Padova, tarda primavera duemilaventitré.

La mattina dopo aver visto Gli ultimi giorni dell’umanità al cinema Lux incontro Alessandro Gagliardo, il co-regista, e Aura Ghezzi, che, come mi suggerisce lei stessa, è l’unica ad avere un ruolo, in senso attoriale, nel film. Suo padre, l’altro co-regista, enrico ghezzi, non c’è. Ovunque sia, oso immaginarlo impegnato – lo è da sempre – a riappropriarsi di un certo tempo perduto (che poi è anche perso) di cui il cinema continuamente ci espropria, con nostra estrema ed eroica, erotica, eretica complicità. Credo che ghezzi abbia continuato a far proprio questo estraendo centonovantasei minuti di catastrofi e contaminazioni da settecentocinquanta ore di videotape e dai film tanto amati lungo una vita intera, per dare corpo a questo film che davvero è l’allegria di un naufragio, quello dello sguardo della specie umana. Il cinematografo come spora (la produzione è firmata Matango) e l’archivio privato al posto di tutta la memoria del mondo? Forse. Di certo un’amorosa visione.

PGAGli ultimi giorni dell’umanità, presentato altrove come «un (non) film di enrico ghezzi e alessandro gagliardo», mi pare anzitutto un film sull’incapacità di non guardare o l’impossibilità di non vedere, come a un certo punto dice Jean-Marie Straub durante una lezione contro più che dentro l’università registrata da ghezzi; e ancor meglio, sul bisogno di contemplare, come per il Cézanne del Mont Saint-Victoire evocato da Straub. Eppure il vostro film lascia dietro di sé anzitutto una domanda: esiste qualcosa che il cinema – che, come dicevi ieri sera tu, Alessandro, è anche un soggetto che ci guarda – riesce a non vedere?

AlGaÈ una domanda piena di non. Provo a sfatarne uno, il primo, ovvero se questo sia o non sia un film, cioè se sia un (non) film o un film. Quel (non) che ci portiamo dietro è un (non) che viene inserito nel film nel momento in cui non c’era, quando stavamo facendo la raccolta fondi, e poi è stato richiamato da qualcuno, in qualche articolo, dopo Venezia, e da lì ha ripreso piede, probabilmente per la maniera di essere di questo film, che pone delle questioni.

Se c’è qualcosa che riesce a non vedere il cinema? Da questo punto di vista quando ieri sera parlavo del cinema che ci guarda citavo enrico, perché non sono mai stato una persona che si è avventurata – se non per una breve fase che ho abbandonato presto, circa quindici anni fa – verso la possibilità di speculare, nel senso di ragionare in termini teorici, su che cosa è il cinema. Quindi ascriverei le possibilità del vedere al soggetto che vede, e in questo caso continuo ad avere come punto di riferimento chi è dotato di occhi, nel nostro caso più specifico gli esseri umani. C’è qualcosa che non si può vedere? C’è una frase nel film alla quale sono molto legato, venuta assolutamente per caso e per gioco durante le registrazioni delle voci e però un indizio precisissimo del mio lavorare con enrico, quando canticchio: “ooo… guardate che vi sento… e per quanto non vi veda”. Secondo me la concezione del sentire ha molto a che fare col vedere. Quindi le possibilità di vedere sono parecchio al di là del soggetto che riusciamo a mettere a fuoco, per riprendere il discorso di Straub o meno. Il sentire è un’altra maniera di avere presenti delle cose e costruirci, volendo, anche delle immagini. Potenzialmente le creature cieche di cui parla José Val del Omar potrebbero essere quelle che non vogliono vedere.

La piscina-letto per la redazione, Casa Morra Napoli. Foto di Luca Anzani.

PGA: Aura, in questo film, in cui si discende come nel maelström del racconto di Poe letto da Servillo, per movimenti centripeti del montaggio e derive centrifughe della biografia, quasi tutto compare, da Samuel Fuller a Ishirō Honda, poi tanto girato della vostra vita familiare, e persino la storia recente di questo paese – penso alle immagini del G8 a Genova, all’inizio. Secondo te c’è qualcosa che l’occhio, il vostro, o la tua voce, la tua recitazione, non potevano comprendere?

