Si può comprendere Michel Gondry? La risposta semplice a una domanda complessa e repentina come questa può essere solo: no. È sempre stato molto difficile farci un’idea di quello che si celava dietro gli occhi bassi del regista di Se mi lasci ti cancello (2004), probabilmente perché il mondo di Gondry è più ampio del nostro: batterista del gruppo rock Oui Oui, videomaker di fiducia di Björk (poi collaboratore di altri grandi nomi là fuori), animatore. Mente, insieme a Charlie Kaufman, di uno dei film più pungolanti della storia del cinema, Gondry è un marchio di cui non conosciamo la fabbrica, uno specchio di cui non possiamo approfondire il riflesso. Provateci: quale altra sua opera sapreste nominare, oltre a quelle già citate?

Solo gli affezionati potranno alzare la mano e aggiungere un paio di nomi alla lista. La prima parte della storia è molto semplice: Se mi lasci ti cancello è una punta arrivata presto nella carriera di un regista all’epoca appena uscito dall’alveo degli enfants prodiges. Il resto della sua produzione non ha avuto quella stessa mira, non si è data la sfida di camminarsi davanti. Non ce la facciamo, non riusciamo a comprenderlo: com’è che, negli anni in cui ogni cineasta pagherebbe per vedersi assegnato un blockbuster di supereroi, Gondry continua a fare solo e sempre Gondry? Figurarsi che un The Green Hornet completamente sui generis l’ha pure diretto, nel 2011. Ma no, nemmeno flirtare con il mondo dei film più pop l’ha ancorato a definizioni più chiare. Per la seconda parte di spiegazione, invece, bisogna fare un giro un po’ più lungo. E cominciare dalla fine: ovvero da Il libro delle soluzioni, il più recente film di Gondry, nelle sale italiane dal primo novembre.

Il libro delle soluzioni è un making of. Perché il regista Marc Becker (Pierre Niney) ha avuto un’idea: vuole girare un film sensazionale, che abbracci l’intera esistenza dell’uomo contemporaneo. Una cosa joyciana, ma se Joyce fosse vissuto in America e fosse stato influenzato da Jean-Pierre Melville: personaggi che non smettono di camminare in strade grigio-blu, mete sconosciute, mani strette nelle tasche alla Humphrey Bogart. E poi, forse Ari Aster apprezzerebbe, topi giganti che rincorrono il protagonista, per qualche ragione, chi sa da dove. Naturalmente, i produttori non sono convinti. Comincia così una partita a guardia e ladri: Becker fugge con le pellicole del film a casa della zia Denise (Françoise Lebrun), dove finirà di girare e montare con alcuni fedelissimi prima che i “corporate” facciano cambiare direzione al lavoro. Più facile a dirsi che a farsi. Anche perché presto si nota che l’ostacolo vero non sono i soldi, bensì gli umori e la testa affollata di idee di Marc Becker, che guizza rapsodicamente da sequenze di pioggia artigianale realizzate con gli spruzzini del giardino di Denise a monomanie immobiliari, che lo porteranno ad acquistare una villa diroccata vicino a casa della zia.

Meno male che c’è il libro delle soluzioni: un vecchio quadernetto che Marc aveva comprato da bambino con l’idea di riempirlo delle soluzioni a tutti i problemi del mondo. Ma voilà – quando corre in camera per ritrovarlo, è vuoto. Non è un problema, per Monsieur Becker. Al contrario: diventa uno stimolo a riempirlo e ad affrontare i problemi che, be’, molto spesso si crea da solo. Meccanismo fertile non solo per la storia dentro il film, a cui procura svariati momenti di ilarità genuina e coinvolgente. Ma anche per la storia del demiurgo alter-ego Gondry, che si arricchisce di un livello di lettura intimo, e assolutamente riuscito.

