Il 13 marzo scorso, tramite un comunicato ufficiale dell’editore Kodansha, il mondo apprendeva la notizia della morte dello scrittore giapponese Kenzaburō Ōe. Sebbene l’autore premio Nobel non fosse stato molto presente sulla scena letteraria negli ultimi anni, la sua scomparsa ha lasciato un vuoto enorme, non solo in Giappone, ma anche sul palcoscenico culturale internazionale.

Ōe era una figura imponente. Con lui non se ne va soltanto un prolifico autore, che ha fatto della parola, scritta e pronunciata, la missione fondante della sua vita; se ne va anche un pezzo importante della storia culturale giapponese del dopoguerra. Nato nel 1935, Ōe era infatti l’ultimo scrittore e intellettuale engagé del dopoguerra nipponico. Questa constatazione non è di poco conto, specialmente se si considera lo stato attuale della letteratura giapponese, dove i romanzi spesso raccontano storie fini a se stesse, dove l’isolamento dei personaggi non è una scelta consapevole, ma un dato di fatto a priori, una contentezza consolatoria dove il confronto con l’altro è assente per definizione. Per contro, ciò che non è mai mancato nella vasta opera di Ōe è la riflessione sulla vita dell’uomo del dopoguerra, pieno di contraddizioni e violenze, ma anche di speranza. A tutto ciò egli coniugava un impegno politico, volto a sostenere un paese democratico che rispettasse i diritti umani; un impegno che lo portò più volte a prendere posizione contro revisioni costituzionali all’articolo 9, che sanciva la rinuncia alla guerra. Per Ōe pratiche come questa andavano combattute perché minavano l’identità pacifista del Giappone del dopoguerra.

Questa indefessa convinzione lo portò persino a rifiutare nel 1994 il prestigioso Ordine della Cultura, conferito dall’imperatore in persona, visto dallo scrittore come un ostacolo alla democratizzazione del paese. Unito alla sua opera letteraria, questo schieramento democratico risalta ancora di più in un Giappone dove attualmente gli intellettuali sono spesso influenzati dal partito al governo o paiono restii a prendere la parola contro il sistema e a esplicitare le proprie opinioni politiche sui media.

Per Ōe la letteratura era parte di una ricerca volta a esprimere le sofferenze dell’uomo moderno e a proporre vie di guarigione tramite la partecipazione e il confronto con il vissuto. Questa visione, che lui considerava umanista, risentiva delle lezioni del professore di letteratura francese Kazuo Watanabe, di cui lo scrittore fu allievo all’Università di Tokyo dal 1956 al 1959. L’umanista Watanabe, specialista e traduttore di Rabelais in giapponese, in principio non fu felice della scelta del suo studente di abbandonare la carriera accademica e di tentare la via del romanzo, ma gli rimase sempre accanto fino alla sua morte nel 1975 come mentore sia nella vita intellettuale, che in quella sentimentale. Fu proprio Watanabe a fare da tramite al matrimonio del giovane scrittore con Yukari, sorella dell’attore e futuro regista Jūzō Itami, nel 1960. Successivamente, Ōe ricorderà che nonostante Watanabe non avesse mai voluto commentare direttamente le opere del suo allievo, si era lasciato andare solamente a un commento: «Ōe scrive romanzi come se provenissero da sorgenti della foresta da cui egli stesso proviene; e quando un lettore pensa che le abbia esaurite, ecco che Ōe riprende a scrivere come se attingesse a un’acqua del tutto nuova».

Negli anni universitari Ōe pubblicò le sue prime opere. Da studente arrivato a Tokyo dalla sua nativa zona rurale e boscosa dell’isola di Shikoku – la più piccola della quattro isole maggiori dell’arcipelago –, Ōe si fece presto portavoce del disagio generazionale suo e dei coetanei. Nelle prime opere emerge lo smarrimento dei giovani nati negli anni dell’imperialismo giapponese che si trovavano a diventare uomini in un paese che, dopo il conflitto mondiale, si mostrava così diverso. Avendo ricevuto un indottrinamento che insegnava ai bambini che la massima aspirazione nella vita era morire per l’imperatore, dopo la sconfitta dell’ideologia nazionalista giapponese nella seconda guerra mondiale i giovani si trovavano spaesati.

