ogni caso Cal Newport a quarantuno anni è professore associato di computer science alla Georgetown University, per cui possiamo concedergli del credito preliminare almeno sul saper organizzare un pomeriggio di lavoro. Il libro di Newport, infatti, contiene alcune osservazioni non banali a proposito di quelli che l’autore chiama lavoratori della conoscenza (giornalisti, informatici, professori, scrittori ecc.) e sulla recente evoluzione del loro modo di lavorare, diciamo dall’invenzione delle mail in poi.

Al di là dei consigli pratici per organizzarsi meglio e rendere il proprio lavoro quotidiano più significativo o almeno meno frustrante, ciò che mi ha colpito di più sono le osservazioni sul mondo del lavoro intellettuale. Intendiamoci, non è che Newport ci fornisca la chiave per accedere a verità abbacinanti – di queste cose si parla molto, soprattutto all’estero –, ma la mia sensazione è che da noi se ne parli e basta, assecondando quella tipica abitudine italiana per cui discutere molto di un problema equivale ad averlo risolto. Entrando più nel dettaglio, Newport definisce come attività superficiali quei «compiti simil-logistici non impegnativi da un punto di vista cognitivo, spesso svolti quando si è distratti» (p. 12) e come lavoro intenso l’«attività professionale che svolgiamo in stato di massima concentrazione, liberi da distrazioni, e che porta le nostre capacità cognitive al limite» (p. 9).

Fin qui, niente di particolarmente geniale: si tratta di una distinzione che potrebbe formulare un brillante studente delle superiori, anche se io per primo mi ritrovo a scambiare molte attività superficiali per profonde, dandogli per pigrizia una priorità che non meriterebbero. Ma è quando Newport comincia e descrivere le caratteristiche di quella cultura lavorativa della connettività perenne e ubiqua, impostasi negli ultimi anni come l’unica praticabile e i cui punti forti sono 1) il diffondersi degli open space come luogo di lavoro, 2) la diffusione capillare della messaggistica istantanea a ogni livello della comunicazione e 3) il presenzialismo sui social, che chi legge comincerà a riconoscere i contorni di un paesaggio fin troppo familiare. In merito al punto 3, Newport ripesca un bell’intervento di Jonathan Franzen (What’s Wrong With The Modern World) apparso sul «Guardian» qualche anno fa, oggi rimosso dal sito del giornale credo per questioni legali, che anticipava le pagine migliori di quel libro nel complesso noioso e bruttarello che è The Kraus Project (2013).

Newport ricorda come quell’articolo molto denso e strutturato, in cui Franzen lamentava, fra le altre cose, come l’utilizzo di Twitter fosse diventato una “coercizione” nel mondo letterario, fosse stato liquidato dai tecno-entusiasti come il rigurgito luddista di un intellettuale già affermato e ancorato a valori novecenteschi. Come che sia, nei dieci anni successivi la posizione di Franzen è rimasta come prevedibile largamente minoritaria, visto anche che dieci anni fa semplicemente avevamo molta meno conoscenza diffusa rispetto a oggi sugli effetti che l’abuso tecnologico ha sulla nostra attenzione, sul nostro benessere mentale e relazionale, sulla nostra capacità di sentire e pensare profondamente, sul nostro tempo. Animato da scopi pratici, il libro di Newport, tuttavia, non ha nulla di moraleggiante e buonsensaio, e meno male, anche perché chi non ha i social oggi spesso lo manifesta con lo stesso snobismo con cui molte persone sfoggiavano il fatto di non possedere un televisore alla fine del secolo scorso; la mancanza di alternative praticabili o semplicemente visibili (ci arriviamo fra un attimo) ha ridotto la questione al dilemma morettiano. «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?».

A causa di quello che Newport definisce un “buco nero metrico”, per cui negli ambienti di lavoro, e fra questi soprattutto in quelli dove non si lavora con le mani, è molto difficile circoscrivere e misurare l’impatto effettivo di un individuo nella catena di interazioni e processi in cui è inserito – sia essa quella di un’azienda, di un dipartimento, di una redazione, di una scuola o di un ufficio –, la cultura della connettività si è imposta perché 1) privilegia il lavoro superficiale (mail, messaggistica istantanea, gragnuole di riunioni) a quello intenso per un “principio di resistenza minima”, per il quale si tendono a fare prima le cose più semplici; 2) poiché essa crea e promuove un ambiente dove è tollerato, anzi si incoraggia  a lavorare così. La questione del buco nero metrico, in epoca di metricizzazione e renderizzazione digitale di ogni aspetto della vita, mi trova un po’ scettico, il resto del ragionamento molto meno. A questo punto, è bene ricordare che il libro di Newport non si occupa delle cause esogene e strutturali per cui le condizioni di lavoro cognitivo a vario livello possono essere obiettivamente ingiuste, insostenibili, stressanti: non incorriamo nella fallacia per cui consideriamo quella che è una discreta cotoletta come una pessima sachertorte, il libro semplicemente non parla di queste cose.

