Mieko Kawakami è una delle scrittrici giapponesi contemporanee di maggior successo. Attiva in Giappone da più di un decennio, vincitrice di riconoscimenti letterari come l’ambito Premio Akutagawa nel 2007, negli ultimi anni ha visto crescere enormemente la sua popolarità anche all’estero. A dimostrazione di ciò, le recenti traduzioni in inglese e italiano del suo romanzo Seni e uova nel 2020 hanno avuto grande seguito, attirando l’attenzione di stampa e lettori. Seni e uova offre una visione sfaccettata della condizione della donna, esplorando il suo rapporto con il desiderio di maternità, con la necessità e con l’assenza di controparti maschili nel Giappone di oggi. A questo proposito, in occasione dell’imminente lancio del libro, nell’agosto 2020 il settimanale 7 del Corriere della sera dedicava la parte centrale proprio alla prima intervista italiana dell’autrice. Nel pezzo intitolato “Mai più geishe”, la scrittrice parlava dello status della donna in Giappone e delle continue difficoltà derivate dal trovarsi a sopravvivere in una società ancora fortemente maschilista.

Queste tematiche, esplorate nel romanzo, danno anche un’idea generale della poetica di Kawakami, che affronta sovente le problematiche identitarie di individui “diversi” che vivono in una società spesso lenta a comprendere e ad accettare le differenze. Su tale sfondo si colloca anche il suo secondo romanzo, Heaven, pubblicato in Giappone nel 2009 e in Italia nel 2021 nella traduzione di Gianluca Coci, che sposta l’attenzione sul fenomeno del bullismo tra i giovani.

Ambientato nel 1991, Heaven è narrato in prima persona da un ragazzo quattordicenne, di cui non viene mai rivelato il nome. Affetto da strabismo, questo studente delle medie è vittima di bullismo da parte dei suoi compagni che, capeggiati dall’autoritario – e studente di talento – Ninomiya, lo dileggiano chiamandolo “occhi storti” (ronpari in giapponese, crasi di rondon, Londra, e pari, Parigi, riferendosi agli occhi del ragazzo che guarderebbero in due direzioni opposte, verso le due capitali appunto). Il bullismo nei suoi confronti non si limita alle offese verbali e a qualche spintone, ma è caratterizzato da atti di violenza anche estrema, come nell’emblematico episodio in cui i ragazzi infilano un pallone sulla testa del narratore e iniziano a giocare a calcio “umano” usandolo come palla.

Uniche interruzioni nella monotona vita del ragazzo, che scorre fra violenze all’ordine del giorno, sono gli scambi di biglietti, iniziati quasi per caso, con la compagna di classe Kojima, anche lei perseguitata dalle compagne a causa dell’aspetto sporco e dimesso. Attraverso questi dialoghi epistolari, i due ragazzi condividono le loro sofferenze e diventano amici – loro che nella loro vita di amici non ne avevano mai avuti, non avendo niente in comune con i propri coetanei. A questo scambio si aggiungono sporadici incontri di persona: una volta, durante le vacanze estive, i due visitano un museo d’arte, dove Kojima mostra al ragazzo il suo quadro preferito, una scena di due fidanzati che mangiano; per lei, il quadro li ritrae in seguito a una grande sofferenza, che però i due «sono riusciti a superar[e] insieme, restando uniti, e per questo vivono nella felicità più grande che esista» (p. 63). Per Kojima, la stanza in cui si trovano i due innamorati, benché spoglia, simboleggia il loro percorso emotivo, dal dolore all’armonia e al luogo tranquillo di pace che hanno raggiunto insieme. Andando oltre le apparenze, si capisce che quello è il paradiso – Heaven –, il nome che lei stessa dà al quadro.

