«It was just witches». 2013, e il premio Oscar Alfonso Cuarón sfoglia lo script di The Witch (Robert Eggers, 2016), allora allo stadio di sviluppo, destinato a lanciare il talento di Anja Taylor-Joy e a catapultare il suo regista sul palcoscenico dei più promettenti fuoriclasse in circolazione. Non è un b movie, come farebbe intendere il titolo, non è genere. Perché, continuerà Cuarón, nella testa di Robert Eggers, che The Witch firma e dirige in un esordio acclamato, ambizioso, non sopravvive soluzione di continuità tra reale e fantastico; Storia e mito; leggende del New England, dove Eggers cresce e si forma, e l’oltrebosco fuori da quello stato americano dove l’educazione è puritana e i coloni mietono raccolti di paura e superstizione. E pensare che The Witch non aveva performato bene nei test di pubblico. La produzione avrebbe graditamene desiderato qualche aggiustamento di rotta. Esattamente com’è successo per The Northman (2022), terzo lavoro del regista.

Ma Eggers, trentottenne, non si è mai presentato come uno da compromessi. Anche per questo, The Northman è stato definito come «il più accurato, realistico film sui Vichinghi mai realizzato». Norvegia, 895 DC. Il re-corvo Aurvandill (Ethan Hawke) si è lasciato alle spalle una guerra vittoriosa, e rientra nelle terre a lui sottomesse. Ad attenderlo, la regina Gudrún (Nicole Kidman) e il figlio, Amleth (Alexander Skarsgård), erede al trono. I festeggiamenti infiammano la notte, che si conclude con l’iniziazione di Amleth al mondo dei guerrieri e degli adulti, celebrata dal jester di corte Heimir (Willem Dafoe). Ma c’è una congiura nella capanna del re, e sarà proprio il di questi fratello, Fjölnir (Claes Bang), a organizzare un’imboscata ad Aurvandill, sferrando sul capo del fratello il colpo finale. Amleth, sfuggito all’agguato, rema fino alle terre di Rus, sul continente europeo. Là viene cresciuto come feroce berserkr, combattente votato ai suoi istinti più animaleschi. Saranno gli incontri con Olga (Anja Taylor-Joy), schiava di origine slava, e con una misteriosa Veggente (Björk), che rivela ad Amleth il futuro, a risvegliare nella mente dell’eroe il giuramento fatto al padre tra i fumi dell’iniziazione, ancora bambino: non importa il prezzo, ne avrebbe vendicato la morte per mano di uomo. Non siamo nell’Inghilterra della regina Elisabetta I, non siamo al Globe, ammassati in platea tra gli spettatori paganti economico per l’ultima, chiacchieratissima opera di William Shakespeare. Siamo in Islanda, dove lo zio di Amleth si è rifugiato dopo essere stato cacciato dalla Norvegia. Lì, l’erede al trono compirà il destino di sangue e vendetta pronosticatogli dalla Veggente.

Ma per parlare di Islanda serve un co-autore islandese, ed Eggers, alla sceneggiatura, sceglie Sjón, poeta e scrittore, insieme a cui pesca nel denso magma delle saghe del Nord. Ne estraggono pellicce sontuose per i capitribù, invocazioni a Odino e agli dèi pagani dell’Aurora, valchirie che squarciano il cielo, edifici assemblati ad hoc, semi di giusquiamo nero, allucinogeni, per entrare in contatto con gli dèi, e un singolo paio di stivali, continuamente da riparare, per Amleth/Skarsgård. Tra The Northman e l’Amleto di Shakespeare, insomma, passa ben più che qualche lancio di pietra. Tra le saghe islandesi e le leggende norvegesi, passano le trascrizioni cristiane e il gusto combinatorio tutto rinascimentale che impose il teatro elisabettiano sulle sue stesse fonti, giustapponendo epoche e culture, creandone una nuova. Dove il Bardo sguaina spadini, Eggers sfodera spade. Dove Amleto strizza l’occhio a Edipo e alla tradizione greca – teatro della parola, dell’interiorità –, Amleth vive sullo schermo e unisce verdi, lunghissimi campi di cinepresa a uno sfoggio muscolare del corpo, snello storto agile ferino che sia. La vendetta, in Islanda, si consuma per benvenuto volere del Fato, in una dinamica, anche qui, già nota al pubblico e, ancora, attraverso il Bardo. Questa volta però si tratta del Macbeth, e delle profezie con cui le streghe incontrate dal protagonista preconizzano ascesa e caduta del sovrano, lasciato solo apparentemente libero di contrastare l’elemento irrazionale che le fatali sorelle immettono nella vicenda attraverso letture di futuro. Ma Amleth agisce in un’epoca che il sovrannaturale accoglie e accetta. Seguire le parole della Veggente, attendere i segnali, è semplicemente la via più veloce per il Valhalla (e per una conclusione incisiva, senza possibilità di replica).

