Come risposta alla zia che vi chiede se avete sparso eredi per il, peraltro non spopolato, pianeta. O per interrompere il nonno nostalgico e ubriaco, prima che dica davvero quel che pensa. Ecco dieci titoli di poesia, selezionati dalla redazione della Balena, con gradite annessioni. Declamateli mentre vi versate dell’altro prosecco, ché, forza e coraggio, anche natale passa.


Marina Gogu Grigorivna, Da Trieste in sú, Howphelia, 2023 (Roberto Batisti)

«ed eccomi a scrivere un’altra e stessa incoprendibile poesia»

(04_03_2022. Il futurismo giuliano, l’aeropittura)

Chi conosceva la poesia di Marina Grigorivna, per averla magari esperita in un appartamento bolognese, in un happening triestino, o in uno slam in giro per l’Europa, avrebbe avuto le sue buone ragioni per dubitare che il formato del libro cartaceo potesse accoglierne l’unicità. Dubbio già felicemente smentito due anni fa da Intercalari (Prospero Editore, 2021); ma ora rilancia con un formato, quello multimediale di Howphelia, che pare fatto apposta per una scrittura a cui la pagina è sempre andata stretta. Da Trieste in sú è un diario in versi scaturito dalla biografia dell’autrice, che prosegue coerentemente il discorso tematico e stilistico dell’esordio, raccogliendo stralci di vita, amori, incontri vagabondi ai quattro angoli del continente. Come da prassi della piattaforma, il libro accompagna un videodiario (presentato come «stories da un altrove») per chi si abbona all’intero pacchetto. I video rendono bene l’iperrealismo di questa poesia allergica alle norme e alla letteratura, che col suo mix di svergognata fisicità e bruciante intelligenza ricorda «un dialogo sui massimi sistemi, cantato in sgabuzzini» (Rolando Vitali). Ma il vero prodigio è, come sempre, il linguaggio: un italiano trasfigurato da insolenti e consapevoli solecismi (l’accento del titolo è solo l’inizio), non per ricerca accademica della polifonia o della stravaganza, ma per accelerare ed espandere le potenzialità della lingua – come, su un altro piano, fanno le immagini. Non è un caso che nei testi in rumeno, madrelingua dell’autrice, queste trasgressioni non si verifichino: non per maggiore controllo del codice, ma perché un idioma meno anemico del nostro può supportare la voce autoriale senza bisogno di doping. Il povero italiano, invece, è una corda che Grigorivna non può suonare senza spezzarla: ma la musica che ne sa cavare va udita per essere creduta.


Ben Lerner, The Lights, Farrar, Straus & Giroux, 2023 (Massimiliano Cappello)

You cannot withdraw and sing, at least not intelligibly.
You can only sing in a corporate voice of corporate things.

L’ultimo libro di Lerner getta significativamente “luce” su questioni ineludibili per chi si proponesse oggi un’attività di scrittura come forma mediata dell’esperienza individuale e collettiva della vita (ma non è, lo dico subito, un papello buono solo per un paper dottorale). In primo luogo, la questione del withdrawal, forma di ritiro-di rinuncia-di abbandono che alimenta sotterraneamente la vitalità linguistica (la metafora critica è qui Cædmon, il primo poeta di lingua inglese, che ricevette in sogno questo invito all’inno). C’è poi la questione dell’entitlement e dell’authority. In una sorta di riproposizione stralunata della Vita in versi di Giovanni Giudici (1965) chi dice io, “fuori per la prima volta dalla pandemia”, litiga riguardo al cane e su chi possa utilizzare la parola “Palestina” (The Lights, 2) [che fuor di figura Ben Lerner, ebreo newyorkese, si chiede ma senza risposta; ed è in questo ordine di conflitti tra “abietto” e “sublime” che si trova un preciso invito a chi leggesse]. In un’altra serie, discutendo della voce come costruzione di comunità, dice di “piegarla” nel cantare “verso autorità che non ricerca”. Parole che Fortini scrisse ormai sessanta e più anni fa: il mandato sociale, ormai un ferrovecchio inservibile. Eppure Lerner canta, nonostante tutto, “with a voice without portamento, a voice in which the human | is felt as a loss […] the permanent wars of profit“. Lo fa con una voce vocoderizzata (Auto-tune, 2), con un “io” convenzionale, nella dissolvenza radicale di ogni distinzione tra non sequitur e barra lirica, forma-poema e prosa registrata dal telefono e trascritta, eccetera. Ennesima riprova che soltanto un altro modo si può opporre, senza sovrapposizioni, a un mondo; ma che si deve viverlo non ingegnerizzarlo nel linguaggio o (peggio) assumerlo a maniera dentro un metodo. Questo è il luogo ineludibile dove si può dannare ancora, nonostante tutto (fuori da ogni layer post-ironico) una voce.