Alla mercé di una società che, influenzata dall’occupazione americana, si andava allineando a un modello capitalistico, la generazione di Ōe non si riconosceva in ideali etici e morali definiti e si sentiva impotente. In questa chiave si può leggere il primo racconto pubblicato dallo scrittore, Uno strano lavoro (1957), dove dei giovani studenti vengono assunti per assistere nella soppressione di centocinquanta cani usati dalla Facoltà di medicina come cavie. Nella descrizione del desolante e surreale impiego dei ragazzi, vittime al pari dei cani di un sistema che li sfrutta per oscure macchinazioni, si legge lo smarrimento di una generazione rispetto a istituzioni che non la rappresentano. Una versione estrema delle difficoltà in cui versa la gioventù del dopoguerra e del conseguente rischio che queste si tramutino in violenza, si trova in un altro racconto, Seventeen (1961), nel quale un adolescente si unisce a un gruppo di facinorosi di estrema destra, trovando nell’annullamento individuale nella violenza collettiva un rifugio dalla crisi d’identità. Nel secondo volume della storia, le attività del gruppo culminano con l’assassinio del capo del partito socialista. A causa delle marcate somiglianze con il reale omicidio del politico socialista Inejirō Asanuma da parte di un giovane nazionalista nel 1960, e con il successivo suicidio del giovane in carcere, la pubblicazione di questa seconda parte, dal titolo Morte di un giovane militante, provocò le proteste dell’estrema destra giapponese che ne causarono l’omissione dalle antologie di Ōe per molti anni.

Ōe si fece notare molto presto dai circoli letterari, ottenendo l’ambito premio Akutagawa già nel 1958, a soli ventitré anni, per il racconto Animale d’allevamento. Questa storia, che immagina l’incontro fra un bambino di un villaggio e un prigioniero di guerra afroamericano, propone una riflessione sulla violenza e la discriminazione verso il diverso, e come queste possano essere insite in ogni uomo a seconda delle circostanze, sia da parte degli abitanti della città ai danni di quelli del villaggio, sia da questi ultimi ai danni del prigioniero, equiparato a una bestia.

Con la maturità Ōe ha mostrato una spiccata abilità a collegare riflessioni scaturite da episodi nella propria vita a questioni universali dell’uomo moderno. Significativa in questo senso fu la crisi personale che lo colpì nel 1963, quando il suo primogenito Hikari nacque affetto da un’ernia cerebrale che necessitò di un intervento chirurgico d’urgenza. L’episodio generò uno dei suoi romanzi più celebri, Un’esperienza personale (1964), dove anche il narratore Bird deve far fronte alla decisione se far operare il figlio neonato con una malformazione cranica, o lasciarlo morire, liberandosi così dal prospetto di una vita futura poco avventurosa e allettante dominata da pressanti responsabilità genitoriali. Partendo dall’episodio reale della coesistenza con il figlio disabile, che poi tratterà in varie altre opere, lo scrittore esplora l’animo umano in tutte le sue sfaccettature, dalle passioni e i sogni più torbidi, alla paura di fronte a fatalità che possono sconvolgere la vita per sempre.

Questo sentimento era particolarmente connaturato all’esistenza dell’uomo nell’epoca nucleare, dove si deve ormai convivere con la possibilità subliminale che la vita possa essere obliterata improvvisamente. Tali riflessioni sfociarono poi nella celebre raccolta di saggi Note su Hiroshima (1965), dove l’autore riporta le impressioni ricavate dai ripetuti viaggi nella città come inviato a conferenze sul disarmo nucleare a partire dal 1963. Basandosi su un gran numero di interviste alle vittime, ma anche ai medici e agli infermieri che le avevano assistite, Ōe dipinge un affresco di grande umanità, ribadendo il diritto al silenzio privato, ma mostrando anche il lato oscuro dei movimenti pacifisti delle varie organizzazioni che strumentalizzano la sofferenza individuale per propaganda politica.

L’interrogativo ricorrente nelle Note è se il Giappone abbia veramente imparato qualcosa dalla sconfitta nel secondo conflitto mondiale. L’esperienza di Hiroshima deve esortare alla rinuncia al nucleare, per evitare altri simili disastri: in linea con i suoi scritti, lo scrittore fu un fermo oppositore del nucleare, partecipando attivamente anche alle manifestazioni in seguito al disastro del reattore di Fukushima nel 2011. In quell’occasione Ōe espresse il suo profondo rammarico in un articolo sul New Yorker: «Ripetere l’errore [di Hiroshima] mostrando, con la costruzione di reattori nucleari, la stessa mancanza di rispetto per la vita umana è il peggior tradimento possibile alla memoria delle vittime di Hiroshima».

