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“Sul rovescio dell’estate”: undici consigli di poesia

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Nulla attirerà gli sguardi dell’ombrellone a fianco come un libro di poesia sfoggiato con noncalente semplicità o poggiato aperto di taglio sul tavolino all’ora dell’aperitivo. (Valgono anche amache, alpeggi, scogli di fronte a mari di nebbia).

La redazione di poesia della Balena, con alcune gradite annessioni, vi consiglia le migliori letture della stagione con, super chicca, un titolo bonus, inedito, da tener d’occhio nella stagione che viene.


Marco Carretta, Per far vivere altro cadiamo, Industria & Letteratura, 2023 (Francesco Targhetta)

Orbita attorno al lavoro Per far vivere altro cadiamo (Industria & Letteratura, 2023), esordio in versi di Marco Carretta, e lo fa attraverso una narratività reticente, che procede per brachilogie e simboli: le poche parole del poeta sembrano riprodurre la laconicità dell’imprenditore spiccio o del contadino dalle mani livide che dominano la prima e la terza sezione, muovendosi in spazi mitici (l’azienda sorta dal nulla, la campagna senza tempo) dove «quello che serviva era il fare». Eppure l’epos, a tratti memore di un Pavese dal respiro ritmico mozzo, è oscurato dalle crisi, dalla delocalizzazione, dalle morti sul lavoro che costellano la parte centrale, dalla città che prolifera teppistica, invadendo i campi col suo «cunicolo di case»: nel poemetto Viviamo domeniche così diverse gli attriti esplodono, in un mix di gergo aziendale e aperture liriche («La mia station grigia | ferma gli uomini sui cancelli») con cui Carretta alza la tensione e mostra lo sfondo agonistico di quello che appare, come da titolo, un ciclo dei vinti aggiornato in versi.


Luciano Mazziotta, Sonetti e specchi a Orfeo da R.M. Rilke, Valigie Rosse, 2023 (Roberto Batisti)

Non una traduzione, se non nel senso liberissimo e perciò intimamente devoto degli antichi. Luciano Mazziotta, ancora per i tipi di Valigie Rosse dopo l’ottimo Posti a sedere (2019), trasceglie e vortit barbare 27 dei 55 Sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke, riscrivendoli con quella libertà spudorata che è concessa solo a chi ha meditato l’originale con lungo studio e grande amore. A fronte, non l’ipotesto rilkiano, ma altrettanti ‘specchi’ in prosa – la prosa ritmicissima dalle ossessive cadenze claustrofobiche a cui Mazziotta ci ha abituati – che da ciascun sonetto prendono le mosse per muovere in direzione decisamente personale. E se sulla pagina sinistra il concentrato lirismo rilkiano ancora regge, pur (tra)sfigurato dalla riscrittura – che elimina domande ed esclamazioni, a favore di un’assertività senza speranza –, sulla pagina destra si aprono spazi inesplorati e inquietanti. Dai versi simbolisti di Rilke, dopo un secolo esatto, Mazziotta fa germogliare foreste di simboli brutali, plastica illustrazione dell’impotente spaesamento di una nuova età della crisi. Tutta l’operazione è spiegata dall’autore nel saggio finale e parte integrante dell’opera, secondo le giornalistiche cinque W – qui declinate in tedesco (Was? Wie? Wann? Warum? Wo?), natürlich. Ma l’acribia esaustiva, quasi civettuola, del poeta-interprete-filologo illumina solo ingannevolmente la ratio dell’impresa: Mazziotta resta un maestro del dubbio e del perturbante, e anche la sua vittoriosa, perversa appropriazione di un autore apparentemente irraggiungibile ha qualcosa del sortilegio.


Francesco Deotto, Avventure e disavventure di una casa gialla, L’arcolaio, 2023 (Massimiliano Cappello)

Proteggetevi dal caldo nella casa gialla di cui Francesco Deotto ha refertato le Avventure e disavventure con il suo linguaggio gelido e compilativo, architettonico e ipotetico. Ma attenzione, perché entrando c’è da chiedersi, sul filo di una ninna-nanna eerie, se c’è ancora un pavimento, un letto, un tetto. E a cosa occorsero, e perché. E poi di quale storia di dolore e costrizione viene adesso minacciata l’esistenza, il senso, il luogo. E da chi.