AuGh: Penso che in questo film sicuramente, ovviamente, ci sono delle cose che non sono mostrate però ci sono sotto. Si tratta comunque di una scelta, quella di mettere certe cose e non altre, di riprendere certe cose e non altre. Anche se non è una costruzione, non è una sintesi, come ha detto Alessandro in altre occasioni, quello che si è sedimentato viene in ogni caso da scelte più o meno consapevoli di cosa vuoi lasciare, dietro di te – credo – di costruito.

AlGa: Su questo vorrei aggiungere, perché mi è venuto in mente ora, che ci fu un momento di crisi quando enrico iniziò a tirare fuori le liste. Era un periodo molto bello, durante la pandemia, in cui ci sentivamo a telefono ed enrico tirava fuori liste di autori e di film, solo che questo mise abbastanza in subbuglio la redazione in quel momento, perché non si riusciva a capire cosa se ne sarebbe dovuto fare di tutti questi film: c’era chi era preoccupato che stessimo facendo un’operazione di storia cinematografica, chi era preoccupato più banalmente – che poi non è una questione banale – per i diritti, eccetera. Ma una delle cose più belle fu un momento collettivo, un pranzo anche duro a tratti, che venne fuori da uno sciopero di montaggio che avevo iniziato per una settimana – ma questa è un’altra storia… La cosa bella che disse enrico in quel momento là fu: “Potremmo anche non metterli questi film eppure la questione non cambia”. Cioè, rispetto a quanto diceva Aura, quello che non si vede è qualcosa che comunque ha agito, e questo credo che in enrico fosse chiaro sin dall’inizio. Per questo c’era sempre la sua spinta a costruire questa libreria, e a condividere, come può fare un buon amico, delle visioni che ti sono piaciute, e che ami, e che quindi vuoi che la persona con la quale hai un contatto, una prossimità, conosca, veda, condivida con te. A questo proposito c’è una frase bellissima di enrico che pressappoco dovrebbe fare così: “Una delle cose più belle con un carissimo amico è sperare di andare al cinema e vedere un film brutto, perché diventa immediatamente un’occasione unica, più che vedere un bel film, se sei con un amico”.

AuGh: Non so dove ma da qualche parte dice “L’amicizia è perdere tempo insieme”.

PGA: La parola sottesa a queste ultime risposte mi sembra essere ‘memoria’. Il film funziona come una grande macchina mnestica, anche se lo stesso ghezzi lo ha definito “la mia personale archeologia melò” e un’“utopia organizzata”. La memoria cinematica agisce quale “inesauribile macchina di catastrofi” – sono sempre parole sue – e funziona appunto come questo film, inseparabile da tanti punti di vista dalla biografia di enrico ghezzi ma immagino anche dalla vostra, certo per ragioni e tratti temporali diversi. Ho riletto negli ultimi giorni qualche articolo e qualche saggio di ghezzi tra cui uno del ’77, Per quanto tempo ancora.. (la durata del cinema e dei film), in cui scrisse: «Il film di “trent’anni” […] ipotetico potrebbe essere “visto” solo a patto di passare e impegnare in ciò trent’anni della propria vita». Affermazione quanto mai profetica, anche perché, se non sbaglio, tra i più antichi found footage di famiglia contenuti negli Ultimi giorni ce n’è uno subito successivo alla nascita di Aura, quindi risalente al 1988, e voi avete cominciato a lavorare al film nel 2019, sostanzialmente trent’anni dopo. Insomma Gli ultimi giorni dell’umanità era, forse sin dall’inizio, pre-visto nell’opera e nella pratica di enrico ghezzi?

AuGh: Secondo me, anche se non so quanto sia chiaro, quello che si vede in questi filmati è che non c’è mai un’idea del tipo “prima o poi li monterò e ci farò qualcosa”, però è chiaro che sta facendo un film, che sta girando un film o dei film, magari dei corti. C’è poi una cosa che non è finita nel montaggio alla fine, quella cosa che il babbo ha girato su un’isola forse, in cui camminava e poi urlava “Ciro, dove sei?”. Lì lui a un certo punto sta parlando da solo e dice “Non so proprio cosa sto facendo”, ed effettivamente ti dà l’idea che tutte queste cose che lui ha filmato hanno un filo, una ricerca sua. Quindi sì, in qualche modo sta girando un film che non monterà: cioè non so neanche se sia questo film, forse no.