Più avanti, Newport istituisce un’analogia interessante, sostenendo che, in mancanza di alternative valide, l’affaccendamento di molti lavoratori della conoscenza sia in realtà una sorta di replica amatoriale del modello dell’efficienza taylorista, per cui «in assenza di indicatori chiari di che cosa significhi essere produttivi [significativi, NdA] e realizzare valore nel proprio lavoro, molti lavoratori della conoscenza si rivolgono a un indicatore industriale della produttività, cioè fare tante cose in maniera visibile» (p. 70, corsivo mio). E qui mi sembra che Newport tocchi un punto non nuovo, ma formulato in modo efficace e comunque generalmente poco introiettato. Per spiegare come non sia affatto chiaro come il nostro lavoro – preparare una lezione, comporre un articolo, scrivere la migliore poesia o prosa che siamo in grado di produrre – benefici dell’egemonia della connettività e dell’affaccendamento superficiale e visibile, Newport cita il caso di Alissa Rubin, la direttrice della redazione Medio Oriente del «New York Times», la quale, priva di qualsivoglia account social, è stata caldamente invitata ad aprirsi un profilo Twitter dal suo datore di lavoro, preoccupatissimo, come tanti colossi di legacy media, di non risultare al passo coi tempi:

Rubin è una reporter, non una personalità mediatica. I suoi articoli hanno un valore perché lei è in grado di coltivare fonti importanti, collegare tra loro i fatti e scrivere pezzi che spopolano. È l’Alissa Rubin reale che contribuisce alla buona reputazione del «Times». […] Allora perché Alissa Rubin è sollecitata a interrompere regolarmente il proprio lavoro per offrire, gratuitamente, contenuti più superficiali a un servizio gestito da una compagnia mediatica diversa dal «Times», con sede nella Silicon Valley? E, forse ancora più importante, perché un comportamento simile sembra tanto normale alla maggior parte delle persone? (p. 72)

Newport risponde a questa domanda avvalendosi della definizione di tecnopolio coniata dallo studioso dei media Neil Postman, secondo la quale «il tecnopolio elimina ogni alternativa a se stesso […]. Non rende le alternative illegali, né immorali. Non le rende nemmeno impopolari. Semplicemente diventano invisibili e quindi irrilevanti» (p. 73). È esattamente questa invisibilità delle alternative che spiegherebbe secondo Newport il generale fastidio per le posizioni in stile Franzen, liquidate come semplice passatismo nostalgico.

In altre parole, qual è il beneficio reale che otteniamo per noi e per gli altri nel dar fiato all’opinione di un pomeriggio, interrompendoci nel prestare attenzione alle cose che importano davvero? Ma, soprattutto, c’è davvero un beneficio tangibile al netto dei picchi di dopamina che ci procuriamo, del minuzioso lavorio di personal branding (non importa quanto sobrio), del virtuismo di giornata, dell’esorcismo settimanale dell’ansia di essere esclusi e dimenticati? E ancora, siamo sicuri di voler mettere queste espressioni occasionali davanti ai frutti del nostro lavoro più vero e quotidiano, che però ha il dannato problema di essere invisibile e silenzioso, quindi difficilmente monetizzabile presso l’emporio dei social? Per ciò che riguarda la letteratura, a mio avviso è largamente sottovalutato il ruolo che l’esprimersi frequentemente sui social, in un continuo ed esasperante gioco al rialzo, può giocare nel disincentivare i lettori potenziali all’acquisto di un libro, per la semplice legge per cui qualsiasi essere umano, se fatto parlare troppo a lungo di argomenti troppo diversi fra loro per troppo tempo, a un certo punto pesta una merda.

Newport definisce il principio implicitamente seguito da molte persone intelligenti, che continuano ad avere i social pur comprendendone i limiti, come mentalità qualunque sia il beneficio (p. 196), dove l’espressione indica un atteggiamento mentale che considera qualsiasi possibile beneficio (aggiornamento, networking, svago…) come una giustificazione sufficiente per l’utilizzo di uno strumento di rete, senza considerare con attenzione le possibili contropartite negative, solitamente più numerose dei vantaggi, che possono derivare dall’utilizzare lo strumento in questione.

