Se quando, influenzata dall’allineamento dei pianeti, scegli di pubblicare qualcosa su una piattaforma online, mettiamo un social, hai il cardiopalma, tranquilla. Se, una volta che il tuo contenuto è andato online, aggiorni fremendo il feed, sperando arrivi la notifica di un nuovo like, tranquilla: è un sistema affinato da tempo. D’altronde è la tua possibilità, se le cose si mettessero bene, di vivere quindici minuti di celebrità. I secondi passano. Eccolo, un cuore! Due, tre, quattro, fioccano, si accumulano sulla piattaforma, si attaccano al tuo contenuto, ecco ora sì, hai avuto la conferma che cercavi: il contenuto è piaciuto, e dunque ha valore. No? Bah. Diciamo che, forse, è ora di fare i cinici, ma quelli veri. Perché delle piattaforme si è parlato in tutte le salse. Si è detto, ci rubano l’attenzione, trasformano in trogloditi, “spazzaturizzano” il ragionamento da pagina cesellata. Oggi, invece, ribaltiamo la questione. E consideriamo non tanto le conseguenze, vere o paventate, della nostra relazione con le piattaforme, ma il grugno, lo schizzo che a esse ci attrae. Come per i dabbene preoccupati per “i drogati”, il fulcro mica sono le persone, chi le conosce quelle, il fulcro è la droga, il valore di cui si parla. Così, nelle preoccupazioni sul futuro delle generazioni iperconnesse, ma chissenefrega dei giovani ché poi invecchiano, si parla sempre delle piattaforme. E infatti, per fortuna, quando si dice che muoiono, moriranno, stanno morendo, non si tirano in mezzo gli utenti. Insomma. Come in ogni relazione tossica, che sia droga o un* partner, la domanda che ci dobbiamo fare non è “che cosa succede se”, quello te lo insegnano le fiabe. La cosa giusta da chiedersi è: “perché mi lego a questa relazione?”, che cosa ne ricavo? Be’, un po’ si è già risposto: la celebrità, la trasfusione all’account del valore della piattaforma. Ma piano, oh, andiamo per gradi. OK. Lo facciamo, però, con una serie TV.

Nello specifico, Succession, della HBO, una specie di The Crown (Netflix) con i magnati dei media al posto della famiglia reale britannica. Con più finzione, però, per cominciare. E un sottotesto potente sulle logiche che governano la produzione culturale nell’era dei media di massa. Perché in realtà Succession, come dice il nome, è la storia di una successione: quella al trono imperiale dell’anziano magnate dei media Logan Roy (Brian Cox), gli sfidanti: i suoi accoliti più intimi, dai componenti il suo consiglio di amministrazione, alle mogli vecchie e nuove, fino ai quattro figli. Logan spariglia senza dividere, tiene saldo lo scettro del potere. Sa che nessuno è più squalo di lui. Che la via per tenersi l’impero il più a lungo possibile è lasciare, a turno, quindici minuti di celebrità a ognuno dei pretendenti, facendole/gli credere di essere il favorito. Logan Roy è l’alter-ego di Rupert Murdoch, re dei conglomerati mediatici contemporanei (qualche nome sotto la sua ala: Fox News, Sky, …), e Succession è la storia di come le cose si misero male una volta venuto il tempo di scegliere un sostituto per la sua poltrona. Nel caso ve lo steste chiedendo, sì, c’è un bel podcast che affonda sulla vicenda. Si chiama Even the Rich, ed è di Wondery.

Oltre allo storytelling scabroso e al cardiopalma, però, Succession ci lascia anche di più, e inscena uno scontro fondamentale non solo per i Roy, ma soprattutto per il nostro tempo. Perché Rupert, cioè Logan, è forgiato nei legacy media, ovvero, i «media di vecchia data». Quelli che, partendo dalla campana del villaggio che chiama alla Messa, hanno tradizionalmente svolto la funzione di aggregatori per occhi, orecchie, voci e contenuti da una parte all’altra del filo – produttore, fruitore – fino all’avvento di internet. E dunque giornali, televisione, eccetera. Gli intrighi di Succession si sviluppano proprio così, dallo scontro di due fronti: tradizionalisti dei media, innovatori dei media. La calata dei rottamatori, favorevoli a un pivot digitale del family business. Eppure. Eppure Logan, dinosauro di altri tempi, fa una cosa che solo i suoi più acerrimi concorrenti, i nuovi media, saprebbero fare: attribuisce importanza volatile, ti mette sul trono per un quarto d’ora, e ti tira giù. Detta le regole, e nel farlo conserva il potere. Logan Roy, insomma, è un narcisista patologico (red flag, y’all). Uno che sguazza nelle relazioni tossiche, proprio come una qualsiasi piattaforma dell’internet odierno nei confronti dei propri utenti (forse non è un caso che, per piattaforma, si possa anche intendere qualcosa di simile a un palco). Logan è il valore, non la sua smidollata progenie. Succession è, in realtà, una serie sulla trasmissione del valore. Fate voi l’equazione sostituendo “Logan” con “piattaforme”, “progenie” con “utenti”.