AlGa: Chi lo sa. Però il discorso della pre-visione da quel punto di vista ha a che fare con l’atto potenziale della determinazione di premere REC all’interno di un apparecchio che inizia a catturare delle immagini. Il che è anche una cosa che ha molto a che fare con le potenzialità intrinseche degli archivi che non esistono. Tendenzialmente, in questo momento tu hai premuto un REC (l’intervista è stata registrata al tavolo di un bar, ndr) e stai costituendo un tuo archivio delle esperienze che ti riguardano nella vita. In questo caso è più strumentale ma non è quello il punto. A questo proposito un’amica carissima, Alessandra Cenelli, ha scritto una frase che non ricordo mai bene ma che più o meno suona così: “Sono gli sguardi amorosi che alla fine liberano le cose dalla natura del tempo insolente”. Anzi, la cerco, è questa: «Gli sguardi amorosi aprono gli occhi dei dormienti chiusi dal passato insolente». Quindi è molto difficile prevedere cosa saranno le cose soprattutto in un determinato arco temporale. Chiaro è che la determinazione di una azione rispetto a un’altra mette in essere del potenziale. Questo potenziale poi si può esprimere in base agli incontri che fai, a mio parere. Nel testo che citi questo discorso del film potenziale di trent’anni è molto interessante ed è interessante su tantissimi altri punti di vista, ad esempio quando enrico scrive che il cinema fondamentalmente è una sorta di gabbia in cui devi essere impegnato culo, piedi e schiena a una sedia per fare in modo che esista quel tempo in cui gli attori sono catturati nella celluloide all’infinito e destinati a questa cosa qua: essere riprodotti nel loro stato di grazia. Se fosse stato pre-visto non avremmo scoperto molto. Ognuno di noi pre-vede di fare innumerevoli cose, il bello è che quando si realizzano sono altro.

Alessandro Gagliardo e Aura Ghezzi durante le riprese del film. Foto di Olimpia Pierucci.

PGA: Alessandro, tu hai insistito molto, ieri sera e in altre occasioni, su questa dimensione della scoperta, quindi appunto di qualcosa che non poteva essere pianificato e inevitabilmente neanche previsto, senza trattino. Sotto questo aspetto mi sembra che il film assomigli anche nel suo stile di montaggio alla scrittura di ghezzi e anche alla sua voce fuori sincro che tante volte abbiamo ascoltato su Fuoriorario, su ZaumSchegge, sullo stesso Blob, tanto che alla fine mi ha molto colpito l’espressione con cui finiscono i cartelli dei titoli di coda: “dai sussulti di”. È veramente un film fatto per sussulti, anche a livello formale. Magari guardando un film di montaggio non ci si sofferma sulla costruzione delle inquadrature, sul cadrage in sé, però in realtà mi sembra che i sussulti consistano proprio in questo andare in avanti del filmato, che poi il montaggio scancella per ritornarci sopra, come avviene nella scrittura di enrico. Procede così secondo te?

AlGa: «Dai sussulti di malastradafilm» dicono i titoli di coda, ma ci torniamo. Secondo me c’è un’immagine che testimonia questa dimensione del sussulto. Ovvero dopo la lunga fase del satellite che sta in orbita, interrotta da due elementi. Da una parte c’è una voce “Sempre, si naufraga sempre, dice una voce ragionevole”, e un istante dopo c’è lo sguardo di una bambina che strabuzza gli occhi, che apre gli occhi, come per una sorpresa. Dura venti, trenta, quaranta fotogrammi. Sicuramente quel gesto lì degli occhi, del vedere, è stato una dinamica del montaggio e quindi la scoperta grosso modo ha funzionato così: vedere delle cose che si formano mentre tu le cerchi, perché nel film c’è molto dell’impastare, molto del cercare, molto del mettere assieme e vedere come va. I sussulti sono stati dei momenti in cui la scoperta era una cosa viva, perché non è mai stata una cosa teorizzata, semmai è stata sottoposta ad auto-confutazione una volta arrivati a un certo punto. A Napoli, durante un’intervista ci chiesero “Qual è il fil rouge del film?”. Restammo in silenzio per tre giorni, poi dissi a enrico “Secondo me il fil rouge è la scoperta” e lui, con lo stesso gesto degli occhi – me lo ricordo benissimo – disse “La scoperta”, e siamo rimasti lì. Però la cosa interessante era che questi sussulti dovevano essere anche l’occasione di restituzione a chi guarda, e quindi se vuoi la pratica, il tentativo di definizione del film, ha sempre tenuto conto della possibilità che scoprire come atto fosse anche scoprire come restituzione. Cioè il tentativo di fare in modo che coincidessero queste due forme di scoperta, tra chi lo sta realizzando e tra chi lo sta guardando. E per fare questo devi togliere una serie di impalcature che indicano, a partire dalle voci di Dio, le voci narranti, le voci moralizzanti, le voci indicative che ti dicono “Guarda che è così”, eccetera eccetera.

