Luciano Mazziotta è docente di lettere, ma non scrive una poesia didascalica; viene da studi classici, ma non scrive, per fortuna, una poesia classicistica. Tuttavia la sua scrittura, genealogicamente ben radicata nelle esperienze avanguardistiche novecentesche e oggidiane, attinge forse all’apprendistato filologico un senso rigoroso della forma e un solido armamentario retorico. E conquista un personale “classicismo del disagio contemporaneo”, etichetta che forgiai per i testi presentati in occasione di RicercaBo 2017 e ora confluiti in volume.

Rispetto alle precedenti prove, Città biografiche (Zona, 2010) e soprattutto il già lodevole Previsioni e lapsus (Zona, 2014), Mazziotta qui “opta per un lavoro di formalizzazione e contenimento”, dimostrando “come il pessimismo e la nevrosi possano solo giovarsi di una mediazione formale minuziosa”. Cito dalla mia noterella d’allora, felice di poterne confermare il giudizio positivo.

Dalla sua raccolta precedente l’autore riprende, ed enfatizza, un elemento chiave: il modulo ternario del ritmo, l’ossessiva cadenza anfibrachica che struttura quasi tutti i testi. Come nota Paolo Maccari sul risvolto di copertina, il primo impatto del libro è infatti “d’ordine metrico, o per meglio dire percussivo”; e se è vero che “i suggerimenti iterativi e le stranianti cantilene” sono eredità della tradizione di ricerca, l’intuizione vincente di Mazziotta sta nell’implementarle tramite un verso lungo o lunghissimo ma ben ritmato e informato a un vivo senso della metrica italiana.

L’uso intelligente delle figure di suono non si limita al gioco ritmico-accentuale. Per non dare che un paio d’esempi, le anafore martellanti della poesia d’apertura (p. 7), accoppiate all’andamento cantilenante di cui s’è detto, impostano subito il tono ossessivamente claustrofobico del libro e in particolare delle sue sezioni iniziali; mentre nel preludio del notevole Trionfo della Morte (pp. 53s.) le allitterazioni prima in …VnD… e poi in pa… realizzano un’efficace mimesi dei rumori del traffico palermitano.

La stessa sintassi non è balba o disgregata ma neppure fluidamente eloquente; procede piuttosto per accumulo affannoso, nevrotico, con poche interpunzioni forti, e sovente sfocia a fine poesia in gnomai raggelanti il cui tono sentenzioso ha il sapore della sentenza ineluttabile.

Molto visibili sono in tutto il libro i refrains (specie incipitarî o conclusivi, e generativi d’intere sezioni, come il “si odiano” di Fanno spazio e il “questo è un buon soggetto per una fotografia” di Piano sequenza), i parallelismi, le riprese – se Mazziotta eccede in qualcosa, è in ricerca della simmetria. Ma proprio la calcolata gabbia formale fa la differenza: le minuziose contraintes che il poeta s’impone non mitigano affatto la forte carica etica ed emozionale da cui scaturiscono i versi, e servono anzi a potenziarne l’espressione.

Mentre nelle precedenti raccolte affioravano esperienze di viaggi e soggiorni di formazione (da Palermo ad Amburgo, Berlino, Bologna), qui Mazziotta affronta il nocciolo tematico della casa come posto nell’esistenza, e della sua inabitabilità come impossibilità, per la nostra generazione, di ottenere uno spazio proprio e vivibile nella realtà. Geometricamente precise, a questo riguardo, le citazioni di Thomas Bernhard in esergo (“La casa non era vuota, era / morta. È una cripta, pensavo”) e di Philip Schultz in chiusura (“The present remains uninhabitable”). Di qui l’atmosfera claustrofobica di una silloge dove la casa è al tempo stesso quinta teatrale e metafora di un presente soffocante; simbolo dell’aspirazione frustrata a un’adultità compiuta, e minaccia di chiusura in una posizione sociale e familiare insoddisfacente, quasi prefigurazione della tomba.

Soprattutto in quella che è all’incirca la prima metà del libro, quella più ripiegata sul privato, i campi semantici della ‘casa’, delle ‘stanze’ (col loro mobilio: tavoli, sedie, etc.), dello ‘spazio’ sono declinati in continuazione, e intrecciati a quelli della morte e della sparizione. La sezione Questo posto inquadra testo dopo testo gli ambienti della casa come altrettante scene, deserte e inquietanti, di un teatro minimo della crudeltà, dove nulla accade (e anzi proprio l’immobilismo ne è il dramma) ma si respira fin dalle prima pagine una tensione altissima.

I temi sono quelli, fra loro equivalenti come diverse sfaccettature di un unico disagio, dell’immobilità, del mutismo, del “letargo”, del soffocamento, dell’esclusione. I protagonisti (la persona tipica della raccolta è la prima plurale, rimandando a una situazione anzitutto di copia e poi generazionale) si sentono “in ostaggio reciproco”, “due ratti che sanno di essere in trappola”, strozzati sotto il ricatto dei morti e perennemente sulle soglie della vita. E sono, soprattutto, esclusi, tagliati fuori, su tutte le dimensioni temporali: “noi non siamo all’interno di un futuro”, “di un passato”, “di un presente”, come reitera lapidario a poche pagine di distanza l’ennesimo sinistro refrain. È una casa in cui “non abiterà mai nessuno”.