A partire da qui, Deotto ha intessuto un vero e proprio terzo spazio, rifacendosi alle Recordações da Casa Amarela di João César Monteiro (1989). Ha praticato nei confronti di questa pellicola un gioco ecfrastico fatto di fake e di disobbedienza, che è tuttavia anche fedeltà e autenticità alla sua esperienza. Documentare, lo sappiamo, è una violenza. Deotto però lavora sul rovescio di questa pratica, suggerendo che l’oblio alle volte è più cruento. Soprattutto se operato dalle stesse forze che si imposero con la violenza, e adesso ridipingono le stanze (o le sopprimono). Avventure e disavventure di una casa gialla è infatti dedicato a quello che (si legge in termine di libro) fu «il primo, e per diversi decenni l’unico, ospedale psichiatrico del Portogallo», nel pieno centro di Lisbona: l’Hospital de Rilhafoles, inaugurato nel 1848 e ribattezzato Hospital Miguel Bombarda nel 1911.

Bisognerà dire di più e di meglio, del lavoro finora svolto da questo poeta, che della variazione sul tema aveva già fatto l’oggetto nel suo esordio, ossia la “curatela” di Nella prefazione di una battaglia (ItalicPequod 2018), a partire dal Conte di Kevenhüller di Giorgio Caproni. Ma per ora vorrei invece limitarmi a un dato che dal metrico volge in estetico e poi in etico. Il libro è costruito per inventari, descrizioni parietali, blocchi e ipotesi di distruzione. Smonta brano a brano il verso e l’idea stessa di un componimento, si muove nell’ambito del reportage più o meno militante, trattiene lo sdegno nella descrizione colloquiale, caricata di ironia o sarcasmo soprattutto grazie a un certo fraseggiare a vuoto. E tuttavia, è costruito quasi interamente a partire da dissimulatissimi versi tradizionali (settenari e endecasillabi, soprattutto, resi inconoscibili dalle sinafie).

J’attends le chant et le chantage des choses, scriveva Andrea Zanzotto parafrasando Paul Éluard. Deotto sembra averlo interpretato bene. In attesa che il «(continua)» a fine libro assuma un’altra forma, dunque, recuperate questo libro – e già che ci siete fate un salto sul suo profilo instagram, dove Deotto conduce, parallelamente, una ricerca fotografica e visuale à ne pas râter.


Gabriele Galloni, Sulla riva dei corpi e delle anime, Crocetti, 2023 (Stella Poli)

Io questo libro l’ho aspettato a lungo. Sulla riva dei corpi e delle anime (Crocetti, 2023) raccoglie (buona parte del)la produzione di Gabriele Galloni, scomparso il 6 settembre del 2020, giovanissimo, da Slittamenti (2017) all’Estate del mondo (2019) e sì, forse avrebbe potuto essere diverso, fra inclusioni, curatele, accuratezze, ma era, in una bolla in cui necessario sembra essere aggettivo obliterato fino al dileguo di senso, un’operazione necessaria.


Jacques Roubaud, Qualche cosa nero, FinisTerrae, 2023 (Francesco Deotto)

Prima ancora di poter essere considerato come un testo letterario, Qualche cosa nero (appena pubblicato da FinisTerrae, nella bella traduzione di Francesco Brancale e Tommaso Santi) probabilmente non può essere descritto che come un estremo atto d’amore. Jacques Roubaud, tra i maggiori poeti francofoni viventi (celebrato quest’anno col Grand Prix de Poésie dell’Académie française) lo ha pubblicato nel 1986 in seguito alla morte della moglie, Alix Cléo, lei stessa scrittrice, oltre che fotografa, scomparsa nel 1983 a soli 31 anni. In una forma al tempo stesso lucida e toccante, commossa e spietata, di dialogo con lei («Questa poesia ti è dedicata e non incontrerà nulla»), Roubaud costruisce un’opera attentissima ai dettagli e alla struttura generale. Un’opera priva di ogni sentimentalismo e che è particolarmente riuscita anche nella misura in cui l’autore non nasconde né la propria fragilità né i limiti e l’impotenza della scrittura poetica: «Non sono riuscito a parlare per quasi trenta mesi. | Non potevo più parlare secondo il mio modo di dire che è la poesia».


