Ogni anno puntuale la casa editrice Black Coffee mantiene una promessa che ha fatto ai lettori: pubblicare una antologia con alcune delle voci più interessanti della poesia americana, grazie alla curatela di John Freeman e Damiano Abeni (traduttore: e con il nuovo appuntamento, siamo a ventiquattro poeti!). Seguendo il progetto fin dal primo volume, ho cercato di costruire un discorso in evoluzione, con continui echi da un articolo all’altro. Ogni curatela successiva permette al nostro sguardo critico di allargarsi: alcune considerazioni vengono confermate, emergono suggestioni, intuizioni. Dei fili partono da un volume e si intrecciano con un altro. Alcune poetiche dialogano. Nuova Poesia Americana, vol. 4 contiene le voci di Michael Collier, Carolyn Forché, Ted Kooser, Ada Limón, Gary Snyder e Paul Tran. Questa volta, si è tentata un’operazione diversa: a partire dalla categoria della «letteratura della catastrofe», su cui si tornerà ancora nel corso dell’articolo, si è cercato di individuare quanto essa potesse funzionare per i poeti selezionati. E quanto le poetiche tendessero alla letteratura della catastrofe. Si è scelto in particolare di indagare se le poesie proposte abbiano accolto la voce degli animali, come un possibile indizio di sensibilità catastrofica e di attenzione ai mutamenti climatici, con tutto ciò che ne deriva, che va alla deriva. In altri termini, la perdita di biodiversità preme sulla poesia? E il corso della sesta estinzione di massa è avvertita dai poeti?[1]

Prima di cominciare, vorrei ripetere le parole con cui Freeman accolse questa avventura e sperare che diventeranno anche vostre: «ogni nuovo volume di questa collana sarà una specie di piccolo evento, anche perché nessuno di questi poeti è stato ancora pubblicato in italiano». Ecco il punto a oggi: se si escludono Gary Snyder e alcune poete già suggerite da Alessandra Bova in Antologia di poesia femminile americana contemporanea (Ensemble, 2018), l’editoria italiana dalla prima Nuova Poesia Americana (2019) ha proposto in traduzione da tutte e quattro le raccolte… solamente due autori! Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro di Terrance Hayes (Tlon, 2022) e La tradizione di Jericho Brown (Donzelli, 2022). Questo non vuole essere un j’accuse, ma una preghiera. A slargarsi.

Colpisce, in una antologia dedicata alla divulgazione della poesia americana contemporanea, la presenza di Gary Snyder, una voce che ha attraversato la San Francisco Renaissance e la Beat Generation, fino al presente. Selezionato con un gruppo di testi che va dal 1965 al 1996, è questa una probabile scelta di campo. «Pensavo, il giorno che ho cominciato, | davvero non vorrei farlo tutta la vita. | E porcocane, è proprio quello, | che sono andato avanti a fare» scrive in Fieno per i cavalli, a proposito di un uomo che ha compiuto lo stesso lavoro di imballatore per tutta la vita: e l’immagine potrebbe valere anche per Snyder, che oggi ha novantadue anni e che non ha mai taciuto la scrittura, esemplificando quella equazione della «letteratura come vita» condivisa con autori come Lawrence Ferlinghetti, che a cento anni aveva pubblicato un nuovo libro, Little Boy (2019). In Invito alla lettura della “Nuova Poesia Americana”, vol. 2 [2], si era lanciata una provocazione, che vorrei ripetere ancora una volta: chi crede che la Beat Generation non abbia più niente da dire, non ha mai capito la Beat Generation. Ciò significa anche che non è possibile liquidare l’esperienza dei beat come una parentesi della letteratura americana. Al contrario, la Beat Generation ha saputo nello stesso tempo innovare e conservare la tradizione poetica statunitense, facendo propria la lezione di Walt Whitman e di Ralph Waldo Emerson, per cui ogni poesia detta da sé il proprio ritmo, ma innestandola sulle ritmicità jazz e sull’idea, formalizzata da Jack Kerouac e poi da Allen Ginsberg, di non capire che cosa si scriva. Per molti poeti americani, i beat sono diventati – sono ancora – dei maestri. Ascoltando per esempio le letture proposte da Maria Grazia Calandrone per Poesia Statunitense Contemporanea su Radio 3 Suite[3], risulta evidente. E Snyder affida questa consapevolezza alla meditazione della poesia, in particolare in un gruppo di testi dedicati al figlio Kai, ma che sembra parlare a tutti i poeti sparsi sulla terra, come in Manici d’ascia:

