Quanto di celato, di nascosto, di rimosso in tanto sforzo di rendere Lo spettro visibile, come suona il secondo libro di poesie di Antonio Francesco Perozzi (Arcipelago Itaca, 2022). Sin dal titolo, segmento a minore di un endecasillabo fantasma, se ne avverte l’assertività esasperata, il pleonasmo, l’autoparodia. Vuole svelare la possibilità e la condanna dell’iperconsapevolezza, e il tentativo di tornare a balbettare in lingue strane disciogliendosi nel cosmo.

Nella sua ricca introduzione al libro, Pasquale Pietro Del Giudice ne mette già criticamente in luce i tratti essenziali. E molto se ne è detto, nelle recensioni che l’hanno accolto e accompagnato nell’anno anno e mezzo che passa tra la sua pubblicazione e questa nota, non distante in ordine di tempo dall’apparizione del XVI Quaderno marcos y marcos, entro cui figura anche Perozzi. 

L’uso degli indicativi, l’attraversamento dei (o per meglio dire nel dissolvimento nei) domini eucarioti e procarioti rimandano a un’operabilità del mondo. Se n’è potuto parlare in termini di fusione panica col circostante, di vena lucreziana. Perozzi sa muoversi su piani differenti di pronuncia, portandosi a casa (come si è detto) mirabolanti 3-3 in trasferta contro il trend orfico-ermetico 4.0. L’insistenza sul tramonto e la catabasi, oltre che per il repertorio avanguardista delle immagini plasmate, rimanda a vecchi e nuovi nocchieri infernali (Waste LandLaborintus ecc.).

Quello che molto dimessamente si vorrebbe fare qui, tra cotanto senno, è più frammentario e marginale di quanto una lettura comprensiva forse sarebbe in grado di cogliere. Si tratta di mettere in luce una certa consistenza nell’attraversamento della soglia per come emerge nelle prime pagine della raccolta, che preludono a sconfinamenti oltre l’umano. Perché, certo, emerge: l’intento di Perozzi è quello di ricongiungersi integralmente al mondo della vita, proprio di tanta poesia ecopoetica. Lo fa tuttavia partendo da sé, assumendo su di sé e interamente una condizione della propria lingua: la sua costrizione a umanizzare

Si tratta dunque di un’operazione unitaria (e, per certi versi, totalizzante) di intelligenza della realtà, che tuttavia non rinuncia ad avvalersi di una pluralità di soluzioni espressive come omologo di quella “obbedienza” alla prosa del mondo, o alla sua poesia, che campeggia in esergo. E che ne è anzi la vera malta.

La Catabasi normale che apre il libro descrive, in questo senso e alla lettera, il declino ma anche l’approfondimento di questa ragione antropocentrica, fiera sedata sul piano percettivo ma ancora rabbiosa ed ergotante. I testi che compongono questa sezione mostrano su più livelli in che consista tale savio furore. È soprattutto la riemersione delle asfittiche categorie che strutturano la nostra esperienza della realtà e del linguaggio, a fare gioco, qui. Come per un riflesso condizionato, si rifanno vive se sollecitate, ritornano (per l’appunto) visibili quando un senso non umano prende a serpeggiarvi. 

Il sette, ad esempio, numero esoterico se ce n’è uno, vi occupa un posto di rilievo. Un settenario apre il pezzo iniziale, Caduta («Quindi è cieca – e questa», p. 21). Notturno (p. 24) è tutto giocato sulla contrapposizione tra la minimità di certi spazi umani («sette metri per sette») e le aperture cosmiche delle oscurità astrali della luna, settima età del mondo, e di Venere dai sette difetti. E poi, certo, i sette versi di Visione (p. 25), brano appena successivo, con il suo incedere da pseudo-alessandrino e i suoi stemmi araldici – l’uovo orfico sette volte cinto, il veltro – su campo buñueliano-magrittiano:

Allora è come se l’oceano si formasse
dentro l’oscurità dell’uovo. Carcasse
sono le immagini sfogliate che provi
a toccare, i resti. «Vieni». Obbedisco
e c’è un cane levriero a scucire
ordalia per ordalia questo buio; l’iride,
la rada chiara, l’alba che si leva. 

Queste raffigurazioni si pongono come punto di rottura tra un’idea di cultura inabitabile se non a patto di “rileggere nel cielo i vecchi segni” e una obbedienza, appunto, ad altro, e che sempre più si fa presente come esortazione alla veglia (Diurno, p. 26) e alla ricerca (Viandanza, p. 27).  

La cecità che fonda la Catabasi normale, insieme all’insistenza uguale e contraria sul fatto visivo e anzi ottico (si veda anche Miriade) è un invito a muoversi per tentativi, accettando che l’esplorazione possa darsi in lingua non redenta nei riferimenti figurali o espressivi, purché se ne riesca a strappare un altro possibile senso:

Fidati – se puoi – e seguimi
lo sforzo di riconoscere i contro-pesi
che succhiano da dietro la zona dove
un gatto si sottrae e il giovane che vertebra
per vertebra sei stato non sei.
Ho appreso dalla cecità del mattino 
la tecnica per votarli alla catena
dei fenomeni;

(da Epoché, p. 32, vv. 3-10)

La «zona dove | un gatto si sottrae» è forse per davvero il campo schroedingeriano delle possibilità contraddittorie di esistenza in cui si danno i segni di un tempo passato che agisce per erosione cellulare. A parlare in questi scritti è forse quella sottrazione.

La “catena dei fenomeni”, aggiornamento della “necessità” sereniana (Gli strumenti umani), non è quindi ciò che ancora avvince tra un’eternità e una contingenza, ma la sola “istanza in ultima analisi determinante” cui votarsi. È un’indicazione su ciò che resta da fare. Che il linguaggio tenda a farsi sempre meno auratico Dalla soglia (seconda sezione dello Spettro visibile) in poi, è semplicemente la riprova che per abbandonare un mondo o un modo occorre averlo attraversato


A. F. Perozzi, Lo spettro visibile, Ancona, ArcipelagoItaca, 2022, pp. 104, €13,50.


(in copertina: immagine di Raül Santín su Unsplash)