Barbara Giuliani, Bianca, neo, 2022 (Filippo Balestra)

Ecco, volevo scrivere una semi lunga mail a Barbara Giuliani per dirle qualcosa in merito al suo libro, che mi era piaciuto, poi ovviamente le ho soltanto inviato un commentino, a settembre, su messenger: “Alla fine me lo sono comprato, lo sto leggendo, mi piacciono certi accostamenti inusitati, se si può dire, di parole che ci si aspetterebbe di trovare altrove. Ma ne ho lette poche per ora, era un po’ per salutarti e felicitarmi”. Lei gentile mi ha risposto praticamente di dirle qualcosa quando sarei arrivato alla fine del libro. Non so se sono arrivato alla fine del libro – forse le ho semplicemente lette tutte – però leggendolo mi sono scritto degli appunti casualmente ritmati: “Disarmonica, della pigrizia fa battaglia, non evita di dire quel che pensa e dice anche quel che sbaglia. Tutta storta va avanti dritta, pensa agli altri dentro a se stessa, curva stretta quasi a gomito, discesa spericolata, voragine, vertigine, disattesa…”.

Finivano qui i miei appunti, forse mi sono soltanto avvicinato all’idea di qualcosa da dire ma questa è sicuramente l’ottima occasione per parlare del suo libro a Barbara e a tante altre persone.


Aleksandr Blok, La maschera di neve, San Marco dei Giustiniani, 2023 (Nicola Ferrari)

Chissà se davvero il poeta Aleksandr Blok (1880-1921), che sapeva ascoltare nella musica l’essenza del mondo, aveva voluto (come disse) trascrivere nel ritmo e nel suono dell’ultima poesia de La maschera di neve, 1907, il Wagner delle Valchirie e di Sigfrido (o se davvero si possa intendere, nell’intera raccolta, l’Allegretto della Settima di Beethoven, come sosteneva una delle sue prime lettrici); certo, il dionisiaco comporsi e scomporsi dei metri, l’irrequieta processione di assonanze e delle rime imperfette che intonano versi di passione e tumulto, l’eros di un incontro onirico e fiabesco, trasfigurato nel paesaggio innevato di Pietroburgo, hanno imparato il segreto di slanci e scarti dei cicli schumanniani (e dei loro carnevali d’ebbrezza); certo, Martina Morabito, assimilati e trasfigurati i sortilegi fonici di Ripellino, quella tumultuosa e incantata musica del canto di Blok, non solo traduce ma musicalmente trascrive nella sua orchestrazione del testo, pubblicata dalle edizioni san Marco dei Giustiniani.


Viola Lo Moro, Luoghi amati, Giulio Perrone Editore, 2022 (Federica Albani)

