Chi sta nelle campagne, specie quelle dell’Emilia-Romagna, al diavolo c’è avvezzo. È una conoscenza che viene da lontano, incistata in una cultura anarchica, fondata sulla conoscenza di prima mano del mondo, e sviluppata in parallelo a quella ufficiale e cristiano-centrica del binomio corte-potenti, prima, e dello Stato, dopo. Un certo bifrontismo del reale, che porta i membri della comunità a utilizzare la lente di ingrandimento tanto della scienza quanto della superstizione per comprendere il mondo, alla presenza di un medesimo fenomeno. Ognuno di noi, non importa la provenienza geografica, avrà fatto esperienza di questi due pesi: si tratta, alla fine, di folklore, e della sopravvivenza di riti e credenze pagane alla conversione di massa operata dal cristianesimo (per approfondire il tema sull’area emiliano-romagnola si possono, per esempio, consultare le opere dell’antropologo romagnolo Eraldo Baldini, come Alle radici del folklore romagnolo. Origine e significato delle tradizioni e delle superstizioni o Paura e meraviglia in Romagna: il prodigioso, il soprannaturale, il magico tra cultura dotta e cultura popolare). Solo che, al posto di gnomi e divinità palustri, le forze di disturbo, quelle antipatiche, che ingannano e intralciano il buon corso degli eventi hanno preso la forma del diavolo. Che non si vede, però si sente: per le nonne emiliane, il rumore del tuono è “il diavolo in carrozza”. O che, a volte, si immagina alla stregua di un cugino antipatico, con cui gli screzi di famiglia si risolvono a litigate (e infatti, in Romagna si dice che il diavolo, quelli della Chiesa, “l’hanno dipinto brutto solo per fare paura alla gente”) e da cui si ammonisce, diciamo, parlandone male alle spalle, raccontando storie in cui i suoi inganni fanno pessima figura in confronto alla scaltrezza di chi abita la terra. Come tutte le tradizioni orali, insomma, quella dei diavoli e delle pillole popolari che si portano dietro funge da collante per la comunità di cui detta i costumi e i riti.

L’occasione di racconto è sempre la stessa: il ritrovo di un nucleo sociale attorno al cibo o al riparo, magari, di un fuoco scoppiettante e qualche bicchiere di grappa. Al centro della scena, il contafole o fulesta, menestrello che redarguirà i compagni sui pericoli dei diavoli attraverso storie, morali, monitorie, o dissacranti che siano (perché il diavolo, appunto, si prende soprattutto in giro). Sono le fole (il termine deriva dal latino fabula e ne conserva il significato di “finzione”), da cui il nome di questi narratori. Magari non lo sapete, ma anche voi, ogni giorno, di fole, ne sentite a bizzeffe. Quella cosa che il collega vi dice al bar per lustrarsi le spalle? Una fola. L’amica che spara grosso sul numero di squat che riesce a fare in palestra? Ecco, un bel contafrottole, narratore non affidabile, e che bella fola. How I Met Your Mother? L’esempio supremo della fola, con il protagonista Ted nel ruolo di contafole per i suoi figli. Eppure, nella fola, persiste un substrato di verità, azione indiretta che lega e che certifica un legame tra chi quella verità condivide. Al confine con il mito, un po’ come tutte le storie. Altrimenti non staremmo a confezionare strutture in tre atti per dire solo delle balle, no?

Lo sa bene Pupi Avati, che sulla fola contadina emiliano-romagnola e le sue dinamiche ci ha costruito una filmografia. Perché, come sottolinea il regista in Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati (Ruggero Adamovit & Claudio Bartolini, Bietti, 2019), in principio fu il racconto. Che avveniva in una campagna posseduta dal buio, e che dal buio cavava fuori accoliti infernali per educare allo stare insieme e dispensare qualche regola di vita; diavolo compreso, anzi, principe. Un mondo in cui «con la morte si conviveva in vari modi e forme e il racconto era uno di questi» (ivi, p.43), e da cui Avati trarrà alcune delle figure più iconiche e disturbanti del suo cinema: come il prete donna de La casa delle finestre che ridono, ispirato al ritrovamento dello scheletro di un sacerdote che, si diceva, avesse misure femminili (nell’universo della fola «una vecchietta prete fa molta paura»); o la vecchia con la gamba d’oro de Le strelle nel fosso, ispirata a una leggenda popolare diffusa in tutta l’Emilia-Romagna. Un mondo a finestre aperte, in cui il passaggio dall’uno all’altro stato binario dell’esistenza (vivo-morto) è fluido e sempre possibile. Dall’aldilà, i morti strizzano l’occhio e sghignazzano: “guarda che posso sempre tornare, eh, se mi va”.

La morte, in altre parole, è dentro la vita. Sottoterra, dove il sole non guarda, la storia continua. Per questo gli sconosciuti, nella tradizione romagnola, si vorrebbero salutati ritualmente: “a sì un om ad ste mond o ad cl’êlt?” (“siete una persona di questo o dell’altro mondo?”; ivi p.58). Ecco perché, tra mondi al confine, diavoli e morti, anche la placida, noiosetta pianura padana può ospitare, tra le sue nebbie e i suoi fossi, un po’ di gotico, da somministrare rigorosamente per via orale. D’altronde, ce l’ha fatto ben capire Celati con i Narratori delle pianure che le persone della terra piattissima non sanno tenere la lingua a freno. Soprattutto quando si tratta di storie al limite dell’impossibile.