Si trova nel Wê Fu di Lu Ji, quarto secolo
dell’era cristiana. «Saggio sulla letteratura» – nella
prefazione: «Nel fare il manico
di un’ascia
intagliando il legno con un’ascia
il modello in realtà ce lo si trova tra le mani».
[…] E io capisco: Pound era un’ascia,
Chen era un’ascia, io sono un’ascia
e mio figlio un manico, che presto
si troverà a costruire forme, modello
e strumento, mestiere della cultura.
Così andiamo avanti noi.

Passaggio di testimone: passaggio della voce. La poesia ha eredi sradicati «in tutto quanto il globo, | sotto i soffitti bassi dei pub, sentiamo le stesse canzoni nuove || tutte le canzoni nuove. | Nei pub aperti del mondo» (da Dillingham, Alaska, al Pub del Salice).

Snyder è, tra i poeti della Beat Generation, quello che ha dedicato una attenzione maggiore all’ambientalismo: una direzione che  sarebbe importante fare anche nostra, davanti all’emergenza climatica. E negli Stati Uniti – meglio: nella poesia e nella narrativa statunitensi – ha cominciato a emergere sempre più una corale «letteratura della catastrofe»[4]. Paul Tran partecipa con degli estratti dalla raccolta d’esordio All the Flowers Kneeling (2022). È una poetica darwiniana, come scrive Freeman: «Nelle sue poesie l’adattamento non è mai separato dalla sua fonte […] sono esseri viventi che si adattano all’ambiente circostante». In Metodo scientifico, per esempio, Tran recupera gli esperimenti di Harlow sull’attaccamento materno e poi espressi in The Nature of Love (1958): dei cuccioli di macaco vengono separati poco dopo la nascita dalla loro madre e cresciuti in delle gabbie con madri sagomate, una fatta di fil di ferro che però fornisce nutrimento ai piccoli, l’altra invece coperta da un panno caldo, ma incapace di nutrire. I macachi scelgono la madre morbida invece di quella metallica. Nella poesia di Tran, la cronaca dell’esperimento è affidata alla testimonianza di uno dei «Macaco Rhesus»: «In una gabbia | in cui mi controllava, le sue pupille | registravano ogni mio movimento, ogni suono, sperando | che potessi rivelare loro una parte di se stessi». Harlow intendeva dimostrare quanto il bisogno del contatto fisico fosse importante per lo sviluppo, osservando come non avesse solo a che fare con l’allattamento. Ma nel testo, la voce della scimmia denuncia la vera natura torturante dell’esperimento, arrivando a capovolgerne i risultati: «ho raccolto più informazioni sul Padrone | di quante lui ne abbia ricavate da me, il che, credo, è una specie di fedeltà […] Tutto questo tempo | è stato lui l’animale. Tutto questo tempo è appartenuto a me». In altri testi invece, il rapporto tra umano e resto del regno animale è empatico, relazionato da identità sovrapponibili come in Bioluminescenza:

Vi è un buio così profondo sotto il mare che le creature generano la propria
luce. Questa impresa, questa capacità di adattamento, potrei dire, è bella
anche se le creature sono ripugnanti. Pesce lanterna. Ascia d’argento. Pesce vipera.
Io, non diversamente da loro, ho rinunciato alla bellezza per poter vedere il mondo nascosto
dalla tenebra eterna […] Nelle più estreme condizioni
abbiamo dimostrato che la vita può esistere.