Le persone, infatti, tendono a sopravvalutare enormemente i benefici di vivere la propria vita cognitiva continuamente interconnessi e, molte volte, si tratta delle stesse persone che sopravvalutano l’importanza della loro presenza sui social (anche senza postare attivamente), forse guidati dalla convinzione un po’ presuntuosa di saper dominare il mezzo e di padroneggiarne i codici, magari grazie al conforto procurato da una nicchia di riferimento. E tuttavia, come hanno evidenziato di recente Thomas Poell, David B. Nieborg e Brooke Erin Duffy in Piattaforme digitali e produzione culturale (minimum fax 2022), nelle economie di piattaforma gli effetti di rete producono cicli in cui più utenti generano più utenti, in una naturale tendenza alla monopolizzazione. Quelle nicchie che crediamo di abitare, insomma, sono meno l’effetto di una creatività vernacolare incoraggiata dal mezzo, un fattore che, per carità, nessuno vuole negare, e più l’effetto di una “nicchizzazione” che vede gli utenti come target di contenuti culturali sempre più personalizzati e proposti attraverso algoritmi predittivi sempre più letalmente precisi. In breve, la qualità puntiforme che emerge qui e là nelle nostre bolle di riferimento è sempre pagata al prezzo di una omogenizzazione orizzontale delle tendenze culturali, che in termini quantitativi hanno un impatto esponenzialmente più forte su ciò che è percepito come cultura dalla maggior parte degli utenti. 

Sono numerosi gli esempi di professionisti ricordati da Newport (ironicamente, anche alcuni romanzieri sci-fi) che hanno scelto programmaticamente di non barattare la propria attenzione incondizionata con il ritorno, spesso intangibile, derivante dal costruire giornalmente la propria immagine mediatica come un diorama o dal lasciarsi travolgere da un flusso di comunicazioni a cui guardiamo spesso con disperazione, ma che in realtà siamo i primi ad alimentare. Su questo punto, Newport cita le parole del romanziere Neal Stephenson, tratte da un intervento intitolato Why I am a bad corresponant:

L’equazione della produttività è non-lineare, in altre parole. Ecco perché sono un pessimo corrispondente e accetto molto raramente inviti a parlare. Se mi organizzo in modo da potermi perdere per lunghi, consecutivi e ininterrotti periodi di tempo, riesco a scrivere romanzi. Se invece questi periodi diventano divisi e frammentari, la mia produttività come romanziere cala in maniera sensazionale. (p. 113)

Quante manifestazioni della cultura odierna possono essere rubricate sotto la voce “affaccendamento”? Quanti convegni, eventi, festival, presentazioni, rassegne, saloni vengono fatti per estroflettere di continuo un lavoro che dovrebbe essere per lo più impegnativo e solitario? Quanto l’aggiornamento compulsivo dei social e l’interventismo spicciolo stanno minando la qualità media di tutto ciò che si fa o anche solo impoverendo in potenza ciò che si potrebbe fare? Quanti lavori non rifiniti, quanti fondi di cassetto vengono pubblicati per ingrassare la rassegna stampa e per far fare a un autore il suo bravo tour di presentazioni prima di finire inghiottito nuovamente, quando va bene, nelle retrovie degli scaffali delle librerie?

A parte rare eccezioni, oggi chi non pubblica almeno un libro ogni tre anni (possibilmente di più) non si radica presso nessun pubblico (non i follower, un pubblico, se c’è ancora differenza). Non è che oggi l’eventificazione, l’essere invitati, sia diventato più importante del cercare di dar corpo, al meglio delle nostre capacità, a qualcosa che abbia valore per noi e per le altre persone? Non sono domande con una risposta sottintesa, sono interrogativi ingenui, di cui mi piacerebbe si potesse discutere di più e meglio di come generalmente si fa. In Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, saggio del 1985 riproposto di recente da LUISS, è sempre Neil Postman a riprendere il concetto di pseudo-evento, vale a dire un avvenimento creato ad arte per essere pubblicato, per parlare della televisione. Non credo serva insistere su quanto questa idea sia ancora descrittivamente efficace ai giorni nostri.

Qui da noi, alla parcellizzazione della sua giornata lavorativa Umberto Eco aveva dedicato un bel pezzetto nel Secondo diario minimo (e parliamo della fine degli anni Ottanta…). Riprendendo Eco, qualche anno fa anche Claudio Magris, sul «Corriere della Sera», aveva lamentato qualcosa del genere, usando, come fa anche Newport, la metafora del taylorismo cognitivo:

Certamente Eco era al centro di una rete di comunicazione particolarmente affollata, ma oggi il numero di persone sottoposte a ritmi pressoché analoghi è alto. Sono, siamo, gli esclusi dalla vita e ignari o quasi di essere tali. […] Un lavoro coatto che recluta non soltanto, come in passato, plebi affamate che non possono dire di no se vogliono almeno sopravvivere, ma anche la classe media e quella alta, che potrebbero vivere umanamente ma sono strappate anch’esse alla loro esistenza, ai colori e alle luci della stagione, perché le chiamate — non solo telefoniche — di ogni genere sono anche per essi ordini, obblighi.

