«Allora Marco, mi hai portato il libro di Kafka?» mi chiede P. sfregandosi le mani compulsivamente.
«No… mi sono scordato! Te lo porto la settimana prossima».
«Te le devi scrivere le cose tu» mi risponde ridendo.
«Ma dai! Te l’ho detto martedì, oggi è giovedì. Sono passati solo due giorni».
«Devi capire che due giorni qui dentro sono come due settimane», non ride più. 
«Ascolta, te ne porto due di libri per farmi perdonare. Come va la testa?».
«Meglio… ma andare e tornare dall’ospedale mi ha scombussolato. Sono 12 anni che non esco, non mi ricordavo che ci fossero così tante macchine per strada. E poi l’orizzonte, non sono più abituato a vederlo così lontano… qui dentro hai al massimo 20 o 30 metri e poi c’è un muro che ti spezza la visuale. Mi è venuta l’emicrania e non vedevo l’ora di tornare dentro».

Ho conosciuto P. nel 2015 in una classe quinta, il primo giorno di lavoro nella Casa circondariale[1] di Bergamo. L’ho ritrovato in un corridoio della Media Sicurezza[2] della Casa di Reclusione[3] di Milano Opera nel 2020, mentre andava a un corso di fotografia.

Ancora oggi ci fermiamo a parlare. Gli strascichi dell’ergastolo che gli pesa sulle spalle allora non erano di facile lettura per me; oggi, a distanza di anni e di confronti con persone nella sua condizione, sono facilmente riconoscibili. Passa dal sorriso alla serietà in un nanosecondo, lo intuisco da come si irrigidiscono i muscoli del suo volto e da come i suoi occhi iniziano a fissarsi nei miei; ciclicamente i suoi discorsi si ripetono e i ragionamenti fanno corto circuito, mentre mi spiega che per quelli della vecchia scuola come lui il carcere non è che una guerra di trincea: da una parte chi è sincero, dall’altra chi non lo è. Peccato che quale sia la verità non sia dato sapere. Ecco cosa può comportare il carcere a lungo termine: paranoia, come se i labirinti percorsi ogni giorno affollassero la mente di ragnatele e di pensieri a fondo chiuso.

A volte lo trovavo già in classe quando arrivavo nella sezione penale[4], dove stavano i definitivi come lui. La sezione dei cosiddetti “comuni”, invece, stava dalla parte opposta dell’Istituto: nei cambi dell’ora dovevo attraversare un percorso con due cortili – in uno dei quali a volte incrociavo i detenuti all’aria – e qualche serpentina: le grida dei nordafricani da una finestra all’altra; appesi sulle grate tanti panni ad asciugare, così da dare un po’ di colore a un contesto che alterna grigio, bianco, rame e ferro. Ogni tot metri schiaccio un pulsante e aspetto che il blindo automatico si apra.

Il primo blindo non si scorda mai. Una volta chiuso alle mie spalle, capisco di essere dentro. I contatti con il mondo esterno sono annullati, nel momento in cui deposito smartphone e ogni possibile device all’ingresso e indosso il badge di ordinanza. Il metal detector è un altro step obbligato, nel caso qualcosa mi resti inavvertitamente in tasca; e non deve restare. Bisogna abituarsi in fretta al fatto che non tutto funziona come fuori: codici diversi, convenzioni di socialità diverse, innumerevoli labirinti di senso, alcuni a fondo chiuso. Il carcere è l’ultimo castello, l’ultimo feudo, dove convivono mentalità diverse e per questo è meglio lasciare pregiudizio e retorica a casa.

Il labirinto non è solo mentale, ma anche concreto. Ogni corridoio somiglia a quello appena attraversato, le divise e i badge spersonalizzano, anche se c’è la mia faccia sopra; e, se non lo indosso, può essere che qualcuno che non mi ha mai visto mi fermi perché non sa chi sono. Qualcuno che magari non rivedrò più. Tutto funziona per passaparola, un modo di comunicare al quale non siamo più abituati e che non è così semplice da gestire: è come giocare al telefono senza fili, ma da adulti; bisogna sperare che qualcuno non travisi, non aggiunga o tolga informazioni chiave al contenuto, perché risalire la corrente diventa poi impossibile.

