Il resoconto e le considerazioni, o poco meno, che qui si offrono ai lettori de La Balena Bianca costituiscono quasi integralmente l’introduzione agli Atti del Convegno Diamoci verso. Visioni, pratiche e ricognizioni della poesia in Sicilia che si è svolto a San Mauro Castelverde (PA) il 20 agosto 2021 nell’ambito della prima Edizione del Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo, che ha incluso al suo interno il Premio di poesia omonimo giunto ormai alla nona edizione.
Lo spazio che accoglie queste veloci e provvisorie riflessioni ne ha dato come l’innesco attraverso alcuni temi emersi dall’inchiesta “Ecosistemi poetici – abitare creativamente l’antropocene”.
Il Festival, di cui il Convegno intende essere momento portante, non è stato concepito, insieme al comitato scientifico composto da Andrea Accardi, Giuseppe Gabriele Condorelli e Diego Conticello, come un evento isolato e occasionale, ma come un momento – un processo continuo – di riappropriazione dei luoghi e delle forme della vita collettiva attraverso l’azione della poesia.
La giustificazione, prima di tutto a noi stessi, dell’ennesimo Festival e Convegno di poesia è diventata l’occasione per un discorso sulla poesia, certo appena abbozzato, che oltrepassa lo scopo immediato per cui è nato.
Ci è parso innanzitutto importante la circostanza che il convegno avesse luogo a San Mauro Castelverde, un paesino di mille abitanti delle aree interne della Sicilia, un bellissimo borgo di montagna nel cuore delle Madonie che soffre, come tutti i piccoli comuni dell’interno, di processi disgregativi di carattere sociale ed economico. San Mauro, poi, è sineddoche di una perifericità in cui purtroppo tutta la Sicilia si ritrova.
Questa geografia dei margini ci è sembrato si disponesse da sé, proprio per la sua marginalità, come il luogo perfetto per riconoscere un’altra marginalità, quella della poesia.
Questa intesa possibile sulla base di una comune identità formale non è stata però espressa e praticata all’insegna della remissione e della rinunzia o, altra faccia di una stessa postura, dell’elezione fiera e della distanza snobistica: non è stata l’occasione per esercitare estetismi compiaciuti o per trovare rifugio in analisi apocalittiche, stare nella marginalità infatti ha offerto lo spunto per considerare se ciò che sta ai margini sia davvero condannato a essere marginale.
Interrogando una doppia marginalità, territoriale e della poesia, il convegno, nel più ampio contesto del Festival, ha inteso riportare l’attenzione su una dimensione sempre più labile, e apparentemente estranea al mondo della poesia: la comunità.
Il convegno si è dato come proprio oggetto la poesia in Sicilia non nel senso di una sicilianità vittimistica, come piagnisteo di una minorità insuperabile e irredimibile, né in quello complementare di esemplarità universale, di una Sicilia metafora del mondo; la Sicilia non era intesa soltanto come oggetto teorico di indagine per mettere in comune saperi, interpretazioni, punti di vista, analisi e valutazioni. Il riferimento alla Sicilia era volto innanzitutto alla costruzione di un laboratorio aperto e condiviso per mettersi in comune, per fare appunto comunità.
Se il richiamo alla comunità è di importanza vitale in un contesto come quello di un piccolo comune dell’interno della Sicilia, le cui dinamiche di depauperamento economico e sociale dipendono in maniera evidente dallo sfaldarsi progressivo della società locale, è molto meno chiaro perché oggi questo riferimento sia interessante se non decisivo anche per la poesia.
L’ipotesi che proponiamo e da cui ha preso le mosse questo convegno – un’ipotesi che va presa come tale, non cioè con la sicurezza e l’affidabilità di una tesi – è che la poesia contemporanea abbia perso parte della sua incisività e della sua riconoscibilità come pratica specifica poiché anche nell’attività poetica non è più rintracciabile alcuna forma significativa di comunità.
Nell’attuale frangente storico caratterizzato da una società atomizzata, iper-individualistica, monadica, dominata da una comunicazione superegoica, la poesia probabilmente può recuperare uno spazio d’influenza e una certa capacità di visione solo riscoprendo la funzione rigenerante della comunità.
Se il convegno ha liberato un potenziale è stato soprattutto in quanto atto germinale che ha impegnato ognuno dei partecipanti a un fare prima che a un dire (appunto, nel titolo del convegno, “Diamoci verso” che in siciliano indica il muoversi, il mettersi all’opera), a un fare (attraverso il dire) che fosse appunto in qualche modo costruzione di comunità – comunità dei poeti siciliani lì convenuti e della comunità maurina che ha accolto e si è posta in dialogo ricevendo e contribuendo all’azione della poesia.
In questa ipotesi, che lasciamo in una formulazione che non può essere che frettolosa e precaria, opera tutta la polisemia del termine ‘comunità’: vocabolo dal significato sfuggente se non decisamente ambivalente, ma che, almeno a un livello minimo di ciò che costituisce il suo significato, indica un incontro, un incontrarsi, non un semplice stare insieme bensì, nella sua accezione positiva, un aprirsi per mezzo dell’alterità a un’inedita dimensione di senso, a un orizzonte che ci è prossimo ed estraneo allo stesso tempo.
Per buona parte del Novecento il richiamo alla comunità ha avuto significati e risvolti per lo più reazionari e ancora oggi una simile accezione conservativa e rancorosa è riproposta in certe derive populiste e nazionaliste. Eppure, da diverso tempo, e con forza ancora maggiore a partire dalla recente fase pandemica, si assiste a un deciso impegno di riscoperta della comunità, dei suoi legami forti, in connessione al recupero di una dimensione del vivere che l’ipercapitalismo digitale ha sempre più compromesso.