Anzi no, aspettate, non c’è bisogno. C’è un volume, preciso ed elegante, che lo ha già fatto: Piattaforme digitali e produzione culturale di Thomas Poell, David B. Nieborg e Brooke Erin Duffy, portato in Italia da minimum fax lo scorso anno. Una guida preziosa e uno studio puntuale, per tracciare lo stato dell’arte della produzione culturale sul web e le nuove dinamiche a governare la relazione fruitore-produttore (i dati più recenti arrivano al 2021). Due parti: “Cambiamenti istituzionali” e “Pratiche culturali in evoluzione”. La prima, votata a scandagliare la configurazione dei rapporti di potere nel sistema, la seconda, come questi influenzino la produzione di contenuti (culturali) sviluppata tramite piattaforma. Girata l’ultima pagina, una sola immagine in fronte: la brulicante discarica dei contenuti che la vita di piattaforma si lascia dietro. Al centro della scena, l’allegoria delle piattaforme, rappresentate da un’idra policefala: le tranci una capoccia, due gliene ricrescono. Logan Roy lo abbatti una volta, due si rialza. Narcisisti che non sono altro, lui e le piattaforme.

Comprendere appieno questo narcisismo idra-zoide passa però da una nozione, quella, appunto, di piattaforma, che ci aiuta a fare il punto sul “dove siamo” nella linea del tempo di internet. Secondo gli autori, le “piattaforme” sono contenitori, ma dotati di agenza nei confronti del proprio contenuto, che in primis cioè regolano, e poi trasportano, permettendone la fruizione da parte dell’utente finale. Hanno dunque il fare di un’infrastruttura. Per visualizzarle meglio, si può pensare internet come uno spazio. Ampio, infinito. Senonché, in questa assenza di confini, le piattaforme si sono imposte per compartimentizzare, anzi, per dirla con gli autori, piattaformizzare, cioè reclamare alla proprietà privata porzioni di un “cosa” allo stato brado. Se suona già sentito, deriva dai libri di storia. Le enclosure (“territori recintati”, “territori riappropriati” o, variamente, “[ri]appropriazioni territoriali”) che, nell’Inghilterra del 1500-600, buttarono le basi per la prima rivoluzione industriale si fondavano d’altronde sullo stesso principio: la divisione del mio dal tuo. L’ottica, la resistenza allo strapotere dei nobili. Il risultato, la base dell’ecosistema capitalista contemporaneo.

Per Poell, Nieborg e Duffy, dire piattaformizzazione non è dunque limitarsi alla denotazione, ma connotare un sistema interconnesso e autolegittimante, il quale, una volta instaurato, comporta «cambiamenti essenziali nelle pratiche del lavoro, della creatività e della democrazia nelle industrie culturali» (p. 19). Uno shift ossia di regime, e dunque di potere e delle sue dinamiche: conformazioni e ripercussioni non solo sull’ambiente della piattaforma, ma anche sul sistema culturale della società in cui la piattaforma agisce.

Infatti, scavando oltre la superficie del feed, si trovano soprattutto due elementi a favore dell’interpretazione delle piattaforme come centro di propulsione e certificazione di valore: le questioni di governance e regolamentazione interna delle piattaforme; la democrazia fittizia che le piattaforme immettono nella produzione culturale altrimenti legata ai legacy media (ancora, Succession).

Il primo punto riguarda la tipologia di contenuti postabili sulle piattaforme, quelli che, in altre parole, passano l’asticella della decenza platform-based. A volte scremati a mezzi algoritmici, altre volte con l’impiego di revisori umani – si consiglia la visione del documentario The Cleaners in merito –, i contenuti vietati cadono spesso nelle aree di influenza del terrorismo e dell’incitazione alla violenza. “Spesso” non significa però “sempre”. E infatti, la comica che vorrà condividere (e dunque aggiungere valore a) dissacranti sketch politici, o la fotografa che spera di mostrare ai suoi follower artistiche foto di nudi (femminili, soprattutto) se ne andranno con le pive nel sacco. Be’ almeno i criteri sembrano lampanti, no? Eh, no. Cercando su internet, si troverà un’ampia scelta di forum e pagine di supporto dedicate al “come non farsi bannare sui social”. Le risposte cadono spesso nell’aneddotico misticismo. Senza contare il razzismo spesso intrinseco agli algoritmi delle piattaforme, dove vengono privilegiati creator caucasici. Questo per dire: le piattaforme – arbiter elegantiae della società virtuale – discriminano e censurano. 