PGA: Vorrei farvi ora qualche domanda sui vostri tragitti individuali, che poi ovviamente hanno incrociato per quattro anni almeno quello del film. Le uniche scene che non fanno parte dell’anarchivio di ghezzi sono quelle in cui Aura recita Kafka. Aura, ci sono due nomi che mi hanno molto incuriosito tra quelli in cui mi sono imbattuto approfondendo il tuo percorso di attrice. Il primo è quello di Ruggero Savinio, di cui da ragazza hai frequentato lo studio. L’altro è quello di Luciano Emmer, che tu stessa identifichi come il tuo maestro. Siamo ai Giardini dell’Arena, a pochi passi più che metri dalla Cappella degli Scrovegni, protagonista del Racconto da un affresco, il documentario di Luciano Emmer ed Enrico Gras del 1940 che compare nei primi minuti del vostro film, quando si vedono le riprese degli angeli di Giotto. Magari dopo potete spiegare come mai c’è Emmer in quel punto, ma innanzitutto volevo chiedere a te, dato che esiste pure un documentario di tuo padre su Emmer che porta il tuo nome (Con aura senz’aura, 2004), come la tua traiettoria che comincia con la pittura si è trasformata fino a entrare in contatto con Gli ultimi giorni dell’umanità.

enrico ghezzi e Aura Ghezzi durante la riprese del film. Foto di Hélène Bertino.

AuGh: Quando ho scoperto che c’era Emmer lì, all’inizio del film, mi sono commossa, perché quella cosa è meravigliosa. Diciamo che considero Ruggero Savinio il mio maestro insieme a Luciano perché effettivamente ho frequentato entrambi nello stesso periodo, in particolare lo studio di Ruggero quando avevo diciotto o diciannove anni, appena finito il liceo. La pittura è stata la prima forma di arte che ho incontrato. Da Ruggero ho imparato delle tecniche e anche un modo di guardare, di stare il tempo che ci vuole a dipingere, che poi forse è anche una cosa che in parte mi ha allontanato per tanto tempo dalla pittura, perché ci vuole veramente tanto tempo. Ho fatto anche un piccolo film su Ruggero per una sua mostra di dieci anni fa. In realtà io con lui ho ragionato molto intorno al nascere della figura: da dove emerge, il magma. Insomma, abbiamo parlato tanto, gli ho fatto anche un po’ di interviste. Parallelamente ho seguito Emmer, cioè lui da piccola mi amava non so bene perché, era il babbo che mi portava con lui quando andava a trovarlo. Poi il primo anno di università ho fatto un cortometraggio di gruppo – in questo gruppo poi c’è anche la persona con cui io ora ho una compagnia di teatro – e lui l’ha visto. Avevamo fatto questo corto contro la scuola, allora eravamo arrabbiati, e in mezzo c’era una scena di Terza liceo – perché io ero sempre stata fissata con certi film di Emmer – in cui uno studente dice “Ma professore, cercavo di interpretare…” – “Si attenga al testo!” gli dice il professore. Noi l’avevamo messa lì e lui mi ha detto che mi aveva sempre visto come attrice anche se io non avevo mai espresso il desiderio di fare l’attrice. Lui mi ha proposto di accompagnarlo sul set successivo, quindi io gli ho fatto da assistente in Viaggio intorno alla mia stanza, che è stato uno dei suoi ultimi film, e lì credo di aver imparato proprio tanto, praticamente. Poi una cosa che mi ha detto in quel periodo lì, “Ogni cosa di quello che fai deve avere un senso”, mi ha segnato rispetto al mio lavoro con le immagini. A un certo punto ho avuto una folgorazione, studiando un po’ per fare regia ma facendo dei piccoli corsi, sul fatto che in realtà mi piaceva stare in scena, cioè lavorare col mio corpo. Però è comunque un lavoro sull’immagine, sul trasformarsi, solo che lo fai con meno testa. Ho capito che avevo bisogno del mio corpo in quello che facevo, non solo di stare fuori e vedere.