Luoghi amati, un titolo che si fa spazio, gli spazi urbani, decadenti e quasi apocalittici dei versi di Lo Moro: luoghi programmaticamente colmi di oggetti non poetabili («vorrei cantare gli oggetti brutti»), emblema di una modernità assurda («figure di plastica orrorifiche»), frantumati e frammentati. Ma presto, dai luoghi, ci si sposta cronotopicamente al tempo: dal passato del ricordo d’infanzia a un presente di noia di cui si anela la riappropriazione («per dire: anche qui | qui | solo qui | c’è vita»), fino a un futuro impossibile, ridotto al latrato di un cane, che non è dato, che sarà solamente la fine delle cose. Per la generazione dell’autrice, al contrario dei corpi che nei suoi versi hanno avuto il privilegio – pur nella malattia e in una fisicità spezzettata – della vecchiaia, rimane solo una giudiciana nostalgia di futuro, la consapevolezza di vivere in un’epoca senza secoli: «ho già nostalgia | l’attimo prima del passaggio | il tornante del presente». E così, anche la parola perde il proprio scopo, in «un’italia sgrammaticata» pervasa da una sfiducia esistenziale: «sappiamo solo dire ma non sappiamo più | che fare». L’azione è preclusa e di fronte alla natura, cui non a caso è metaforicamente accostato il corpo del tu femminile interlocutore privilegiato dell’io poetico («rara roccia sei, tocco le vertebre farsi licheni»), emerge con forza la pochezza dell’esistenza umana, le cui mirabili conquiste si rivelano solo irrisorie. Quando la malattia porta alla morte, però, ecco lo scarto finale: come vivere è un po’ morire, così la fine è sollievo, benedizione, è nuovo inizio, in un cerchio eterno («sono venuta al mondo | con la fascia a lutto»). Ed ecco allora riemergere una possibilità, una possibilità tutta politica e femminista: nei due componimenti che chiudono la raccolta, i verbi al futuro aprono uno spiraglio: «il futuro ci sarà, dice l’io poetico alle sorelle, sarete voi | saremo noi | a impugnare le reti dei pescatori in disuso | per farne trazione e rigirare la terra tutta | nell’altro ordine».


Chiara Serani, Dialoghi della sedia. Azioni a più voci, Anterem, 2023 (Marcello Sessa)

L’esordio in poesia di Chiara Serani è, letteralmente, una fenomenologia della sedia. Non è un caso – sebbene poco ci si pensi – che Joseph Kosuth nel 1965 abbia triplicato, in un celebre esito di quella che chiamava “hard-core conceptual art”, proprio quell’oggetto (dato effettivo, raffigurazione, definizione); è infatti, tra tutti i manufatti dell’ingegno umano, il più antropomorfo. Che sia singola fabbricazione artigianale o prodotto di design industriale (e quindi sottomessa al progetto e alle separazioni del lavoro del capitale), la sedia conserva sempre – ed essenzialmente, al modo di un un fantasma – la presenza della figura umana. Serani è attentissima a queste apparentemente inessenziali sottigliezze, tanto che ha deciso di meditarci sopra con un personale regesto di prose poetiche, strutturato come un fitto intertesto dalla cadenza iterativa. Ogni brano è una séance, in cui chi scrive è seduta: incatenata a diversi tipi di sedie e si ritrova – da ferma – a soppesare diversi aspetti del fenomenico (oggetti, principalmente); e, quando le riesce, ne fa epochè. Le contraddanze tra una seduta e l’altra sono l’occasione per ripensare il rapporto del soggetto con il mondo, e per ratificare quanto poco, abitando la realtà, si sia liberi di stare eretti, di incedere dimenandosi o di sdraiarsi; la sedia, per l’autrice, indica che l’esistenza è sempre condizionata, e che le “azioni a più voci” del sottotitolo sono datità che vengono incontro, e da cui si è ineluttabilmente perseguitati. Il libro richiama, in certi accorgimenti citazionisti, quella ponderosa e saputa riflessione poetica sull’idea di invenzione e di brevetto che è Mausoleum di Hans Magnus Enzensberger (1975); in calce ai blocchi testuali della penna di Serani non di rado compaiono glosse che spiegano, tecnicamente, la storia di ciò che da seduto l’io poetante tiene in mano o gli cade dai palmi. Dimenticato e perduto nel tempo è, invece, il nome di chi ha inventato la sedia; perché semplicemente non esiste: essa è specchio eterno dell’uomo. Anzi dell’oltremondano che all’uomo moderno è concesso di percepire; lo si dice nell’esergo fulminante, dal pittore Franz Marc: «Non è vero che la sedia sta diritta; essa viene così tenuta, altrimenti volerebbe via e si riunirebbe allo spirito».