Trovo quasi romantico che Magris si lamentasse dei troppi sms (ma ve li ricordate?), che gli impedivano di suggere tutto il succo vitale possibile da quel melograno di puro Novecento che è la città di Trieste, tutta caffè antichi, librerie dell’usato e statue di romanzieri modernisti. Luddisti, passatisti, relitti di un altro tempo, si dirà, come per Franzen: forse, forse no, forse i benefici di questo ambiente cognitivo sono davvero maggiori delle contropartite negative e semplicemente chi scrive non vuole vederli o non li sa sfruttare a proprio vantaggio. Può essere, però, che ci siamo accomodati un po’ tutti sulla convinzione di occupare la nicchia algoritmica più giusta e necessaria fra le altre migliaia esistenti, a vario livello più stupide, inutili e immorali della nostra; forse ci illudiamo che le nostre parole siano fra le poche goccioline di acqua distillata che contribuiscono a purificare quello che riconosciamo come un inarrestabile fiume di liquami maleodoranti. Il punto, però, è proprio questo: tutte le persone sono genuinamente e contemporaneamente convinte di questa stessa verità e continuano a giocare su un campo clamorosamente non neutro, ma gentilmente approntato da una squadra di salamandre della Silicon Valley per vendere dati agli inserzionisti, non per altro.

Collateralmente, questa coazione all’esternazione social-izzante, alla frammentazione della solitudine e alla soppressione sistematica della noia (Boredom is a crime, cantava Bo Burnham in Inside [2021]), produce un’immagine distorta di attualità culturale, quasi mostruosa, che si risolve in una sorta di ideale catena di Sant’Antonio algoritmica governata da uno storicismo attimale a cui nessuno, nemmeno i famigerati addetti ai lavori, riesce davvero a tener dietro, come se, tra l’altro, il farlo avesse un qualche costrutto. Su questo punto, mi piace ricordare le parole di Giorgio Manganelli – scrittore-argenteria, ottimo da sfoggiare nelle grandi occasioni –, che in un inedito Discorso sulla cultura, restaurato di recente da Emanuele Dattilo per la rivista «Riga», scriveva:

Nove volte su dieci un libro di cui si parla, o un concetto che è esploso, nel giro di sei mesi è defunto. Quindi basta aspettare sei mesi e occuparci di quel residuo concetto che non è morto: ne è rimasto uno su dieci. Credo che non ci sia modo migliore di essere disinformati che quello di essere perfettamente aggiornati.

Siamo alla fine degli anni Sessanta, Manganelli si voltolava, intellettualmente parlando, nella civiltà del giornale cartaceo; altro che sei mesi dovremmo aspettare, oggi, la prudenza suggerirebbe almeno sei anni. Ma, si sa, i libri inutili, gli pseudoconcetti e le opinioni sbagliate sono sempre quelle degli altri e la sentenza si applica fatalmente anche a chi sta scrivendo queste righe.

Se, come ricordava David Foster Wallace in This is Water, l’unica cosa che dovremmo ragionevolmente aspettarci da un’educazione umanistica è la capacità di decidere a cosa prestare attenzione, vent’anni dopo il discorso dello scrittore statunitense possiamo affermare con serenità che, come umanità e come lavoratori della conoscenza, non siamo mai stati così lontani dall’obiettivo. La preoccupazione al fondo del libro di Newport, al di là delle quattro regoline su come ritrovare la concentrazione, è esattamente la stessa espressa in modo più articolato da voci che la nostra nicchia percepisce come più autorevoli. Jonathan Safran Foer, ad esempio, concludeva così un’intervista rilasciata al «Guardian»nel dicembre 2016, che forse varrebbe la pena rilegge per intero:

Let’s assume, though, that we all have a set number of days to indent the world with our beliefs, to find and create the beauty that only a finite existence allows for, to wrestle with the question of purpose and wrestle with our answers. We often use technology to save time, but increasingly, it either takes the saved time along with it, or makes the saved time less present, intimate and rich. I worry that the closer the world gets to our fingertips, the further it gets from our hearts. It’s not an either/or situation – being “anti-technology” is perhaps the only thing more foolish than being unquestioningly “pro-technology” – but a question of balance that our lives hang upon.


C. Newport, Deep work. Concentrati al massimo, trad. Arianna Bevilacqua, Macerata [2016], ROI, 2020, 288 p., € 24.