AlGa: È molto bello quello che racconta Aura su Emmer perché in archivio, tra le cassette, c’è un momento tra tanti altri, ma più accennato, in cui Emmer fa un provino ad Aura per cantare una canzone e questa cosa lui la dice e la ridice: “Tu non hai idea, tu non hai idea, di come è bello averti davanti a una macchina da presa”. Ed è vero che in quel momento sembri un po’ ignara, si vede che alla recitazione non ci avevi ancora pensato, dopotutto, se non ricordo troppo male, avrai avuto dieci anni. Io non ho conosciuto Luciano Emmer, ho conosciuto i suoi film attraverso questa esperienza, quindi è una persona di cui ho ascoltato molto attraverso le registrazioni che ha fatto enrico – e la loro amicizia, che si vede in questi nastri, era importante. Rispetto alla presenza di Giotto, di quel brano che apre il film, io l’ho sempre vista come una benedizione al film, quella sequenza lì, a livello iniziale: un mazzo di fiori, degli angeli, qualcuno (che poi è Carmelo Bene, ndr) che si affaccia davanti a un orizzonte molto vasto. Tutto questo l’ho sempre visto davvero come una benedizione. 

PGA: Veniamo a te, Alessandro. Tra i sussulti attribuiti nei titoli di coda ci sono quelli a Malastradafilm, che tu hai fondato e animi tuttora, e che ha distribuito tante cose che in Italia non sarebbero arrivate. Di tuo sono riuscito a vedere solo Un mito antropologico televisivo. Come ti ha cambiato, rispetto al tuo lavoro precedente, l’esperienza con Gli ultimi giorni dell’umanità? Perché immagino che fino al 2019 ti occupassi soprattutto di Malastradafilm nella campagna siciliana, e poi sei passato a lavorare con enrico tra Roma e la Fondazione Morra a Napoli.

AlGa: Prima di arrivare a Roma per il film credo fossero già tre anni pieni che giravo senza sosta tra realtà e persone, fuori dalla Sicilia, con tappe in Europa, inseguendo archivi e menti brillanti. Un nomadismo che ha avuto anche il film muovendosi oltre che tra Roma e Napoli anche a Pieve Vergonte in Piemonte, per esempio o in Toscana a Cupi. Credo fosse il 2005 l’anno in cui abbiamo dato vita a Malastradafilm, che poi ha cambiato molto la compagine, avendo avuto sempre un programma abbastanza chiaro: esistere nei momenti in cui si sono create le condizioni di un bel vivere assieme, perché un bel vivere assieme è la sede della creazione di un coraggio e di tanto in tanto di qualche film. L’amicizia non finalizzata, non scopizzata, non animata da ambizione e priva anche della necessità di collocarsi in questo o in quell’altro settore, a partire da quello del cinema, e quindi l’amicizia che riesce a vedere oltre, che ti confuta con dolcezza, è sempre stato un punto su cui abbiamo costruito capacità di battaglia, capacità di dire e slancio. Sul passaggio da Malastrada agli Ultimi giorni: c’è scritto “dai sussulti” perché con Malastradafilm, e quindi con Maria Héléne Bertino e Dario Castelli, abbiamo fatto un lunghissimo percorso da Un mito antropologico televisivo, che poi ci ha portato anche a incontrare enrico in un momento in cui noi stavamo lavorando sulla scrittura audiovisiva come pratica e sul palinsesto come forma. Naturalmente l’Italia con Fuoriorario, con Blob, con la direzione di enrico del palinsesto di Rai Tre, con La magnifica ossessione, ha un punto di riferimento che andava in quella direzione. Quindi ci siamo incontrati perché ci avevano proposto di comprare Un mito antropologico televisivo per Fuoriorario, e la nostra risposta bella convinta fu “No, non ve lo diamo, perché noi stiamo lavorando sul palinsesto, vorremmo sperimentare sul palinsesto, e quindi vorremmo montare almeno due notti da quattro ore per intero, sino allo sfumare al programma dopo per relazionarci con questa forma del taglio televisivo”. Vedevamo questo strappo alla narrazione televisiva come urgente ed enrico ci propose di fare tre notti. Poi quelle cose non si riuscirono mai a realizzare, ma questo aveva messo in essere un contatto, un incontro. Quindi i cambiamenti non sono facili da descrivere perché riguardano la crescita umana e anche quella lavorativa, o del gioco-lavoro come dice enrico, che in un periodo di cinque anni avviene e può avvenire, ed è una trasformazione che sta nell’arricchire una provenienza che si incontra con un’altra ricchissima provenienza, e che però non ha la necessità di definire i bordi. Immagina che ci sono queste due provenienze, noi ed enrico, che si incontrano in un punto, e nessuno rivendica gerarchicamente una posizione. Questa è stata secondo me l’occasione più grande che ha a che fare probabilmente con un pensiero anarchico dello stare assieme, in cui tutta la potenza di questa evenienza si scontra e verifica sulla capacità di stare all’altezza di una situazione. Lavorare su questo, e riuscire a tenere questa tensione, e fare in modo che a distanza di tutto questo tempo si siano create delle relazioni che oggi sono parte di un’affettività ricca; e che tutto questo sia avvenuto anche attraverso la scommessa di una relazione collettiva, con un ampliamento, con la volontà di non rinchiudere l’esperienza in un piccolissimo contesto autoriale, ma cercare di farlo evolvere in una maniera in cui si avvicendassero bellezze comuni, problematiche comuni; mettere il film in una condizione in cui potesse significare arricchimento del vissuto per più persone, occasione che il cinema può dare e senza la quale il mio interesse praticamente forse non c’è.