Non bisogna stupirsi, allora, che tutti i personaggi di Cuori di nebbia di Licia Giaquinto parlino in prima persona dalle infinite terre padane, anzi precisamente dalla zona della Bruciata nella provincia di Modena, sulla Via Emilia, famosa per i posteggi di escort, i frequenti passaggi di mezzi di trasporto pesante, e la nebbia di burro che circonda edifici e presenze. Cuori di nebbia è uscito per TerraRossa Edizioni nel 2022 e fa parte della collana Fondanti, che ripropone opere che “hanno segnato un’epoca o hanno rappresentato un tassello fondamentale nel percorso narrativo di autori di talento” (la prima edizione dell’opera è infatti del 2007 e con i tipi di Dario Flaccovio). Ad alternarsi sulle sue pagine, le voci di Mirella, Natascia, Nicola, Filippo, Francesco, Patrizia e Mirco, vite apparentemente lontanissime le cui sorti culmineranno sulle rive della Bruciata, con ottima prova della bontà dei vociferati sei gradi di separazione per districare le relazioni interpersonali. A intrecciarli, vicende “gotiche”, segrete, indiavolate, che metteranno allo scoperto l’oscuro di nebbia che, come vuole il titolo, ha preso residenza nei cuori stanchi e offuscati dei suoi protagonisti.

Non è forse un caso che, allora, il testo si apra con LA SCENA [in maiuscolo nel testo, ndr.]: un panorama lugubre e padanamente “gotico”, che non sfigurerebbe in alcun film di Avati. «Una distesa di campi piatti e sterili, glassati dalla galaverna, e tagliati dalla ferita grande della strada, con la slabbratura degli argini, e dei tanti graffi dei viottoli». L’ambiente è dunque invernale, stagione di tensione massima per i riti tradizionali di propiziazione del raccolto. Quelli che, mito vuole, Proserpina è costretta a trascorrere nell’Ade, e in cui la tristezza della madre Demetra estrae il lato oscuro della natura. La descrizione dell’inverno padano arriva per bocca di Natascia, di nazionalità russa, prima ragazzina ospitata da una famiglia italiana per l’estate e poi membro del parco escort della Bruciata: «era un’Italia che non mi aspettavo, quella che trovai appena arrivata a Bologna. Fredda, umida, nuvolosa, piovosa. Tetra». E non era certo l’Italia – anzi: la campagna – che si sarebbero aspettati Mirella e Filippo, sposati giovani per inerzia, senza figli né rapporti sessuali all’attivo, che risparmiano per comprare un bel campo da fare ad asparagi (sarà un caso che l’asparago sia, dal mondo antico a oggi, simbolo fallico e “potente”?), e che finiranno trascinati nel conflitto quotidiano che anima i matrimoni marci a cui il racconto del popolino italiano ci ha ben svezzato. Non la terra che si aspettava Francesco, grassofobico ossessionato dall’anoressia come Marco Mariolini, parafiliaco di scheletri, ossa, e aspetti cadaverici il cui caso fece notizia nel 1997: prima, con la pubblicazione della sua autobiografia Il cacciatore di anoressiche (in cui si dichiarava un pericolo per la società), e nel 1998 dopo, quando uccise a coltellate la fidanzata (ispirato al libro e alla vicenda è il film Primo amore di Matteo Garrone, in cui recita, per gli appassionati, anche Vitaliano Trevisan). Francesco sperava nella fuga, in una rinascita. Invece trova la Bruciata, e Patrizia con lei, eroinomane magrissima in una relazione tossica con la morte. E che dire di Nicola, il guardone del posto, che alla Bruciata va a festa tutte le notti, quando si anfratta nei fossi e spia le peripezie delle coppiette… fino a vedere qualcosa a cui avrebbe preferito rimanere cieco. O di Mirco, a cui vengono affidate le parole di chiusura di Cuori di nebbia e che veleggia in un sogno, in fuga da una madre che ha lasciato la famiglia e un padre che, pare, si sia dato la morte nel suo laboratorio di chimico sperimentale. Ognuno di loro è un contafole da manuale. Ognuno di loro restituisce la propria parte di verità quando la visione d’insieme è ostruita dalla nebbia e caratterizza, prima di tutto, non tanto sé quanto il paesaggio che lo ospita. Fatto di porte su altre dimensioni e oscurità indagabili solo attraverso la forza del racconto orale.

La prosa di Giaquinto, in questo senso, è affilata, acusticamente attenta, e restituisce il suono di ogni voce con verità documentaria – come se, durante una corsa sulla Via Emilia, si sentissero i fantasmi di quella terra, ed entrassero nelle ossa, loro e le loro storie. Suggestione, certo, ma anche dichiarazione dell’autrice, che, sempre nella Postfazione, «mi vidi all’improvviso alla guida di una macchina, che da tanto non possedevo più, mentre percorrevo una strada immersa nella nebbia. […] Mi sembrava di trovarmi in un paese in cui uomini e case erano stati annientati dal fuoco [in riferimento al nome della “Bruciata”, ndr], e che ora solo fantasmi vagassero in quei luoghi. […] Quelle visioni non solo non mi abbandonarono, ma cominciarono ad arricchirsi di altri elementi, come di oggetti e attori su una scena teatrale. […] Mi sembrò, dopo aver terminato il romanzo, di aver partecipato a una seduta spiritica».

Grazie a Cuori di nebbia, insomma, il gotico padano annovera una voce in più, anzi, un bel gruppetto di fantasmi maledetti, un po’ vivi e molto morti, e chissà che Pupi non abbia voglia di adattarci qualcosa, un giorno. La cosa più stupefacente, però, dall’emilianità totale e orgogliosa di chi scrive, è che Giaquinto, emiliana, non lo sia mica. Allora vuol dire che le fole di cui ci adorniamo il petto, rivendicando la nostra pazzia diffusa, sono vere. Vuol dire che si sentono anche da fuori. Vuol dire che siamo certificatamente gotici, burloni, e senza speranza.


Cuori di nebbia, Licia Giaquinto, TerraRossa Edizioni, 2022.