Credo si debba istituire una nuova categoria di film, quelli azzardati. Quelli per cui i registi si giocano credibilità e carriera, che mettono a dura prova la pazienza e la comprensione dello spettatore, quelli che anche quando sono brutti, fanno discutere fuori dalla sala. Credo che questi film facciano bene al cinema, ora più che mai, mentre le piattaforme e gli schermi dei telefoni si accaparrano quei pochi secondi di attenzione che il pubblico riserva ormai alle immagini in movimento. In questo affollarsi di remake, spinoff, reboot e spremiture di filoni esausti, Beau ha paura, questa strana presuntuosa creatura cinematografica che ti costringe a una visione di 3 ore, va salutata come una benedizione. A prescindere dal risultato finale. Di recente, tra i film azzardati abbiamo visto il delirante Mother! di Darren Aronofski, altro regista che non teme il ridicolo e l’ignominia perpetua per aver sfidato le certezze dello spettatore. Andando un po’ più indietro non vanno dimenticati autori come Żuławski e il suo Possession e più o meno tutta la filmografia di David Lynch, dove si assiste a un liquefazione dei generi, per un’esperienza cinematografica che non lascia mai lo spettatore indifferente (vedi il terzo capitolo di Twin Peaks). Perché la poltrona nel buio del cinema può essere spaziosa e accogliente, ma deve anche sapere essere scomoda, profonda, soffocante. I registi che sfidano il ridicolo lo fanno mettendo a repentaglio un’intera carriera (chiedete a Kaufman e al suo gigantesco flop al botteghino per il costoso Synecdoche, New York) perché bruciano budget mai visti prima in precedenza, inseguendo una visione, che nel migliore delle ipotesi genererà un cult da cineforum, di certo non il prossimo Top Gun Maverick.

Per Ari Aster è la prova del fuoco, dopo due prove registiche sul genere horror che lo hanno proclamato caposcuola del movimento dell’art- horror, assieme al suo sodale Robert Eggers. Entrambi alla loro terza prova di un lungometraggio ed entrambi decisi a fare uno scarto dalla loro produzione, per addentrarsi in territori nuovi. Eggers, con The Northman, si è cimentato in un colossal vichingo senza convincere del tutto e con scarsi risultati al botteghino, mentre Aster punta tutto sull’indecifrabile storia di Beau e del suo nostos per tornare a casa dalla madre.

Il film si apre con un POV del protagonista alla sua nascita, mentre esce dal condotto uterino della madre. Lo schermo è totalmente buio, squarciato a tratti da lampi di luce, suoni gracchianti e urla disperate che provengono da un esterno sempre più vicino. Fin da subito Ari Aster manipola la nostra percezione: il pubblico disorientato non sa se sta assistendo alla nascita di un bambino o alla scena di uno slasher movie degna di Dario Argento. Alla fine il bambino viene estratto dal ventre materno, ma qualcosa va storto: il neonato scivola, forse batte la testa e si sente la madre inveire contro i medici.

Cambio di scena. Siamo nello studio di uno psicoterapeuta. Beau – intepretato da Joaquin Phoenix – ci viene presentato come un uomo di mezza età trasandato, flaccido ed estremamente fragile. Il quotidiano è per lui un’eterna lotta alla sopravvivenza. Abita in un modesto appartamento in un quartiere a dir poco apocalittico, tra junkies violenti, cadaveri lasciati marcire in mezzo alla strada, psicopatici completamente nudi in cerca di nuove vittime. Il mondo di Beau è una sorta di strano parco a tema in cui l’orrore esegue una coreografia, che scatta meccanica e inesorabile, come in un film di Jacque Tati sotto acido. Beau ha giusto il tempo di raggiungere il portone fatiscente di casa, per lasciarsi alle spalle questo delirante carillon. Ma una volta raggiunto l’appartamento, un incubo più grande è in agguato sul suo telefonino: la mamma sta chiamando. Vuole sapere se è tutto pronto per il viaggio che lo riporterà a casa per l’anniversario della morte del padre. Da questa chiamata parte ufficialmente il viaggio dell’eroe, in un’epica ubriaca dove Omero incontra Kafka che incontra Freud e tutti insieme trascinano Beau e lo spettatore alla ricerca di… Che cosa? L’affrancamento da una figura materna opprimente, la scoperta della sessualità o del proprio posto nel mondo? Questo Ari Aster non lo chiarisce, anzi affolla gli episodi della pellicola di una selva di simboli che più che illuminare, rendono il cammino faticoso e indecifrabile. Il film può essere diviso all’incirca in 3 atti: nel primo il protagonista parte per il suo viaggio affrontando le minacce del quartiere, nel secondo Beau è convalescente (e ostaggio) nella casa di una famiglia solo all’apparenza perfetta, da cui dovrà fuggire (come Odisseo da Calipso o da Circe?) per fare finalmente ritorno dalla madre, nell’ultimo capitolo. I richiami a Lynch, in particolare quello di Velluto Blu e di Strade Perdute, li si ritrova nella rappresentazione di alcuni personaggi caricaturali fino a risultare sgradevoli o ridicoli nelle loro gestualità ossessive. Del resto fu Slavoj Žižek a definire l’universo di Lynch come quello del “ridicolo sublime”, dove i malvagi come Frank in Velluto blu e Eddy in Strade perdute sono “figure esageratamente violente, rappresentazioni di un eccessivo potere vitale”. Eppure in Beau ha paura Aster apprende la lezione del ridicolo sublime solo in parte. Se infatti Lynch riesce a far compenetrare un piano realistico della storia con quello fantasmatico, Aster appesantisce la storia con elementi da allegoria medievali e lunghissimi dialoghi in cui si tenta troppo seriamente di ricomporre i frammenti. Per non parlare di un interludio boschivo degno di un film psichedelico anni 70 di cui forse avremmo fatto a meno. Insomma, Ari Aster si adopera e lotta con una materia complessa e ne possiamo vedere tutta la febbrile ambizione e – ahimé – i fallimenti. Alla fine forse non è un capolavoro, e A24 difficilmente accetterà una sua futura stramberia. Ma di coraggio ne ha da vendere e ci ha regalato delle belle discussioni fuori dalla sala.