Marco Giovenale, Statue Linee, pièdimosca, 2022 (Valentina Murrocu)

Statue Linee di Marco Giovenale è un libro uscito per pièdimosca alla fine del 2022, all’interno della collana glossa, curata da Carlo Sperduti. I testi si situano a margine della prosa e sfuggono di fatto alle classificazioni: gli spostamenti continui sulla pagina, i rovesciamenti di senso, i cambi di registro e postura anche nel medesimo testo rendono a mio avviso il libro interessante. In un testo in prosa collocato quasi alla fine del libro si legge: «Marco Giovenale scrive testi che non li capiscono. Vede dei video su YouTube e dicono che sono lo stesso, ma non sono lo stesso. Non lo credete. Se vedo un video lo capisco, se vedo Giovenale non lo capisco […]»: l’io sembra coincidere con Marco Giovenale o, in altri termini la prima persona singolare porta qui il nome dell’autore. In realtà, l’ironia che emerge con particolare forza in questo e altri testi è quella del soggetto; «[…]allora sono andato da Marco Giovenale e gli ho detto: Marco Giovenale, volevo sapere, ma perché parli così? Lui non ha capito la mia domanda, allora finalmente siamo pari.» (p. 127).


Thomas Hardy, L’orologio degli anni (Poesie 1857-1928), Elliot, 2022 (Luca Mozzachiodi)

Una antologia di circa 100 componimenti (su un corpus complessivo di più di mille) che viene a riempire un vuoto ormai pluridecennale nel panorama editoriale e traduttivo italiano. Edoardo Zuccato traduce per affinità e per scelta personale e non con un’ottica antologica, tuttavia gli esiti sono spesso alti, come quando si tratta di rendere la parlata del Dorset (l’immaginario Wessex che fa da sfondo alle poesie non meno che ai romanzi di Hardy) o quando il traduttore riesce, grazie a un sistema di accenti mobili che supplisce alla rima non sempre riproducibile, a evocare la dolente musicalità dei versi. Hardy ha dedicato tutta la sua vita a comporre poesie e, sebbene sia più celebre come romanziere, dal 1898 si impegnò solamente in composizioni poetiche. Non si tratta però, per chi vorrà leggere il libro, a mio avviso soltanto di attraversare un trentennio di apertura del Novecento ma di riscoprire, nelle possibilità variegate di una lirica meditativa spesso di tono medio ma non di rado con aperture cosmiche e filosofiche (The convergence of the Twain, poemetto sull’affondamento del Titanic giustamente amato da Brodskij), una potente alternativa alla monodirezionalità della tradizione contemporanea che si vuole interamente figlia solo di un modernismo imagista, analogico e postsimbolista. Sebbene molta della poesia di Hardy riposi su una convenzionalità del genere e del modo della fruizione di poesia che oggi è chiaramente defunta, a rileggere questa meritoria antologia possono essere proprio l’attrito e la resistenza che oppongono quelle convenzioni morte a essere più seducenti e persino produttivi della più contemporanea e apparentemente vitale delle scritture in versi.


Angelo Restaino, Estate metafisica, Qudulibri, 2023 (Alfonso Maria Petrosino)

Consiglio Estate metafisica di Angelo Restaino perché:
1) è un labirinto di sogni
2) è prefato da Davide Castiglione con parole avvincenti e schiette
3) il 61% dei versi sono endecasillabi, ma sono endecasillabi senza feticismi, a volte persino con l’accento tonico di quinta
4) parla di amore e morte: d’amore tutto pervaso di vanitas e di morte con allegria perplessa
5) contiene l’ecfrasi di un quadro di De Chirico
6) propone un ragionevole e condivisibile punto di vista sulla questione dell’io nei seguenti versi:

ll personaggio che dovrebbe dire ‘io’
è una trama sempre più allargata
di maglie di ricordo, coscienza, volontà:
si tiene insieme per miracolo.

7) ha vinto il premio Renato Giorgi 2023
8) al suo interno compaiono Roma e Salerno: la prima afosa e fusa e la seconda marina e struggente
9) è un sogno di labirinti
10) permette a quelli che, come Bruno Martino, odiano l’estate di convertire l’odio in un nuovo amore; d’altronde quid amabo nisi quod rerum metaphysica est?


Tom Hirons, Sometimes A Wild God, Feral Angel Publishing, 2023 (Cristina Padovan)

Prima Hedgespoken Press (2015), poi Feral Angel Publishing (2023): le case editrici indipendenti che negli anni hanno pubblicato Sometimes A Wild God si dichiarano già dal nome. Con le illustrazioni di Rima Staines il cerchio è completo: folklore, ambientalismo e meraviglia.