Quella di Ada Limón è una poesia abitata dagli animali: «canarini», «gatto», «mucca», «cane», «marmotta», «gufo», «fregata magnifica», «pesce», «cavalli». È attualmente la Poeta Laureata degli Stati Uniti, una carica che evidenzia il ruolo che ancora oggi può ricoprire un poeta in America. Eletto dalla Library of Congress, ha un mandato di solito annuale e riceve uno stipendio di 35.000 dollari, con il compito di dedicarsi attivamente alla diffusione della poesia e di tenere letture pubbliche.  Una posizione che però può suggerire una linea di ricerca. Le nostre attività sulla Terra hanno un effetto così impattante da aver spinto gli scienziati ad adottare la metafora dell’Antropocene, per descrivere  il corso di una nuova era geologica. E la scrittura di Limón ci mette di fronte alle nostre responsabilità, obbligandoci a fare i conti con ciò che abbiamo compiutamente alterato e devastato, come in questa poesia dedicata alla prima volta in cui l’autrice è andata a pescare: «È a questo punto che dovrei chiedere scusa? Non | solo al pesce, ma a tutto il lago, alla terra, non solo per me | ma per le generazioni di razzie e spoliazioni? | Ricordo la bocca terrificante aprirsi come per ingoiare | la barbara bimba che gli avrebbe preso la vita. L’occhio | inanellato d’oro non mi perdonò, niente assoluzione, niente perdono» (da Il primo pesce). Come nella poesia di Tran, anche con Limón entriamo in quella che Jeremy Rifkin in La civiltà dell’empatia (2009) ha chiamato una «empatia globale»: ci troveremmo cioè nella situazione paradossale per cui gli esseri umani stanno per raggiungere una capacità empatica in grado di abbracciare ogni regno del vivente nello stesso momento in cui potremmo arrivare a un punto catastrofico di non ritorno sul pianeta. Un ecosistema non è fatto solo di animali. In Ciò che salva, Limón propone l’immagine inquietante di una ginestra ecosistemica, un albero carbonizzato per metà e vivo per metà:

[…] Fisso
l’albero da un bel po’ adesso, e mi torna in mente
la mia rettitudine prima delle ustioni
del tempo. Mi manca la persona che ero. Mi manca tutto ciò
che tutti siamo stati prima di essere vivi a metà
[…] Poggio la mano sulla corteccia
intatta che è fresca e incontaminata, e poiché non posso
chiedere scusa all’albero, a me stessa dico: Mi spiace.
Mi spiace essere stata così poco accudente con la Tua vita.

Come a ricordarci che il mondo potrà andare avanti anche senza di noi, nonostante ciò che gli abbiamo fatto. Ferito, ma radicato alla vita. Oppure, che abbiamo qualcosa da imparare dagli alberi: una capacità di resilienza.

«Nella sua opera prende vita come per magia un’infanzia trascorsa sulle pianure»: così Freeman ci presenta Ted Kooser, tredicesimo Poeta Laureato degli Stati Uniti e Premio Pulitzer (2005). Anche nella poesia di Kooser gli animali sono spesso protagonisti, fino a titolare più di un componimento, ma alla wilderness è piuttosto la relazione umano/animale tipica della fattoria a emergere nei testi: «cavalli», «mulo», «chioccia», «allodole», «fringuelli», «ragno gambelunghe», «cane», «assiolo», «pesci rossi». C’è però una orizzontalità delle specie che Kooser pone nella lacerazione del buio cosmico, come se tutte le creature viventi fossero delle fiaccole impegnate a illuminarsi a vicenda. Per esempio quando un uccello vigila alzato sulla notte: «Eppure, con minuscola speranza | dal centro della tenebra | l’assiolo ripete il suo verso instancabile» (da Assiolo). O ancora, in una poesia dove Kooser bambino si affaccia sull’orlo di un pozzo e osserva un gruppo di pesci che «giravano in tondo, a mezz’acqua appena fuori dal buio» (da Pesci rossi). Oppure quando si descrive rapito dalla lettura fino a notte fonda, fino a che lettura e notte non arrivino a coincidere: «Stasera mi sono seduto a una finestra aperta | e ho letto finché la luce non se n’è andata e il libro | non era altro che parte del buio» (da Un buon compleanno). Ma è forse in Morte di un cane che la biofilia poetica di Kooser dà la sua prova migliore. È raro scoprire testi che indaghino la profondità del lutto per un animale, una perdita che purtroppo è trattata con sufficienza nelle nostre società, minimizzata, messa tra parentesi, ma che è invece in grado di sconvolgerci sul serio:

