«Brucia tutto!». È la richiesta fatta da Franz Kafka all’amico Max Brod prima di morire, consegnandogli il continente sommerso dei suoi manoscritti mai pubblicati. Inizia così il mito di un tradimento, quello dei tre romanzi postumi di Kafka (Il processo, Il castello, America) che ridisegnano la mappa della cultura occidentale grazie alla disubbidienza di un esecutore letterario. Con Max Brod buona parte delle carte, ancora indite, fuggono il nazismo e arrivano in Israele, dove sono destinate in eredità alla segretaria non-lettrice Esther Hoffe (che un po’ le conserva in remoti caveau svizzeri, un po’ li accumula nel suo appartamento fra i ripiani di un frigorifero rotto) per poi finire, dopo un passaggio per la Bodleian Library e qualche asta milionaria, al centro di un’articolata contesa legale. Oggi i manoscritti di Kafka sono stati raccolti dalla Biblioteca Nazionale di Israele che li ha in gran parte digitalizzati: da qualsiasi dispositivo connesso alla rete è possibile in pochi secondi navigare fra le lettere, le bozze, i diari dello scrittore praghese. Un finale per niente romanzesco per un materiale così promettente – tanto promettente che Gennaro Serio proprio non ci sta, e trasforma il caso delle opere perdute di Kafka in un nuovo impianto generatore di storie, nel suo Ludmilla e il corvo (L’Orma, 2023).

Prima di tutto la storia di Ludmilla, la bambina che nell’inverno del 1923 piange la perdita della sua bambola in un parco di Berlino e viene consolata dallo scrittore Franz Kafka, autore per lei di un mai accertato romanzo epistolare che reinventa le sorti della bambola scomparsa. Intorno a questo episodio biografico (tramandato nelle memorie di Dora Diamant, allora fidanzata dell’autore), Gennaro Serio immagina una catena di personaggi che cercano di rintracciare l’ultima copia di Der Rabe (Il corvo), il romanzo perduto: un critico islandese cresciuto nel culto del Castello e per questo detto l’Agrimensore, un professore di Oxford estremamente abile con la fiamma ossidrica, un viticoltore portoghese che non ha mai sentito parlare di Kafka, l’anziano leader di una rete di lettori kafkiani organizzati e oltranzisti. Depistaggi, trappole, rapine, misteriosi approdi e inseguimenti animano il libro nel segno di una peripezia ora picaresca ora onirica, sempre orgogliosamente ironica, elegante e tutta votata alla dimensione iper-prospettica del metaletterario.

Romanzo che riferisce la ricerca di un romanzo, Ludmilla e il corvo è un racconto che si nutre continuamente di altri racconti, una scrittura che si qualifica e vuole essere avvertita come ri-scrittura, ombra di qualcosa che altrove è stato letto, copiato, tradotto, dimenticato o distrutto. Unica ambientazione affidabile in una trama che attraversa tanti confini e tocca tante città, è proprio la Repubblica delle Lettere, non a caso popolata da una vasta schiera di scrittori di fantasia e di scrittori realmente esistiti come Silvina Ocampo, Rainer Maria Rilke, Edgar Allan Poe, Fernando Pessoa, l’onnipresente Kafka e il mai citato ma imprescindibile Italo Calvino (e proprio con il Premio Calvino è stato accolto l’esordio di Serio nel 2020, con Notturno di Gibilterra). Oltre alla struttura che procede per tessere e livelli di discorso sovrapposti, oltre all’esibita mise en abyme, oltre al nome della bambola-bambina Ludmilla, rimanda a Se una notte d’inverno un viaggiatore la scelta di raccontare il gesto della lettura e della scrittura in tutte le sue manifestazioni e in tutte le sue possibili posture: dal lettore fanatico a quello inconsapevole, dal turbamento dell’autore davanti alla nudità del suo corpo/manoscritto agli interventi di traduttori, critici, accademici ed esegeti che costruiscono intorno alle carte un’armatura di nuovi campi testuali, moltiplicando e alterando la presenza dell’opera nel mondo.

In un tempo in cui le abitudini del consumo culturale si fanno sempre più orizzontali, Serio omaggia le insidie e le meraviglie della mediazione letteraria, costruendo un libro che, anche dal punto di vista della confezione editoriale, contamina apertamente la finzione e la verità storica, la scrittura narrativa e la dissertazione critica, l’immaginazione romanzesca e il rilievo filologico. Polo gravitazionale del volume diventano quindi le note che punteggiano il romanzo come fosse un lavoro argomentativo e che offrono al lettore l’ennesimo bivio: a chi accetta la pratica, apparentemente anti-estetica, di interrompere il filo narrativo per rintracciare a fine volume il contenuto delle note sono offerti particolari altrimenti ignoti sui personaggi e sulla trama, tessere narrative fuori posto che, all’interno dell’apparato, si alternano ad osservazioni storico-stilistiche su pagine di totale invenzione e riferimenti bibliografici puntuali su libri o articoli effettivamente reperibili in biblioteca. Si tratta di un testo che non si distingue più dal suo paratesto, di un romanzo scritto come un saggio che racconta vicende (almeno in parte) realmente accadute, ma anche di un saggio scritto come un romanzo in cui si sviluppano situazioni (almeno in parte) inventate e inverosimili.

L’autore non si accontenta di confondere realtà e finzione letteraria («la menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione») e non ha certo bisogno di dimostrare che il gioco della letteratura può avere un impatto dirompente sulla realtà, fino a sostituirla («inventiamo un gioco che ci trasforma tutte intere perché il mondo fatto dai grandi non ci piace tanto»). Con una prosa intelligente, vivace, insieme malinconica e beffarda, sposta piuttosto l’attenzione sul rapporto fra letteratura e studio della letteratura, evidenziando come non ci sia operazione critica che non si risolva in una scrittura: a differenza dei musicologi o dei cultori d’arte figurativa, che possono permettersi il lusso di non suonare o non dipingere, lo studioso di lettere è uno scrittore incontinente, un produttore di bibliografie e quindi un mistificatore di professione che Serio sottopone alla più spietata parodia e insieme ricopre della più riconoscente tenerezza.

I lettori di Ludmilla e il corvo non scopriranno il sensazionale inedito di un grande classico, ma entreranno nel labirinto di pagine scritte intorno a quello che sarebbe potuto essere il romanzo perduto di Kafka. Pagine composte nel desiderio struggente di un romanzo mai esistito, nella cauta convinzione che i romanzi mai scritti contino quanto quelli pubblicati, che i lettori iper-coscienti possano nuocere molto alla letteratura e i lettori distratti farle un gran bene, che di lettori curiosi e coraggiosi ha sempre bisogno la letteratura come ne ha sempre bisogno la vita. Oltre gli intrighi, le false piste e le cacce al tesoro, due sole certezze attendono al termine del libro: che la lettura resta la più grande avventura concessa ad un essere umano; e che, comunque vada, «nessuno può finire di leggere Il castello».


Gennaro Serio, Ludmilla e il corvo, Roma, L’orma, 2023, 18 €, 208 pp.