L’opera di Tom Hirons è una fiaba ancestrale, che scende amara come una medicina e, proprio come una medicina, prova a sanare quello che deve.

Neanch’io, come Hirons, avrei voluto far accomodare alla mia tavola un dio selvaggio, ma questi – non conoscendo le “buone maniere della senape e dell’argento” – è entrato un giorno, e non dirò per caso perché non lo è sembrato affatto, e si è seduto e ha lavorato la sua magia-medicina arcana, fatta di parole-immagini. Che ti si creano in testa, una reminescenza selvatica, un ricordo che non sapevi di avere.

The wild god points to | your side. | You are bleeding heavily. | You have been bleeding for a long

time, | Possibly since you were born. | There is a bear in the wound.


Fabrizio Maria Spinelli, Ecfrasi, Arcipelago Itaca Edizioni, 2023 (Alessio Verdone)

La centralità del fare ecfrastico apertamente dichiarata già a partire dal titolo, lungi dal rendere questo libro un elenco di verbalizzazioni visuali, ci parla invece di una sorta di teoria della conoscenza del reale («perché la realtà non è | una presenza ma un’immagine che descrivendo | si cancella», da La vita come ecfrasi). L’ekphrasis più che un tecnica si fa quindi una strategia di distanziamento, una descrizione della descrizione che si può esercitare su ogni aspetto dell’esperienza («la descrizione si descrive | descrivendo un pretesto fittizio, non esattamente | la storia del dito che copre la luna, ma la | flebile voce che annota questa relazione tra dito | e luna», da Coda). Conseguentemente non è necessario saturare lo spazio testuale di oggetti visuali per poter aderire alla programmatica del titolo, dato che proprio il vissuto – con il tempo dilatato e sospeso che lo caratterizza – assolve alla stessa funzione di riferimento ecfrastico.

Il libro di Spinelli – opera vincitrice del concorso Arcipelago Itaca Opera Prima dello scorso anno – è allora un organismo che tiene insieme complicazione e ordinarietà e in cui dotti riferimenti letterari, filosofici e scientifici possono essere accostati a elementi della più stretta contemporaneità mediale (internet, meme, Telegram, Tumblr, sexting…). Tutto ciò nello spazio di una versificazione fortemente discorsiva e piana, ma tutt’altro che scontata. A questo proposito non priva di interesse è l’ambizione narrativa dell’opera, che approda però a una narratività talmente mortificata e polverizzata da sfociare nella poesia. Poesia intesa dunque come impossibilità di qualcosa, come ciò che rimane dopo un tentativo destinato a fallire («un romanzo che si smembrasse dopo un’oculata agonia in un’opera in versi, come se la poesia restasse dopo la mortificazione e la polverizzazione di qualcosa, fosse la forma di quella polverizzazione», da Rhizotomumena, II).

Al di là di un uso ampio e astraente delle tecniche ecfrastiche ci sono comunque due testi in cui l’ekphrasis è affrontata nella maniera più tradizionale: si tratta di La vita come ecfrasi – seconda sezione – e di coda – nona sezione, quella conclusiva. Entrambe vanno oltre la mera descrizione delle Nozze dei coniugi Arnolfini di Van Eyck – nel caso della prima – e di Picture Emphasizing Stillness di David Hockney – nel caso della seconda – e svolgono una funzione fortemente metapoetica, indirizzando retrospettivamente l’intera lettura.

Quanto detto finora non riesce comunque a rendere conto dei molti spunti tanto originali quanto urgenti che il libro contiene. Per il momento – e in attesa di ulteriori approfondimenti – basti dire che Ecfrasi rientra a pieno titolo tra le migliori uscite poetiche di questo 2023. E quindi: leggetelo!


Andrea Donaera, Le estreme conseguenze, Le Lettere, 2023 (Manuela Montanaro)