Il mattino dopo mi è sembrato che casa nostra
fosse stata sollevata dalle fondamenta
durante la notte, e che ora andasse alla deriva,
[…] la casa aveva cominciato a salpare
sul vuoto, nessuna solida terra in vista.

È un cane che irrompe all’improvviso nella poesia di Michael Collier: «D’un tratto si apre una porta, un cane abbaia, è Bum Bum, un chihuahua, che per me non è neanche un cane […] “Bum, Bum” faccio, sottovoce. “Ti voglio bene. Tu sei l’unico che mi capisce”» (da Bum Bum). Con Argo il poeta compie una operazione ulteriore, indagando che tipo di relazione si possa instaurare tra uomo e cane in uno dei poemi omerici: «hai letto Omero come me la prima volta, || troppo in fretta, sapendo che saresti stato interrogato sulla trama | e sugli eventi di spicco […] Leggendo in questo modo probabilmente ti sei perso la lacrima | versata da Odisseo per il suo amabilissimo cane, Argo […] Anni fa hai avuto una chance per rileggere quella pagina più a fondo | ma invece sei corso avanti». Sono sicuramente sguardi interessanti quelli che cercano tracce di biofilia nella classicità, per comprendere come il nostro rapporto con gli animali è cambiato nel tempo. Se l’ipotesi di Edward O. Wilson è che «la nostra pulsione ad affiliarsi ad altre forme di vita sia in certa misura innata» (Biofilia, Piano B Edizioni, 2021 p. 114), il biologo aggiunge anche che c’è bisogno di una nuova «etica della conservazione». In altre parole, entra in gioco la cultura, in senso antropologico. Le campagne dedicate alla salvaguardia delle specie a rischio, per esempio, risentono molto dell’idea che le persone si fanno di un dato animale: uno che ai nostri occhi sembra più tenero di un altro è anche quello che riceverà maggiore attenzione. Nel pieno di una estinzione di massa causata da azioni antropiche la nostra empatia dovrebbe allargarsi a tutto il regno animale e vegetale. È possibile educarci a una tale ampiezza. L’evoluzione culturale ha una qualità: è in grado di viaggiare più velocemente dell’evoluzione biologica. Credo che un passo importante sia resistere alla continua tentazione di antropomorfizzare , per riuscire invece a empatizzare con gli altri animali  per come sono. Prendiamo le api: la loro estinzione sarebbe catastrofica, visto il loro ruolo ecosistemico di impollinatori. Così far volare  uno sciame di api sulla pagina di una  poesia diventa anche un atto di ambientalismo poetico, come fa Collier in Le api di Deir Kifa. Ma leggere la vita sociale dell’alveare come se fosse un’epopea umana rischia di non portarci lontano dal punto in cui siamo già. Non è già magnifico che possa esistere una vita sociale a misura di insetto?

A mezzogiorno gli alveari sono villaggi,
cancelli aperti sul sole, oppure piccole nazioni
intagliate da imperi per mantenere la pace, ciascuna con i suoi costumi –
alcune governate da regine più illuminate, altre frenetiche e insicure,
altre ancora con popolazioni mutevoli, e altre affaccendate a rubare,
e perfino le vespe e i calabroni, i fieri barbari che si sono insediati
tra gli indigeni, entrano a far parte dei commerci antichi.