La scuola in carcere è un porto franco, espressione per cui ringrazio un mio studente dell’AS3[5] esperto di navigazione e di correnti marittime, che mi ricorda sempre come il tempo nelle aule scolastiche sia un momento di ristoro dalle dinamiche aspre della detenzione, ma soprattutto una possibilità di confronto con chi viene da fuori. Qualsiasi maschera pirandelliana può dunque cadere senza particolari patemi e in quello spazio apparentemente angusto e inospitale – quasi sempre una ex cella riadattata – le mie lezioni di italiano, storia e teoria della comunicazione diventano viaggi intorno al globo, che rompono gli argini dello spazio e del tempo.

In quelle ore siamo sullo stesso piano, e non solo per l’età spesso simile, ma perché non è mai una trasmissione univoca di sapere, bensì uno scambio; da parte mia, non c’è insegnamento senza apprendimento. Non c’è rete, non ci sono libri per tutti. I manuali a disposizione stanno segregati in armadi e scaffali disseminati nell’area pedagogica, molti dei quali chiusi a chiave o con lucchetti arrugginiti. Li porto avanti e indietro, come in un travaso continuo. C’è un senso di precarietà a volte, la stessa dell’intonaco sulle pareti e della tenuta dei soffitti negli intensi giorni di pioggia. Devo incastrare tutto quello che devo fare con le situazioni contingenti alla scuola: lavoro, colloqui, visite mediche, avvocato, chi alle 11.30 deve salire a cucinare al concellino, palestra. È una città che vive e pulsa, a suo modo. Una città sepolta, ma pur sempre una città. Di cui ho imparato a conoscere svincoli, angoli bui, zone d’ombra e zone off limits.

In pochi anni ho avuto la fortuna di insegnare in quasi tutti i circuiti e a confronto con vari regimi. L’esperienza più a stretto contatto con la quotidianità dei detenuti è sicuramente stata quella nella sezione dei “protetti”[6], colpevoli di reati sessuali e isolati dagli altri: vista la loro impossibilità a spostarsi, insegnavo in una delle celle nello stesso corridoio dove dormivano. Percorrendolo, guardavo attraverso i blindi socchiusi le loro celle, arredate e rese quasi accoglienti, mentre gli ospiti preparavano il caffè e guardavano il telegiornale, quasi tutti ancora in pigiama. Dieci-dodici celle in tutto, l’ultima delle quali era divenuta un’aula scolastica, dove spesso ero in compresenza con colleghi della secondaria di primo grado.

Avendo uno studente solo, mi accomodavo nella parte più stretta, che era il bagno. Infatti dal muro spuntavano ancora gli allacciamenti dei sanitari, il capo della doccia e qualche manopola. Per stare seduti in due uno di fronte all’altro, bisognava incastrarsi in uno spazio impossibile, come in una fila di Ryanair. Sono anni ormai che i detenuti durante il giorno sono “aperti”, quindi liberi di camminare fuori dalle celle, quindi capitava che qualcuno facesse capolino in aula. Qui ho assaggiato, per la prima e l’ultima volta, il cibo del carrello, che più a meno arriva alle 11.30 grazie al portavitto, uno dei lavori interni che è possibile svolgere con regolare, se pur bassa, retribuzione.

Il mio trasferimento a Opera ha alzato l’asticella. Il contesto è diverso, popolazione quadruplicata e con un monitoraggio più serrato, vista anche la presenza dell’Alta Sicurezza. Data la pericolosità sociale dei soggetti reclusi, in questo circuito, la loro socialità è ridotta al minimo e l’anonimato degli spazi è finalizzato a rendere riconoscibili meno elementi possibile. Prima che arrivassi io, i colleghi venivano chiusi a chiave con gli studenti nelle singole aule. I vetri delle finestre sono oscurati da frettolose mani di vernice biancastra e non si possono quasi mai aprire.