Nella sua ricerca umanistica, Ōe considerava la riflessione sull’identità un atto imprescindibile della scrittura, così come il confronto sincero con se stessi anche qualora questo portasse a rivelare profonde contraddizioni. Lo stesso sguardo attento, spesso impietoso nelle descrizioni, lo rivolgeva necessariamente anche al proprio paese. Nel discorso in occasione del conferimento del premio Nobel nel 1994, Ōe tratteggia un Giappone che non ha ancora fatto i conti con il proprio passato recente, né con la propria identità di nazione asiatica. Lo scrittore definisce questo «male cronico moderno» con il termine ambiguità. Ōe sottolinea la pregnanza di tale questione rispetto a considerazioni di tipo più estetico in un’evidente contrapposizione alla bellezza fulcro del discorso di Yasunari Kawabata, il precedente scrittore giapponese a vincere il premio Nobel nel 1968, che aveva parlato di estetica giapponese tradizionale e zen.

L’approfondimento della complessa realtà umana si sposava in Ōe anche con l’analisi delle radici, e del rapporto tra dimensione locale e tematiche storiche (e storiografiche) più ampie. La sua valle natia nello Shikoku, con la sua foresta e le sue leggende locali, così lontane dal paesaggio urbano e razionale di Tokyo, rappresentano infatti la forza propulsiva della narrazione in molte opere, soprattutto dalla seconda metà degli anni ‘60. Ad esempio, nel celebre romanzo Il grido silenzioso (1967), una delle opere citate come fondamentali dal comitato di assegnazione del Nobel, due fratelli tornano dalla capitale nel loro villaggio natale per vendere una proprietà. Il loro soggiorno nella piccola comunità rurale riporterà in superficie storie di violenze, in un gioco sottile fra vari piani temporali che, oltre al presente, interseca le faide tra i locali e gli immigrati coreani in tempo di guerra con le sommosse popolari in epoca feudale (1860), delle quali gli antenati dei due fratelli furono protagonisti. Se da una parte il romanzo rivendica l’importanza di una cultura e di episodi che possono essere considerati marginali dalla Storia con la ‘s’ maiuscola perché provenienti da luoghi altrettanto periferici, dall’altra esso propone una profonda riflessione sulla natura della ricostruzione storica che, basata su ricordi e su esperienze di uomini diversi, non può che essere frammentaria, ma non per questo meno vera.

Per Ōe riesaminare l’esperienza personale era un processo senza fine e che si nutriva di una ripetizione non automatica ma consapevole, in grado di illuminare aspetti sempre nuovi. Secondo Michiko Wilson, è da qui che scaturisce il suo concetto di nostalgia. Infatti, Ōe scrisse molte opere che, in varia misura, si basavano sulla sua stessa vita, ponendo nel ruolo di narratore un alter ego letterario, anch’egli scrittore di fama internazionale. Uno dei romanzi più riusciti in questo senso è Gli anni della nostalgia (1987), dove l’autore scinde la propria personalità nella figura di due amici, il suo alter ego K., scrittore residente a Tokyo, e il colto amico d’infanzia Gii, una proiezione di Ōe se avesse compiuto scelte diverse e fosse rimasto nel villaggio dello Shikoku. L’opera è un viaggio letterario che ripercorre la vita dello scrittore attraverso il suo rapporto con l’amico e le loro disquisizioni letterarie sulla Divina commedia. Esplorando la relazione tra la lontananza dalla terra natia e l’identità di scrittore, Ōe mette in scena una storia di grande impatto emotivo, nella quale il viaggio di Dante esemplifica sì la vasta cultura internazionale dell’autore, ma soprattutto offre una possibilità di commovente riconciliazione. Come Dante nel percorso infernale con Virgilio giunge al Purgatorio mondato, così anche l’uomo Ōe riesce, tramite la riflessione attenta su se stesso, sulle proprie contraddizioni e i propri segreti, ad addivenire a una visione di speranza per il futuro.

È proprio con questo messaggio di speranza che Ōe ci ha lasciati. La sua opera e la sua vita, che non si sono mai risparmiate dall’affrontare con sincerità alcuni tra i temi più fondativi della condizione contemporanea, lasciano a dimostrazione che le parole possono dare solidarietà e offrire conforto. Seppur basata su storie personali, la sua letteratura riesce a toccare l’universale nella nostra esperienza umana, fatta di sofferenza, ma anche di potenziale guarigione. E anche adesso che Ōe non c’è più, noi possiamo ricordarci della potenza delle parole continuando a leggerlo, ogni volta riscoprendolo e riscoprendoci nella sua fervida immaginazione.