Nella sezione intitolata Fanno spazio il dramma si popola di personaggi: sempre nel claustrofobico spazio della casa, lungo l’arco di una giornata che si dipana dalla mattina alla notte (evidenziato nel testo dalle ricorrenti espressioni di tempo), si assiste alla convivenza tesa e disagiata fra persone che “si odiano”. Col suo ritornello e le sue unità aristoteliche, è la sezione dove il gusto per la costruzione geometrica appare più spiccato.

Vediamo all’opera in queste prime sezioni le tecniche che ricorreranno in tutta la raccolta, dandole coesione stilistica. Anzitutto la grande immaginazione visiva, cui si accompagna uno sguardo impersonale e fotografico: Mazziotta è un poeta che allestisce scenografie allegoriche con un gusto spesso pittorico (nomi come quelli di Bosch e Goya affiorano fra i versi) e poi le immortala con l’occhio d’un grande fotografo di scena, offrendo quella che sempre Maccari giustamente definisce “fotografia di una fotografia”. Sono modi, certo, di prendere le distanze dal proprio oggetto, chiudendolo in una doppia cornice; ma proprio questa artificiosa distanza consente a lui e a noi di vederlo.

Di pari passo con questa tecnica va il gusto per una sorta d’espressionismo controllato, per cui l’obbiettivo si sofferma volentieri su un oggetto sordido o macabro, spesso una creatura infima che s’infiltra negli angoli, e che basta ad alludere a tutta la carica d’angoscia e orrore trattenuta dalla scrittura. Le stanze del libro sono infestate, in particolare, da animaletti disgustosi: topi e ratti; cimici “come scritte a matita / dappertutto”; le blatte (simbolo kafkiano caro anche a Fabio Teti); e verso la conclusione del libro, un trittico dedicato al “ragnetto rosso” Balaustium murorum.

La seconda parte della raccolta prosegue l’ethos della prima in una dimensione più pubblica e densa di riferimenti ‘culturali’ (non a caso è da p. 45 che iniziano le Note esplicative finali). Si esce provvisoriamente dalle stanze private per immergersi nella città, e in particolare nella natìa Palermo, in visita alle sue strade chiassose e ad alcuni suoi importanti monumenti. Ma è sempre su simboli inquietanti di decadenza e distruzione che l’occhio del poeta, cupo, finisce per fissarsi: pezzi forti sono le due ecfrasi dedicate al Trionfo della morte di Palazzo Abatellis e alle mummie della Cripta dei Cappuccini. Dall’imbalsamazione in vita paventata nella prima sezione a veri cadaveri mummificati – fra i quali, a paradossale sarcastico risarcimento d’una progettualità famigliare compromessa, i visitatori si scelgono una famiglia di scheletri, per “portarceli in casa e accudirli: figli / cani compagni”.

Quanto all’anonimo Trionfo quattrocentesco, raggiunto con il caotico attraversamento della città della cui abile resa (caco)fonica s’è già detto, è forse il vertice artistico e insieme etico della raccolta. La Morte dell’affresco, iconicamente il “teschio a cavallo”, trionfa letteralmente sull’umanità e svetta sovrana sul libro. D’altronde Mazziotta, poeta poco amico delle semplificazioni, lascia sùbito intuire che la situazione è più complessa: è questo piuttosto un “trionfo del niente”, di una morte le cui “frecce colpiscono a caso” e anzi “provengono / dal fuori che è il posto a sedere che abiti // e forse a scagliarle sei tu”. I supplici ritratti nell’affresco attendono invano la liberazione del colpo fatale; “non riesci a uscire dal trionfo”, si ripete due volte. Torna, perentorio, il tema dell’immobilità e dell’evasione impossibile.

Questa della Morte trionfante è, naturalmente, una figura allegorica e araldica che il poeta trova per così dire già pronta (e il cui eterno ricorso viene amplificato con la menzione d’altri Trionfi nella storia artistico-letteraria, da Petrarca a Wenders); ma l’autore forgia molte figure consimili attingendo a oggetti più prosaici. Non viene meno, infatti, l’acume ‘fotografico’ della descrizione, sempre pronta a cogliere dalla magmatica realtà un dettaglio dal potenziale simbolico e ad amplificarlo in emblema. Così, ad esempio, lo “scorpione tatuato sul braccio” di un uomo, o il pittoresco parcheggiatore che sembra (e di fatto è, c’informa la nota) uscito da un film di Ciprì e Maresco, sono apparizioni fugaci ma non innocue, che si caricano di risonanze quasi apocalittiche.

Così nell’ultima sezione, dichiaratamente costruita come galleria di potenziali soggetti fotografici, l’albero genealogico scovato dal poeta-turista “dopo la porta antincendio” negli anfratti di Palermo è il perfetto stemma araldico di una generazione irrisolta e presa in trappola:

è un albero genealogico dai rami sterili

mozzati all’altezza del fiore e non gemmano

sembrano attorcersi come cordone al collo del neonato

Non certo da sterilità, però, è stata colpita la capacità creativa dell’autore. Per la maturazione stilistica e compositiva di cui questo libro è il frutto compiuto, Luciano Mazziotta è forse il most improved player della poesia italiana 2019, e Posti a sedere senz’altro una delle uscite più solide e suggestive di quest’anno.


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Luciano Mazziotta, Posti a sedere, Valigie rosse, Livorno 2019, 92 pp. € 12,00.