Mentre alla lavagna lo spiego, sono io stesso dentro al Panopticon. Videocamera fronte alla classe, videocamera fronte alla cattedra. È tutto color bianco sporco, quindi spero la scuola mi procuri una misura più grande per la prossima carta geografica. Uno studente la guarda incantato, standoci di fronte a meno di un metro, come io guardavo il mappamondo illuminato nella mia cameretta buia: sa che non potrà vedere cosa c’è al di là dell’oceano e, anche se uscirà presto, un regime di sorveglianza costante lo costringerà di nuovo in un recinto invisibile. Ecco perché cerco di aprire mondi paralleli. Voglio fare in modo che il tempo voli, come nei sogni, e che le pareti crollino come in Inception. Rendere personale qualcosa che è stato pensato come impersonale e asettico.

È appena arrivato il grande inverno, c’è da sperare che le temperature non vadano troppo giù e che l’impianto non si impalli. A volte salta il riscaldamento in qualche braccio: fornelli accesi messi a terra per diffondere un po’ di calore nella cella, acqua bollente travasata dalla pentola nella bottiglia di plastica per tenerla sotto le coperte di notte per sentire meno freddo. Il gelo intorpidisce le articolazioni e rallenta il ragionamento, il vento prende a schiaffi a ogni angolo.

È difficile mappare uno spazio del quale devo necessariamente parlare con cautela. Le immagini impresse nella mia retina non possono scivolare su carta, ma restano catalogate negli archivi della mia memoria, dove posso farle scorrere una dopo l’altra come in un trucco di illusione di cento anni fa, con la sensazione di mettere in moto qualcosa che è sempre irrimediabilmente fermo e uguale. Sì, perché il luogo dove lavoro è fuori dallo spazio e dal tempo: il primo è una costrizione, il secondo è un macigno che rotola lento, concettualmente infinito.

Ma quello che l’antropologia di un paio di decenni fa avrebbe definito un “non luogo”, nella memoria di chi lo ha vissuto quotidianamente diventa luogo a tutti gli effetti, identitario e pregno di parole, movimenti e volti: ci penso dopo l’ennesimo gesto identico ripetuto al metal detector, davanti al millesimo blindo che mi si chiude in faccia mentre mi piove in testa, mentre sono fermo al tornello e da una sezione mi gridano «Marco!» …E mi rendo conto che in quelle aule i nostri volti e i nostri nomi stanno scrivendo una storia unica e irripetibile.

[I disegni di questa mappa sono di Gabriele Bossi]


[1] Sezione appartenente a quelle non regolamentate, ma “informali”, create per categorie specifiche di ristretti al fine di prevenire episodi di aggressioni o sopraffazioni a loro carico da parte del resto della popolazione detenuta (sex offender, transessuali, ex appartenenti alle forze dell’ordine).

[2] Alta Sicurezza 3: circuito dedicato ai detenuti per delitti di cui agli art. 416 bis c.p (associazione di stampo mafiosi, ma senza ruoli apicali) o reati connessi all’organizzazione per lo spaccio di stupefacenti. Tale circuito rientra nelle 3 sottocategorie appartenenti il circuito dell’Alta Sicurezza, in cui sono riuniti tutti i condannati per reati di tipo associativo sottoposti a una sorveglianza più stretta rispetto ai detenuti comuni. 

[3] Sezione destinata a persone condannate in via definitiva.

[4] Istituto dove sono detenute le persone in attesa di giudizio o quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni (o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni.

[5] Circuito contenente i detenuti comuni non classificabili come Alta Sicurezza o Custodia Attenuata. La maggior parte dei detenuti rientra in tale circuito, che consente agli stessi un accesso teoricamente più semplice ad attività socializzanti e misure alternative per scontare la pena.

[6] Istituto adibito all’espiazione delle pene.