Il secondo punto, convincentemente argomentato da Poell, Nieborg e Duffy, è dedicato invece all’auctoritas diffusa – sarebbe meglio dire, disciolta – promessa dalle piattaforme ai propri utenti e creator. Il sogno, l’El Dorado della libertà di opinione. Agli inizi, c’è da ammettere, sembrava davvero che le piattaforme avrebbero saputo offrire un’alternativa popolare alle magagne dei legacy media, gatekeeper a step multipli accusati, variamente a torto, a ragione, di esercitare il loro potere al pari di un’enorme stanza dei bottoni (proprio come Logan Roy). Previo il rispetto delle regole di cui sopra, infatti, le piattaforme permettono a chiunque di condividere qualsiasi tipo di contenuto in tempo reale, assecondando tematiche e tempistiche di lavoro personalizzate. Il ghiotto premio, la validazione istantanea del proprio pensiero, proprio per il fatto di averlo posto in piattaforma. Direbbe qualcuno, esistenza a precedere l’esistere. Nei rapidi tempi di aggiornamento del feed, esistenza, però, significa, come dicevamo all’inizio, like, commenti, condivisioni. Se questi non arrivassero entro i famosi quindici minuti, infatti, l’oblio, e il contenuto andrebbe a finire nella discarica della cultura di piattaforma, a rafforzare un po’ di più il valore della piattaforma stessa. Il risultato è una democratizzazione solo apparente della produzione culturale. Tradotto, è qui forse che le piattaforme dispiegano tutta la forza del loro narcisismo, e indirizzano gli sforzi dei creator verso una battaglia di visibilità condotta sia contro se stessi che con gli altri. Tutto il contrario di una democrazia, quindi. Anzi: lo scavallamento dei gatekeeper dei legacy media rafforza le stesse dinamiche di sottomissione che il produttore culturale rifuggiva in quei dinosauri, appunto, una scala gerarchica, ora appiattita e mutata al servizio dell’algoritmo. Ecco, dunque: il valore non è più intrinseco al contenuto. È stato estromesso, e può eventualmente realizzarsi solo legandosi a doppio giro con le logiche delle piattaforme.

La parabola che ne risulta è degna dei grandi maestri del cinema della Hollywood classica: nuovo arrivato in città viene guardato con sospetto + nuovo arrivato propone soluzione brillante per i problemi della comunità + nuovo arrivato viene accolto come portatore di salvezza + nuovo arrivato si rivela in realtà compartecipe della stessa difficoltà in cui il villaggio versava nel periodo di partenza + si cerca nuovo salvatore + nuovo arrivato in città viene guardato con sospetto, eccetera eccetera. Ora io, sulla base dei minimi pilastri di decenza umana, Succession non ve la spoilero. Ma forse, arrivati a quest’altezza dell’analisi e dopo la lettura di Piattaforme digitali e produzione culturale, non ce n’è nemmeno bisogno. In fondo, Logan Roy riassume perfettamente il vecchio e il nuovo, il nuovo con l’atteggiamento del vecchio, ma dotato di maggiori mezzi. Non è una novità che giornali e case di produzione e/o edizione tradizionali boccheggino, e fatichino a tenere il passo con il ritmo e le “aperture” delle piattaforme. A livello culturale, la relazione tossica con le piattaforme è insomma assodata. Non deve essere, però, un canto di morte. Come le storie davvero più belle sono quelle di chi si è trovata in deep shit senza capire bene perché ed è riuscita a liberarsi, così anche noi potremmo decidere di guardarci allo specchio, e, senza cancellare i nostri account con una botta di drama – l’ho già fatto, non funziona – studiare, capire, e decidere che, in fondo, il valore che attribuiamo alle piattaforme non ci merita. Un po’ come in un partner abusivo. Un po’ come, mannaggia, dovrebbero fare i rampolli di Roy. Immaginare mondi rimane un ottimo prodromo di rivoluzione. Chissà che cosa succederebbe se ne immaginassimo uno in cui, al postare su una piattaforma, fossimo liberi dalla tachicardia da prestazione. Boh. Però vorrei viverci. Nel frattempo, cercherò di condividere questo articolo nel modo più caucasico possibile, così che le piattaforme mi lascino stare.


Thomas Poell, David B. Nieborg, Brooke Erin Duffy, Piattaforme digitali e produzione culturale (trad. Rocco Fischietti), minimum fax, 2022, pp. 393, € 20.