enrico ghezzi nello Studio Uno della redazione Casa Morra Napoli. Foto di Luca Anzani.

PGA: Durante la lavorazione del film è uscito il volume di scritti sulla televisione di ghezzi curato da Aura che s’intitola come la prima frase che viene pronunciata nel film, L’acquario di quello che manca. Poi sono usciti, tra il 2020 e il 2021, prima un singolo di Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, che s’intitola Novembre e sul finale accompagna alcuni primi piani di Aura, quindi il suo terzo disco, IRA. Le musiche del film sono di Incani e somigliano inevitabilmente a molto di quello che si sente in IRA. Come, quando e perché siete arrivati a coinvolgere Iosonouncane? E che ne pensate delle musiche?

AlGa: Il coinvolgimento di Jacopo è un’idea di Gabriele Monaco, che ha prodotto e sognato il film, e di Silvia Cafora. Un giorno eravamo a Napoli, Gabriele si avvicina e mi dice “Secondo me dovremmo coinvolgere Iosonouncane”. Era un periodo difficile del montaggio, io non avevo tempo di pensarci. In quel momento non conoscevo Iosonouncane, poi ho scoperto di averlo ascoltato ma non lo seguivo come artista. Ho detto a Gabriele “Se tu vedi questa cosa falla, vuol dire che ha un senso”. In quei giorni Gabriele e Silvia scrivono a Jacopo e al suo manager Gianluca Giusti e loro rispondono subito che la cosa li interessava – riparlandone tempo dopo mi dissero che in un modo o nell’altro percepivano l’importanza di quello che stava avvenendo. Dopo quella prima adesione la cosa restò lì. Gabriele mi chiedeva “Che facciamo con Jacopo?” e io gli rispondevo “Non ho testa”. Un giorno a casa di Dario Castelli, alle cinque del mattino, una di quelle cinque del mattino strazianti, in cui rimetti in discussione un po’ di cose e cerchi di capire come proiettarne o riproiettarne delle altre, incappo nel pezzo Il corpo del reato, piango per un po’: mi ricordava tantissimo questa dimensione della provincia in cui sono cresciuto e in cui c’è sempre il rischio di perdere tutto da un momento all’altro, eppure c’è quella forza/bellezza/orrore che ti spinge per la strada che diventa il primo altrove. Il mio primo incontro con Jacopo avviene a Roma il 17 maggio 2021, se non ricordo male, comunque nei giorni dell’uscita di IRA, e questo gesto per me fu significativo, non è da tutti. Furono tre giorni di residenza importanti, un incontro che è stato foriero di molte altre cose che abbiamo iniziato a fare assieme. Ascoltai IRA in quei giorni e lo trovo un lavoro enorme, sul quale stiamo ragionando di fare qualcosa. È un lavoro che, quando lo ascolto, mi fa vedere tantissimi cavalli che corrono, bisonti, la terra tremare, maree di ombre, fumi, fiumi, corpi partire in danze nude e tutto ciò mi dà un’idea di trasporto potente. C’è poi una dimensione poetica della scrittura di quell’album che, se possibile, è ancora più importante della musica. Quando ci siamo incontrati con Jacopo, abbiamo parlato anche di cosa significhi il lavoro collettivo, con tante persone e per un lungo periodo: significa tenere insieme tutte le dimensioni, quelle emotive, quelle psicologiche. È una bella forma di regia e anche sfiancante. Da lì in poi nasce in maniera rapida, a settembre o ottobre dello stesso anno, Sacramento, un film muto, musicato dal vivo, che proiettammo nei cinema di tre città italiane, Torino, Taranto e Bologna soltanto alle cinque e diciassette del mattino. Poi abbiamo fatto assieme il tour europeo di IRA, in cui ho elaborato un’ora e mezza di montaggio che riproducevo tappa dopo tappa dal vivo. Lo considero un incontro importante, credo sia anche la prima volta che collaboro con un artista del mio stesso anno di nascita e questo ha avuto in qualche modo un suo peso, non so quale. Forse aver visto la stessa televisione?