Questa concezione di Heaven, del luogo di “pace” a cui si può addivenire passando per la sofferenza, è una riflessione cruciale nel romanzo. Nel susseguirsi di eventi, di violenze e di messaggi scambiati, Heaven intesse una particolare interpretazione del bullismo giovanile e della resistenza a esso, incarnata da Kojima. La ragazza vede tutto ciò che le accade come parte necessaria di un percorso esistenziale, al termine del quale chi lo merita avrà la giusta retribuzione. Questo merito lo si guadagna anche attraverso la sofferenza della sopportazione dei difetti altrui. Per Kojima, infatti, gli altri non la tormentano perché spinti da un motivo preciso, e nemmeno perché siano intrinsecamente cattivi, bensì per mancanza d’immaginazione: «Non pensano a niente. Imitano, prendono il testimone da qualcun altro in modo del tutto automatico, e applicano gli stessi schemi senza riflettere» (p. 96). A tutto ciò, allora, viene conferito del senso proprio perché la sopportazione silenziosa ma costante delle violenze, per quanto insensate, condurrà alla terra promessa, alla ricompensa conferita da una divinità onnisciente che tutto osserva: «È come se fosse una grande prova: dopo aver sopportato tutto, alla fine, ci aspettano un luogo o un evento speciali, qualcosa in cui non ci saremmo mai imbattuti se non avessimo sopportato tutto e resistito fino alla fine» (p. 97).

A questa visione teleologica di una resistenza silenziosa, un’accettazione passiva solo all’apparenza, si oppone un’altra visione importante, che proviene da uno dei bulli stessi, chiamato Momose. Quando il narratore riesce a chiedergli il motivo della sua aggressività, Momose risponde che in realtà non esiste una spiegazione razionale per tutto: tutto è casuale, determinato dalle circostanze. Non esiste una morale assoluta, così come non esiste un inferno che attende chi non ha vissuto secondo un ideale solido di giustizia. Ogni individuo crea la propria morale: «Fondamentalmente ognuno vive in un suo proprio mondo e la pensa in modo diverso […] mondi diversi e distanti che si incrociano solo per caso. Poi, una volta che il contatto è avvenuto, è ovvio che ciascuno cerca di attirare gli altri entro la propria orbita, nel proprio sistema di valori, così da aumentare la massa e il peso specifico e farsi notare in questo nostro piccolo universo» (p. 172-73). Per questo, le violenze ai danni del ragazzo non sono razionalmente determinate dal suo strabismo, ma da uno scontro di circostanze, di possibilità e istinti da sfogare momentaneamente; i bulli lo bersagliano perché ne hanno voglia, perché possono farlo.

Se Kojima considera la propria (r)esistenza come una missione che giungerà a uno scopo – si noti inoltre che lei continua a mettersi vestiti vecchi e trasandati per sentirsi vicina a suo padre –, Momose ha invece una visione nichilistica della vita. Per lui non esistono né un significato, né una morale oggettivi: lo spazio dell’esistenza si rivela solo un territorio di scontri di visioni individualistiche. Per questo motivo, nella sua recensione sul New York Times, Nadja Spiegelman definisce Momose il Nietzsche rispetto alla taoista Kojima, che ricorda nella prassi il concetto del wuwei, o “inazione”, proposto dal filosofo Laozi.

La posizione di Momose ricorda anche teorie culturali relative alla società giapponese della seconda metà degli anni Novanta. Per esempio, ne La creatività della generazione zero (zero nendai no sōzōryoku, 2008), il critico Tsunehiro Uno, riflettendo su opere di letteratura e cultura popolare, sottolinea come alla fine del ventesimo secolo e nella decade successiva l’immaginario creativo giapponese si sia spostato verso narrazioni prive di valori assoluti di giustizia, di bene e di male, che lasciano spazio a scenari conflittuali dove i contrasti fra i personaggi che cercano di far prevalere il proprio credo spesso assumono contorni di una lotta per la sopravvivenza. Emblematici di questa tendenza sono il romanzo Battle Royale (1999) di Kōshun Takami (poi adattato anche nel celeberrimo film del 2000), e il manga Death Note (2003-2006).