Begone veleni, coppe, teatranti. Eggers, e i suoi sound designer, vogliono un pubblico ben presente. Lo vogliono lì, incollato allo schermo, davanti a una storia che si conosce, che seduce per il “come” non per il “cosa”, che annuncia il proprio epilogo anzi, che lo predice; una storia scontata, eppure di cui, fisicamente, non si ha mai abbastanza. Per la fotografia di Jarin Blaschke, che tutto di uno strato di fuliggine sparge. Per la rinuncia a ogni virtuosismo registico, per l’alternanza di primissimi piani e campate, tutto al servizio della narrazione. All’ultimo fotogramma la catarsi è potente, si snoda dal cuore. Il Destino si è compiuto, l’uomo: annientato, perché nuova vita possa fertilizzarsi dalle sue ceneri e il pubblico lasciare la sala, mediamente stordito.

Proprio com’era stato per The Witch – che pesca a piene mani dai racconti di streghe del New England – e The Lighthouse – espliciti i riferimenti alla Rime of the Ancient Mariner del poeta S.T. Coleridge e agli scongiuri cristiano-marinareschi, che appioppano maledizioni agli uccisori di albatros, figura cristologica – dell’originalità tematica, a Eggers, sembra non importare più di tanto. Quello che rimane è sogno, visione, spirito artigiano del cinema delle origini, attori che programmaticamente sono invitati a non calarsi nel personaggio, esplodendo piuttosto sullo schermo, bombe a mano. A tratti, riverbera di sessione sciamanica in Atmos. Un risultato che, per The Northman, non poteva derivare da mezze misure.

Per durata, dettagli, cast – megalitico se paragonato al minimalismo del precedente The Lighthouse – e durata di produzione – dilazionata causa blocco pandemico – The Northman ha staccato il primo colossal per Eggers, e un centauro raro per registi canonicamente assegnati agli Autori. Pare che il budget per il film si sia attestato attorno ai 70-90 milioni. Paragone veloce: Apocalypto, in tutto il suo sfoggio muscolare di cultura Maya (Mel Gibson, 2006), ne aveva richiesti 40.

Grande budget, storia precompilata, vikingcore. Le perle per sbancare il botteghino sono infilate con precisione, lucidate con perizia e, allo stesso tempo, con umiltà reverenziale verso tradizioni e personaggi torreggianti, larger than life. Presto ancora per dire se The Northman agguanterà il primo posto dell’Eggers preferito dal pubblico. Per tornare a Cuarón, «it was just Vikings». Nel peggiore dei casi, farà figurare un film più pop, confezionato in un guscio facile, nella filmografia di Eggers. Un film che, a oggi, rafforza l’impressione della perizia ossessiva del regista, della sua visione ad ampio raggio; che alza il volume di questo sobillare che, dietro al reale, ci aspetti uno strato di nuova esistenza, passata, in sé completa, straordinaria. E che consegni a ognuno, a sipario calato, la valchiria che si merita. Nel peggiore dei casi, saranno solo vichinghi.