Maria Teresa Carbone, Calendiario, Aragno, 2020 (Marilina Ciaco)

Le trame di senso che danno forma a Calendiario di Maria Teresa Carbone si dipanano attorno a due nuclei tematici portanti ben condensati nella crasi paronimica del titolo, non priva di certo wit. Da una parte il «diario» in quanto registrazione denotativa del vissuto, ovvero del circuito di percezione-elaborazione-costruzione che lo plasma, dall’altra il «calendario» che inscrive e incarna il soggetto nel tempo e nello spazio, nell’ordine dei giorni. Una scrittura (post-)lirica, dunque, dove il lirismo non può che scaturire dalla sottrazione. L’operazione lucida e autoironica condotta da Carbone sembra situarsi in quella dialettica fra emergenze della materia (oggetti quotidiani, spazi urbani e domestici, «spifferi | fra le parole») e proustiane intermittenze del cuore, e ciò che ne risulta è un referto, tanto razionale quanto intenso, di “ciò che è” e forse avrebbe potuto essere altrimenti, o forse no.

Così il soggetto si autodetermina come parte del continuum (anti-cartesiano) di corpo e psiche, e nel farlo ribadisce la propria posizione relativa: «sulla mappa confusa | di questo tempo mio | manca il puntino rosso | io sono qui | qui e non altrove (io)», «io sono forse solo quando dormo», «interno è quello che non puoi vedere», e ancora «tu sei qui you are here». Si aprirà con l’espressione genovese «Mi chi» (un ricordo familiare dell’autrice) anche il saggio-intervista Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia (Italo Svevo, 2022), e non è forse un caso che la prima ampia sezione (Calendiario 2004-2020) contenga, insieme ai testi, molte fotografie analoghe a quelle che l’autrice condivide su Instagram.

Fotografie che assumono una funzione tutt’altro che ecfrastica o mimetica, anzi sembrano orientate a decostruire l’idea stessa di “rappresentazione” o “illustrazione”, moltiplicando i referenti in campo e confermando la dipendenza di tutte le immagini (poetiche e visuali) dall’adozione di una prospettiva, dalla presenza di uno sguardo. Cani, gatti, figli, sconosciuti, soggetti che resteranno tracce labilissime sulla rètina, ci restituiscono la cifra di un’alterità non assimilabile, qualcosa che non comprendiamo mai del tutto. Nella seconda sezione (Cinque quarti. Esercizi di cosmogonia quotidiana) la componente visiva è proiettata nella gestione dello spazio della pagina e delle unità ritmico-sintattiche: le sestine di Carbone, compatte e irregolari a un tempo, dicono il mescolarsi di memoria e presente, così come di verità e finzione, nei brandelli di esistenza che restano cuciti addosso. Come fa notare Laura Pugno nella quarta di copertina, questa scrittura esprime un «desiderio che forse è ricordo e che ci è ricorso», e proprio in virtù del desiderio, nonostante le asperità e la fatica dei giorni, non rinuncia a «salvare» – se non «il mondo», perlomeno il suo «segno precario su supporto incerto».


Niccolò Bosacchi, Disbrigo degli affari correnti, inedito (Fabrizio Miliucci)

Il libro che vorrei consigliare ancora non è stato pubblicato, il che non significa che non esista (anzi, forse esisterà in pieno solo fino a quel momento). Si intitola Disbrigo degli affari correnti e l’ha scritto Niccolò Bosacchi. Disbrigo (fra l’altro) è testimone di come la poesia possa incunearsi fra il piano politico-sociale (collettivo) e quello emotivo-esistenziale (individuale). Un nesso pericoloso, come tutti sanno, che difficilmente porta ad esiti vivi. In questo caso, invece, è successo che “la cosa” potesse essere detta, per di più con un alto grado di nettezza e semplicità (e violenza). Ciò, credo, rappresenta un valore. Primo per la rarità dell’evento, e secondo per la sostanziale diversità rispetto al discorso di fondo (senza giudizi di merito sottintesi, se non quello che in qualunque panorama artistico-intellettuale la disomogeneità è di per sé un buon segno). Non esistendo (ancora) al mercato, (per me) questo libro è già una cosa eletta.