PGA: L’ultima domanda è soprattutto per Aura. Io – e non credo solo io – non ho potuto che pensare, vedendo Gli ultimi giorni dell’umanità, a Sans soleil di Chris Marker, film sull’‘immemorialità’, parola tra l’altro carmelobeniana, tanto quanto lo è il vostro film. Sans soleil comincia con una breve scena, pochi fotogrammi, di tre bambini su una strada in Islanda nel ’65, quindi su sfondo nero si sente la voce narrante dire che per il protagonista quella era l’immagine della felicità. Sappiamo poi per altro che quel villaggio islandese sarà distrutto da una colata lavica: ulteriore sovrapposizione, dato che all’inizio de Gli ultimi giorni dell’umanità ci sono i vulcani in eruzione. Aura, c’è qualcosa, qualche immagine di questo film, che per te può essere definita così?

AuGhImmagine della felicità? Sicuramente, solo che… sceglierne una… forse più di una… Ci penso.

AlGa: Per me ce n’è una molto bella che è lo sguardo che fa Danièle Huillet quando un ragazzo le chiede come si sono innamorati lei e Straub. Non so se di felicità, ma è una di quelle immagini che innesca immediatamente il fatto che qualcuno sta pensando a qualcosa che lo coglie felicemente di sorpresa a ritrovarsi in uno specifico punto. Un’altra immagine molto forte è la scena del film di Peckinpah in cui Pat Garrett e Billy the Kid si incontrano, e Billy gli dice “Sei in brutta compagnia”, Pat risponde “Ma io sono ancora vivo”, e Billy fa “Beh, anche io”.

AuGh: Quello sì, sono d’accordo.

AlGaUn’immagine di amicizia viva, in cui esiste anche una conflittualità molto accesa. E poi – per tornare all’anarchivio – una cosa che mi viene al volo, sicuramente molto bella, è quella carezza finale di enrico, che poggia questa camera su un materasso gonfiabile, per riprendere un gesto, una carezza a Nennella.

AuGh (qualche giorno dopo, via mail): Sulla questione della felicità non saprei, forse è felicità quella di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub che si amano – lui di sicuro, lei forse da sempre – e sono alleati e si spalleggiano e del film che segue – come diceva Alessandro – in cui ci si ritrova vivi ancora una volta insieme; forse potremmo dire che potrebbe esistere solo nel caso fossimo il pellerossa (di un racconto di Kafka, ndr); forse c’è della felicità alla fine, nell’ultimo dei miei primi piani con lo sguardo fisso in macchina. È una domanda difficile a cui rispondere perché per me è un film molto malinconico.

Post scriptum di AlGa: Mi fai venire in mente che il tuo sguardo in camera – specie quando diventa doppio in chiusura – questa tua autodeterminazione che ti porta da “chi è guardata” a essere “chi guarda”, e che fa esplodere in visione tutto quello che abbiamo cercato, senza dircelo, per quattro anni, è sicuramente tra le più felici del film e anche quella, forse, che ha permesso che ci fosse la possibilità di un dispensarsi: quello che altri chiamano un finale e che per noi è una pausa, una dichiarazione di mutamento.


NDR: le minuscole nei nomi propri di enrico ghezzi e, dove indicato, di Alessandro Gagliardo sono intenzionali.