Nel duettino tra Anne e suo padre Trulove che precede il finale dell’atto terzo del Rake’s Progress, la fanciulla, trascinata via dal genitore, è costretta ad abbandonare in manicomio l’amato Tom Rakewell, che, vincendo la partita a carte con Nick Shadow (cioè il Diavolo) ha avuto salva l’anima ma ha perso il senno, e credendo d’essere Adone, ha scambiato lei per Venere. Al termine della terza scena Anne, subito dopo aver detto addio a Tom, canta: «Every wearied body must/ Late or soon return to dust,/ Set the frantic spirit free./ In this earthly city we/ Shall not meet again, love, yet/ Never think that I forget».

Adesso, ahinoi, non ci si potrà più incontrare in questa città terrena con Alberto Arbasino, come tanto avevamo desiderato, anche solo per ammirare le occhiaie di chi ha dormito così poco. Non c’è motivo per non dirselo con queste parole, pur senza il canto di Elizabeth Schwarzkopf, il soprano che diede la voce ad Anne Trulove per la prima mondiale della favola lirica di Stravinskij su libretto di Auden e Kallman alla Fenice di Venezia, l’11 settembre 1951 (Arbasino ventunenne – credo – c’era, se nei Fratelli d’Italia se la ricorda «sublime […] con una pellegrina grigia straziante»).

Impilando, man mano che li si legge, i suoi racconti romanzi saggi pamphlet lettere, si scopre che Arbasino, apparentemente, c’era sempre: alle prime operistiche, col dito infilato tra i libri importanti del decennio ben prima che venissero tradotti, alle mostre di là del mare, dietro e davanti ai palchi più notturni, lungo le autostrade italiane e sulle piste americane, indocinesi, peloponnesiache, argentine. Ora invece, rinunciando a malincuore agli avverbi e agli elenchi che, si sa, tanto cari furono al Nostro, bisogna scrivere solamente: Arbasino c’era. E veramente per chi l’ha adorato – nel senso in cui «adorabile» era Stendhal per il saviniano Sciascia, cioè d’una predilezione allegra e sintonica, mozartiana – c’è stato ininterrottamente, per i (quasi) novant’anni che trascorrono dalle Piccole vacanze ai Ritratti e immagini, da Einaudi e Feltrinelli ad Adelphi, con l’irripetibile passione mobile del picaro erudito, del principe incostante, facendolo pesare, mai, da buon illuminista. Con Arbasino, anzi in mezzo ad Arbasino, poi, ci si avverte addosso il sentimento vertiginoso dell’avventura e – anche se in verità il fosforo è un elemento chimico, e quindi non ne ha – l’odore di una scrittura fosforosa: si vuol dire, insomma, d’una memoria interamente travasata in una lingua che tiene dentro ogni oggetto circostante, simile a un gioco che abbia adottato tutte le regole possibili, e in uno stile inarrestabile e smagliante.

S’è arrestata però, con la morte, quella conversazione che Arbasino aveva voluta ininterrotta – e a parecchi strati, tal quale la proverbiale millefoglie romanzesca – scrivendo e riscrivendo («provando e riprovando», cit.) il magnum opus dei Fratelli, per trent’anni. Nella terza e ultima stesura i Fratelli si ripresentarono alle italiche genti del ’93 come un romanzo anomalo, nel quale capitano, ai protagonisti e agli innumeri comprimari, non poche faccende liete oppure oscene, a volte addirittura luttuose, ma che costantemente paiono compresse nello spazio di pochi paragrafi, assediati da pagine di fittissimi dialoghi tra il narratore, soprannominato l’Elefante, i suoi amici Antonio, Klaus, Desideria, Jean-Claude, Raimondo e pochi altri.

Évidemment, la “trama colloquiale” dei Fratelli assicura coerenza narrativa e, allo stesso tempo, è sostenuta dall’inimitabile pirotecnia espressiva che rende riconoscibile ogni giro di frase di Arbasino. Si trattava e si tratta, in effetti, d’un libro quasi tutto “parlato”, nel quale la conversazione colta, lasciata per trent’anni (la prima redazione risale al 1963) a imbeversi in fonti letterarie, operistiche, storico-antropologiche, persino scandalistiche, ha finito per espandersi, enfiata e turgida, oltre i confini stessi del romanzo-saggio o della cronaca atipica di un viaggio di formazione erotico-intellettuale. Riscrivendo ancora (lo aveva già fatto in vista della seconda edizione datata 1976, e lo ha fatto pure con diversi altri libri suoi) la «gran commedia di nostri anni Sessanta» Arbasino ha sostituito alla narrazione verosimile degli eventi la smisurata versione tardo-novecentesca di un rito tutto italiano, prima cortigiano poi tipicamente mondano, nel quale Bembo, Castiglione e Della Casa incontrano Proust e il melodramma – in fondo anche in Puccini e Bizet non si fa che parlare.

Nel corso di queste disquisizioni apparentemente interminabili, che si discuta di teoria del romanzo, di musica atonale, di educazione cattolica, dei primitivi del Quattrocento o dell’albero genealogico di qualche principessa, la memorabilità ritmica della prosa poggia s’un tratto mimetico che coinvolge sintassi, resa fonetica e distribuzione della punteggiatura: l’interruzione perenne, la quale implica poi la sovrapposizione di voci che gradualmente si fanno indistinguibili. In lunghi capitoli di verbalità ipertrofica Arbasino sfodera un campionario quasi estenuante di periodi mozzati, fini riflessioni puntualmente arrestate prima del loro apice argomentativo, calembour innestati gli uni sugli altri, definizioni e paraetimologie lasciate in sospeso.

Questo esercizio di equilibrismo musicalissimo tra micro e macrostruttura esiste e freme tanto nei Fratelli quanto negli altri libri: in Super-Eliogabalo, ne In questo Stato, in Marescialle e libertini, eccetera. A riaprirli in ordine sparso, la densità ecolalica della pagina d’Arbasino ora ci appare il risultato della ricomposizione in sede romanzesca o saggistica e innanzitutto mentale di un discorso captato lungo decenni, quindi sminuzzato in frammenti (quanto è prossimo Flaiano!) e infine rimuginato freneticamente puntellandone il tono sugli arresti, gli intervalli tipografici e le riprese (o le false partenze), insomma sulle crepe della conversazione. Da queste fessure (nel Finale dei Fratelli diventano spacchi, stacchi) del groviglio enciclopedico i vuoti creati ad arte nei Fratelli e più in là smatasseranno «i festosi oggetti in movimento [che] per troppo amore finalmente uccidono», e insieme a quelli tutti i luoghi e le facce e le parole e gli aspetti fisici oramai perduti, i grandi libri molto amati: cioè, le cose morte. Per stavolta, anche le persone.

Allora oggi a noi che restiamo tocca dire «Siamo qui», e basta, senza più il resto delle parole («da un’ora all’aeroporto senza colazione…», cfr. l’incipit dei Fratelli) così forsennatamente felici, senza più rose e attrezzi luccicanti e blue jeans né brame o idee, strutture, forme. Senza Alberto Arbasino. Chissà se negli ultimi giorni anche lui, come il narratore della Recherche che, alla metà del Temps retrouvé, durante il ricevimento dalla principessa di Guermantes, dopo l’inciampo nel cortile e dopo il tintinnio del cucchiaino poggiato su un piatto e dopo la salvietta portata alle labbra umide, medita sul proprio passato, chissà se anche Arbasino avrà pensato di dire a se stesso: «Dopotutto ho pur visto delle belle cose nella mia vita».