Con “Le estreme conseguenze” Andrea Donaera torna alla casa madre, a quella forma acida e coagulata che è la lirica nelle intenzioni dell’autore: una poesia che porta lo stemma di un dichiarato ripudio nei confronti dell’esposizione virtuosistica e che si imbibisce di materia solida, attraverso l’immersione totalizzante in una lingua che disegna le storie come incisioni rupestri, primitive e nude, come tatuaggi da cui “esonda” troppo sangue.
L’opera, potente e immaginifica, mostra inoltre un’anima imbastardita, derivante dal meticciamento tra le composizioni in forma lirica in cui l’autore invoca un tu che è sempre a rischio in ogni pagina (il lettore non ha mai a certezza che lo ritroverà vivo nei versi successivi!) e in pezzi in prosa in cui il richiamo al voi
appare come una dilatazione dello spazio della memoria; uno spazio che è un terrazzo, una casa con gli odori dei giorni di festa, con i lavandini sporchi di viscere di pesce.
Il voi a cui Donaera si rivolge interrompe la solitudine terrifica del suo tu: “eravate in qualche modo uniti”, quindi insieme, quindi vivi; un tu sempre vicinissimo alla morte si alterna a un voi in cui le solitudini di ciascuno si spezzano, si mettono nell’angolo per le feste comandate e alla fine passano.
Lascia il fiatone Donaera, con un ritmo sincopato e preciso che non ha paura di enjambement estremissimi, di toni spaccati e riarsi, del ripetersi spasmodico del verso che egli stesso definisce “lungo, libero/magmatico” e che si compatta e poi sfugge nel labirinto fenomenologico delle parentesi, tutte, come un’espressione che si svolge e si riannoda senza fine.
Sopra tutto resta il culto delle cose: le sigarette, i vestiti dei morti, la caldaia, il bollitore, la tazza, il PC in stand-by, le calze di lana, le medicine, il giubbotto di pelle, le Converse, il mangiacassette. Un mazzo di carte.
Quelle cose sono la colla dei voi sempre inorriditi e del tu che fa inorridire (”la signora Carmelina che ti vedeva e faceva la croce”); le cose che sono palco e luce di una poesia che sta in basso, che si cerca come “un anello perduto nel lavandino”.


Daniele Poletti (a cura di), Continuo, repertorio di scritture complesse, [dia·foria, 2023 (Francesco Deotto)

Anche nella misura in cui le feste dovrebbero (quantomeno in teoria) essere un periodo nel quale si ha maggiore tempo per delle forme di “godimento”, Continuo, repertorio di scritture complesse è un libro che non può non essere consigliato. Quella che viene proposta dal suo curatore, Daniele Poletti, è in effetti una prospettiva che esplicitamente associa la scrittura “complessa” alla possibilità di un “godimento”, cercando al tempo stesso di difendere una concezione “antimeccanica, anticommerciale, antiaccademica” di complessità. Curato nei minimi dettagli dal punto di vista grafico, e perfino accompagnato da un adesivo/santino che immancabilmente afferma che “la scrittura complessa è godimento”, Continuo è soprattutto un libro che ha il merito di non limitarsi a offrire un modello univoco di scrittura (e quindi di complessità), ma di raccoglierne e proporne diverse forme, come risulta dalla varietà delle dodici autrici e autori presenti (ognuno introdotto da un breve testo critico di un diverso commentatore): Daniele Bellomi, Alessandro De Francesco, Marilina Ciaco, Marco Mazzi, Luigi Severi, niccolò furri, Morena Coppola, Augusto Blotto, Gabriele Stera, Alessandra Greco, frank leibovici, Lucio Saffaro.


Antonella Anedda, Historiae, traduzione di Patrizio Ceccagnoli e Susan Stewart, New York Review Books, 2023 (Claudia Dellacasa)

Historiae di Antonella Anedda, pubblicato in Italia da Einaudi nel 2018, è una raccolta dalla voce inconfondibile eppure intessuta di linguaggi diversi. C’è l’italiano, inevitabilmente. C’è la limba, quella koinè di diverse parlate sarde, in parte ereditata in parte inventata, che esprime la condizione isolana in una cuspide appianata tra passato e presente. Ma sembra anche di sentir risuonare da lontano, in un’evocazione dolorosa e mai scomposta, anzi più che mai efficace nel suo contegno, le lingue dei migranti di cui vengono raccontate le sorti, le stragi e i naufragi. Alla base c’è poi il latino, quello del titolo di tacitiana memoria, così come di ‘Annales’, una delle poesie della raccolta: «Rileggendo Tacito durante questa estate di massacri | il conforto veniva dal latino, la nudità dei fatti, | l’assenza o quasi di aggettivi, | il gerundio che evita inutili giri di parole. | Confrontando la traduzione con l’originale, | il testo italiano colava più lentamente sulla pagina». La poesia di Anedda emerge dunque dal silenzio in risposta a una costante riflessione sulle potenzialità dei linguaggi, attentamente declinati al plurale. È una poesia intrinsecamente destinata alla traduzione, e questo Patrizio Ceccagnoli e Susan Stewart dimostrano di saperlo molto bene. La versione in inglese di Historiae, pubblicata quest’anno per i tipi della New York Review of Books, permette di immergersi in una triangolazione linguistica (limba–italiano–inglese – ma il primo termine talvolta viene meno) che arriva a svelare le fibre più intime dei testi. «Tradurre è il vero modo di leggere un testo», diceva Calvino. Ma anche leggere in traduzione, e in una traduzione riuscita sul piano del ritmo tanto quanto su quello del contenuto, non è certo da meno.