La catastrofe ha indubbiamente a che fare con il campo semantico del disastro e della fine. Quella della catastrofe però non è una letteratura distopica. Se la distopia, infatti, riguarda qualcosa che potrebbe accadere, ma che ancora non è accaduto e non è detto che accada per forza, la catastrofe è invece, almeno per ora, qualcosa di certo. Ci sono ormai autori che affrontano apertamente l’argomento, facendone il centro semantico della propria opera, come Aracelis Girmay nel secondo volume[5]. E come Carolyn Forché in questa nuova antologia. Ambientalista e attivista per i diritti umani, la letteratura della catastrofe di Forché è una poesia sul campo. Nella scelta antologica tratta interamente da In the Lateness of the World (2020) ci sono testi sulla migrazione, sulle guerre, sui disastri naturali e sulla perdita di biodiversità. Oggi negli oceani esistono cinque enormi isole galleggianti formate da rifiuti in plastica che si trasformano in microplastiche, creando un impatto ecosistemico devastante: una nell’Atlantico Meridionale, una nell’Atlantico Settentrionale, una nell’Oceano Indiano, una nel Pacifico Meridionale e la più grande, la North Pacific Garbage Patch. All’incirca, tre volte la Francia. «Nel mare, dicono, c’è un’isola fatta di bottiglie e altri rifiuti […] Settecentocinquantamila chili di plastica ci arrivano ogni ora. | Le piccole sfere sono uova per gli uccelli e sacchetti meduse per le tartarughe» scrive Forché in Rapporto da un’isola. Nello stesso testo è descritta una città sommersa, forse a causa dell’innalzamento dei mari, e alcune persone che lavorano in una discarica recuperando «tantalio dai cellulari e terre rare»: questo perché per comprendere gli effetti dell’Antropocene bisogna ragionare in maniera reticolare. E la perdita di biodiversità legata allo sfacelo degli habitat naturali ne è un esempio, in cui ogni specie gioca un ruolo in relazione a tutte le altre, come in Mattina sull’isola:

Uno strano scarafaggio ha divorato la maggior parte degli alberi.
[…] ma in passato era stato mantenuto inattivo dal freddo
di un inverno che ormai non viene più.
Un gufo abita sugli abeti alle nostre spalle, ma è bianco,
come volesse essere preso per neve che grava su un ramo.
Dicono sia l’unico gufo superstite. Lo sento la notte
con l’orecchio teso verso l’ultimo dei topi e che fa
tuu tuu rivolto a gufi che non ci sono.


Nuova poesia americana, vol. 4, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Black Coffee, 2022.


[1] «Si tratta di un’efficace metafora inventata 25 anni fa da due grandi studiosi morti recentemente, Edward Wilson e Richard Leakey. Questi due scienziati fecero un calcolo molto complesso e ci spiegarono questo: nel nostro passato evolutivo ci sono state cinque grandi catastrofi durante le quali si sono estinte quasi due terzi di tutte le forme di vita esistenti a causa di una serie di ragioni, come cambiamenti climatici, eruzioni vulcaniche e impatti di asteroidi sulla terra. Wilson e Leakey ci avvisarono che gli attuali ritmi di estinzione sono equiparabili a quelli delle altre cinque grandi catastrofi del passato. Per questo spiegarono che siamo dentro la sesta estinzione di massa […] Gli studi condotti in seguito hanno dimostrato che avevano ragione: la sesta estinzione di massa è in corso» (Telmo Pievani, https://www.fanpage.it/attualita/telmo-plevani-uomo-peggio-di-un-asteroide-sta-causando-la-piu-veloce-estinzione-di-massa-della-storia/) Cfr. Telmo Pievani, La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi, Società editrice il Mulino, 2012

[2]  https://www.labalenabianca.com/2021/09/29/nuova-poesia-americana-vol-2/

[3]    https://www.mariagraziacalandrone.it/2023/03/02/poesia-statunitense-contemporanea-radio-3-suite/

[4] https://diacritica.it/letture-critiche/letteratura-della-catastrofe-tra-le-fiabe-di-luis-sepulveda-su-storia-di-una-balena-bianca-raccontata-da-lei-medesima.html

[5]  https://www.labalenabianca.com/2021/10/12/recensione2-nuova-poesia-americana-vol-2/