Pierre Niney e Blanche Gardin ne Il libro delle soluzioni

Forse è il 2023 ad aver chiamato i cineasti all’introspezione, ma Il libro delle soluzioni non è certo il primo film ad alto tasso di personalismo che abbiamo visto quest’anno. Asteroid City di Wes Anderson ha provato a staccare un balzo nella filmografia del regista americano, navigando su acque mai così private. Nanni Moretti: Il sol dell’avvenire è un gioco su Moretti stesso che diventa Nanni e torna dietro la macchina da presa solo per ricominciare tutto da capo, un’altra volta. Gondry non è da meno. La volontà di mettersi a nudo, seppur con timidezza, è innegabile. Nel caso del francese, però, l’intrico è più fitto. Le ramificazioni provengono dall’esterno dell’opera, e cioè dal documentario Michel Gondry, Do It Yourself! di François Nemeta, presentato quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia.

Nemeta è regista, sceneggiatore, soprattutto collaboratore storico di Gondry. Negli anni ha tirato su materiale, tangibile e non, che poi ha assemblato in un documentario in due tempi sulla vita dietro le quinte di uno dei registi più inafferrabili di sempre. La prima è appunto Michel Gondry, Do It Yourself!, la seconda è A letto con Michel Gondry, presentata in Italia alla Festa del Cinema di Roma. Lo sguardo è palpabilmente privilegiato, Gondry sotto una luce così non si è visto mai. “Confessa” di perdersi per giorni per creare piccoli cartoni animati per una sola spettatrice, sua figlia. Rivela una calma inquietante nella voce, come se davvero tutto un genio potesse raccogliersi in qualche sussurro. E poi, elenca delle regole per creare arte. Pochi semplici passi, tre-quattro non di più, riassumibili in: non ascoltare gli altri. Che, guarda un po’, sono gli stessi step che Marc Becker scrive sul suo libro di soluzioni.

L’immedesimazione, insomma, è “chiamata”. Godendosi i documentari a ruota del Libro delle soluzioni, oppure il converso, si noteranno inoltre sempre più somiglianze tra il personaggio che Niney interpreta con grazia e precisione e il regista che l’ha portato sullo schermo. Si entra in un cosmo composto da lampi di creazione, detour incomprensibili, mettersi i bastoni tra le ruote da soli e incaponirsi, ancora e ancora, su qualcosa che tutti giudicano impossibile, dissennato, sconsigliabile. Questo è il “metodo Becker”, ma sembra essere, soprattutto, il “metodo Gondry”. Esempio: ho l’idea per un corto animato di due minuti che mi costerà solo tempo e il prezzo di qualche cartoncino. È la storia di una volpe che usa le orecchie come forbici e ritaglia nello sfondo un salone di parrucchieri. Non molto sexy, che dite? Questo spoiler possiamo farvelo: nella visione del Libro delle soluzioni, sarà uno dei momenti più alti. Che sia stata idea di Gondry o di Becker, naturalmente non è dato sapere.

Pierre Niney ne Il libro delle soluzioni

Se i meccanismi del gusto girassero meglio oliati, si potrebbe paragonare Il libro delle soluzioni 8 1/2. Anzi, Il libro delle soluzioni sarebbe 8 1/2. Per qualche ragione, però, abbiamo deciso che le due cose devono rimanere su piani distinti, e chiunque vi sentisse dire che “questo film è l’8 ½ di Gondry” vi darebbe dei tromboni, di quelli che si riempiono la bocca con gli stereotipi perché non hanno nulla da dire. Forse hanno ragione. Forse, in realtà, Gondry ha fatto anche di più, ma è troppo sfuggente per ammetterlo. Non è comune trovarsi scodellate le regole del gioco così dentro e fuori dalla metafora. In Asteroid City, Wes Anderson si è limitato a dire che “forse va bene non capire la storia”. Gondry ha rilanciato con una carico di briscola: ha fatto un film per dirci che lui lavora così, lui è così. E che, se non ci piace, comunque non ci ascolterà. Perché la prima regola è non chiedere i pareri degli altri, e, se anche li chiedi, farseli uscire subito dalle orecchie. In questo modo diventi uno che gira i video di Björk, assembla buffi corti animati per puro diletto e firma uno dei film migliori della storia del cinema.

Si può dunque comprendere Michel Gondry? Dopo il decalogo del Libro delle soluzioni, la domanda è davvero inutile. Sta a noi capire da che parte stare.