L’ipotesi che ci sentiamo di difendere è che la stessa poesia, nell’attuale frangente storico, abbia bisogno di comunità per rigenerarsi – di qualcosa che non si costruisce con sé stessi e da sé stessi, ma che implica una partecipazione e un coinvolgimento a più livelli di sapere e di realtà.
In una società estremamente parcellizzata e caratterizzata dal campo illimitato delle licenze individualistiche, cosa può la poesia se asseconda la frammentazione categorizzante e la logica dei compartimenti stagni? Anche alla poesia oggi viene chiesto di integrarsi specialisticamente nella realtà e nella società: in questo modo essa si snatura in gioco settoriale, con le sue regole, il suo tabellone, i suoi top player.
Nell’odierna società ‘informazionale’ si agisce parlando come mai prima d’ora nella storia dell’uomo. La poesia e tutte le arti verbali perdono in certo qual modo il loro tratto distintivo. Non è un caso, tutti diventano poeti.
Sia contro il male dello specialismo e della settorializzazione mortifera che contro l’universalizzazione qualunquistica della poesia, cui contribuisce anche l’estrema individualizzazione della parola a cui i social network sembrano averci assuefatto, richiamarsi alla relazione tra poesia e comunità può offrire tracciati promettenti da sondare.
La claustrofobica privatizzazione del dire poetico, riflesso di una pratica che non parla più a nessuno se non ai pochi che partecipano allo stesso gioco puerile, e che interessa anche tanta parte dell’attuale poesia antilirica contemporanea a dispetto del congedo esteriore dall’io, si può superare realmente solo attraverso la declinazione dell’atto poetico non nei termini di un ‘io’ ma, con Nancy, nella forma del singolare-plurale.
Il nesso poesia-comunità riporta alla luce in un certo qual modo ciò che possiamo chiamare il risvolto politico della poesia da intendere qui come attivazione di una pratica che nasce da una comunità, più piccola e circoscritta, e che in forza di questa genesi può esercitare, pur senza alcuna intenzione esplicita, un’azione di (ri)-costruzione della comunità più ampia nella quale si colloca ed è ricompresa.
Anche come poeti, soprattutto come poeti, è necessario venir fuori da quella dimensione monadica dalla quale oggi facciamo tanta fatica a uscire e che inevitabilmente riduce lo spessore semantico dei nostri atti (compresa la scrittura). Il testo, che eccede sempre il libro, è etimologicamente una tessitura, l’intreccio con porzioni di mondo, con pratiche esterne, snodo di attraversamenti e (ri)collocazioni, una continua manovra di posizionamento in un fuori senza il quale il testo sarebbe mero trastullo infantile.
Riviste, università, luoghi di produzione culturale, case editrici… cosa offre oggi l’attuale sistema culturale perché l’esperienza indispensabile al fare comunità abbia occasioni e luoghi in cui prodursi, abbia spunti e suggestioni di cui alimentarsi?
Questo deficit di comunità, se così possiamo chiamarlo, non è soltanto un limite del macro-sistema culturale in cui ci si ritrova a operare. È un limite anche generalmente diffuso tra gli stessi poeti, generato e alimentato, spesso involontariamente, da chi vive all’interno e attraverso il sistema culturale, da ascrivere a una consapevolezza per lo più debole della necessità di costruire comunità anche in quanto poeti. Possono probabilmente spiegarsi anche in quest’ottica, da una parte, il moltiplicarsi odierno delle conventicole, delle consorterie feudali, di una certa logica perversa dell’amicalità, del sistema delle scuderie; dall’altra, la scelta sempre più insistita di un isolamento d’elezione o di rifugio.
È necessario, pertanto, anche per la poesia, porre nuovamente al centro una decisa richiesta di comunità, comprendere che questo impegno ci riguarda direttamente, che non è cioè un elemento esteriore ed estrinseco all’attività di scrittura, non le si aggiunge dall’esterno, ma ne costituisce un momento strutturale.
Oggi la dimensione comunitaria è stata sostituita dall’evento. Anche il nostro Festival di poesia corre questo rischio fatale. Dipenderà da noi, da quello che sapremo fare accadere da qui in poi, innanzitutto attraverso la creazione, grazie alla vittoria del bando “Borghi Linea b” del PNRR, di questo nuovo luogo di comunità che sarà la Casa della Poesia Paolo Prestigiacomo. Dovrà essere un luogo inclusivo e aperto ai maurini, un centro culturale di riferimento per le Madonie e per la Sicilia centro-occidentale.
A tal fine lanceremo a breve una call per costruire l’offerta culturale della Casa della poesia dal basso, insieme a tutti coloro che vorranno contribuire avendo ben chiaro che si tratterà di partecipare non solo nella veste di poeti, critici, operatori di cultura ma anche in quella di agenti entusiasti di un processo di rigenerazione culturale basato sulla funzione civile della poesia (della poesia in quanto tale). Con ciò la poesia sarà stimolata a esprimere una sua vitalità, che non è tanto quella del testo in funzione del critico dentro a un sistema chiuso, ma è la vitalità di un messaggio che entra nelle fibre del mondo e le scuote.
La poesia, che non ha compiti, nella sua integralità minacciata, smarrita, sacrificata all’interesse non sarà performance compiaciuta o atto elitario dentro a un circuito asfittico, ma lo spazio aperto di una comunione, di un mettere e mettersi in comune.
La poesia, come auspichiamo per la sua stessa rifioritura, diverrà in questo modo l’atto indispensabile di auto-coscienza e auto-costruzione di una (e più) comunità.