Alla luce di questo scenario, che per certi versi può risentire anche del declino delle grandi narrazioni ideologiche proprio della condizione postmoderna delineata da Jean-François Lyotard, il fatto che Kawakami abbia ambientato il romanzo all’inizio degli anni Novanta e alla vigilia della recessione economica attuale in Giappone – con la relativa precarizzazione del lavoro unita a una crescente instabilità anche emotiva fra i giovani a vari livelli – non appare affatto una coincidenza. Questa particolare posizione cronologica diventa allora un momento emblematico e di scontro fra varie posizioni rispetto alla questione del bullismo e della concezione della vita, quasi un preludio all’incipiente instabilità del mercato e della vita dei giovani, la quale darà adito a dibattiti epistemologici che vedono la solitudine come condizione base di molti giapponesi nel ventunesimo secolo. Facendo un ulteriore passo in questa direzione, le figure dei giovani protagonisti possono essere proiettate nel futuro, associandole così alla cosiddetta “generazione perduta” (rosuto jenerēshon) dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro nel pieno della crisi.

In questa prospettiva più ampia, le visioni di Kojima e Momose acquisiscono nuova importanza ed emergono ancora di più come l’aspetto più interessante e originale di Heaven. Fra di esse si muove il narratore che, incarnando anche le impressioni dei lettori, cerca di trovare un senso e una sua ricerca della felicità attraverso i dubbi e le problematiche di un’esistenza passata tra le violenze e la difficoltà di accettare gli estremismi dei suoi compagni. Tutte queste interazioni sono caratterizzate da lunghi dialoghi che oscillano fra profonde considerazioni filosofiche e immagini proprie delle conversazioni tra ragazzi. L’autrice gestisce molto bene queste fasi, alternando sapientemente spiegazioni più distese ad accelerazioni di ritmo fatte da battute secche e domande. Questi scambi e monologhi si impongono rispetto alla trama e alla caratterizzazione degli altri personaggi, e fanno di Heaven un testo che si presta particolarmente bene ad adattamenti teatrali e a letture recitate in pubblico – come anche dimostrato dallo spettacolo allestito al Southbank Centre di Londra lo scorso autunno. La traduzione italiana traspone con maestria questi dibattiti, rendendo il fluire delle conversazioni con un lessico adeguato e con un ritmo vivo, che fanno appassionare alla lettura.

Con Heaven, Mieko Kawakami dipinge un sentito ritratto delle sofferenze di ragazzi vittime di bullismo, caratterizzando i personaggi principali con vivida personalità. Più che una denuncia aperta, sono le storie personali delle due vittime a mostrare l’insensatezza di certi comportamenti. Tuttavia, le riflessioni dei ragazzi, in particolare di Kojima e Momose, toccano temi che hanno anche un respiro più ampio, esprimendo visioni sulla vita e sul nostro posto nel mondo. Grandi temi quali la ricerca identitaria e della felicità, solitamente affrontati da personaggi nel pieno dell’adolescenza o alle soglie dell’età adulta, vengono qui proposti dalla prospettiva di studenti della scuola media. La diversificazione e la cura nella descrizione delle molteplici visioni dei bambini è forse la parte più riuscita del romanzo; se letto in quest’ottica, il finale semiaperto assume ancora più rilevanza.

Sebbene sia stato pubblicato in Giappone ben prima di Seni e uova, e abbia ricevuto importanti riconoscimenti in patria all’epoca – come il premio per scrittori esordienti conferito dall’Agenzia per gli affari culturali del Ministero dell’Istruzione, e il premio Murasaki Shikibu per la letteratura femminile – l’apparizione di Heaven, ora, sulla scena letteraria occidentale conferma come Mieko Kawakami sia una delle voci giapponesi contemporanee più importanti nel panorama globale. Insieme a Sayaka Murata e Aoko Matsuda, per citare due delle autrici più famose, Kawakami si fa esponente di un tipo di letteratura contemporanea giapponese che è strettamente legata alla dimensione sociale, e che trova ottimo riscontro di pubblico e critica. Si tratta di una letteratura che, con grande e spesso sbalorditiva immaginazione, tratta di tematiche del mondo odierno, facendo speciale attenzione a coloro che sono ai margini e che cercano di trovare i propri occhi per esistere nel loro mondo, nel loro heaven. Anche se questi occhi spesso possono sembrare storti.


Mieko Kawakami, Heaven (2009), trad. it. di Gianluca Coci, 2021, Edizioni e/o, pp. 256, € 17.