«La coesione della personalità è una faccenda dubbia», chiosa con ironia Gottfried Benn a se stesso in Doppelleben (Doppia vita, in Italia con Adelphi, ndr), testo autobiografico del 1950. Per doppia vita Benn intende la condizione di dissociazione che ha esordito con le figure ibride della civiltà mitica («sfingi, centauri, divinità dalla testa canina») e ha raggiunto il culmine negli uomini del xx secolo, per cui pensiero ed essere, agire e vita personale «sono entità completamente separate». È una frantumazione dell’io, oramai definitivamente effimero, che Benn aveva già evocato nella novella berlinese del ’47 Der Ptolemäer: «Noi tutti viviamo qualcosa di diverso da ciò che siamo. Ovunque frammenti, atti riflessi; chi dice sintesi è già spezzato». Una volta abolito il cogito, più che dubbia, la coesione della personalità è illusoria, per cui il soggetto novecentesco va incontro a «una consapevole scissione della personalità, sistematica e tendenziosa».

Se anche David Lynch non avesse mai letto una pagina di Benn (eppure tante poesie di Morgue sembrano trasposte nella sua cinematografia necroscopica, sin dal cortometraggio giovanile The Amputee), non credo sia facile trovare, seppur per caso, un corrispettivo verbale altrettanto aderente a Lost Highway, film che nel 1997 chiuse il secolo della doppia vita declinandola in forma di enigma del desiderio e della violenza. Tornato in questi giorni al cinema nell’edizione restaurata da Criterion Channel e distribuita dalla Cineteca di Bologna, il settimo lungometraggio di Lynch effettivamente impiega, anzi esaspera gli apparati figurativi del noir e la grammatica del mystery, stereotipi compresi, per mettere in scena un processo di sdoppiamento consapevole, sistematico e tendenzioso. Con la differenza che la scissione non interessa solo la personalità del protagonista, divisa tra il sassofonista Fred Madison (Bill Pullman) e il meccanico Pete Dayton (Balthazar Getty), bensì l’intero film, cui viene attribuita una sorta di volontà schizoide: dopo il brutale omicidio della moglie di Fred, Renée (Patricia Arquette), la presunta realtà oggettiva sembra duplicarsi in un’altra dimensione orientata a contraddire la precedente, dove Pete intrattiene una torbida relazione con Alice Wakefield – se il nome è carroliano il cognome viene da un racconto di Hawthorne che ha molto in comune con Lost Highway – una donna identica a Renée tranne che per il colore dei capelli (siamo dalle parti di Vertigo, certamente, ma Arquette bionda è anzitutto un clone demoniaco della già fatalissima Barbara Stanwyck in Double Indemnity); e ovunque lo spettatore può riconoscere frammenti (dialoghi, oggetti, volti) già apparsi nella prima metà del film, ovunque crede di scoprire atti riflessi dei personaggi (spesso alla lettera, considerata la presenza ossessiva di specchi), anche grazie a un montaggio fatto soprattutto di lunghe, spudorate dissolvenze e assolvenze.

Ma si tratta appunto di un mondo dove tutti vivono qualcosa di diverso da ciò che sono, sia quando crediamo di assistere alla “storia vera” (Fred e Renée) sia al suo rovescio allucinatorio (Pete e Alice), perché il delirio paranoico del protagonista, indotto piuttosto che rappresentato dal film, è già cominciato all’altezza dei titoli di testa e prosegue oltre i titoli di coda, come segnalano anche le interferenze luminose e il sonoro infestante che espandono al di là dello schermo il theatrum mentis di Fred/Pete, deformandolo nei termini dell’espressionismo soffocato sperimentato da Lynch in The GrandmotherBlue Velvet e poi Mulholland Drive. Ancora Benn, quasi al termine di Doppelleben: «Le cose della mente sono irreversibili, vanno avanti sino alla fine, sino alla fine della notte, hanno una veemenza che supera quella delle cose fisiche». In una Los Angeles per niente iconica in cui nessuno mangia mai e le funzioni fisiologiche dei personaggi si riducono a una sessualità ubiqua e perversa, non c’è distinzione psichica tra la crisi di una coppia che riceve anonime videocassette misteriose e la rischiosa love story tra un giovane scavezzacollo e la pupa platinata di un gangster che pare uscita da un couple-on-the-run di fine anni Quaranta (They Live by Night di Nick Ray docet) girato sotto acido. Nessuna è strettamente reale e nessuna puramente immaginaria, perché entrambe accadono in un tempo disarticolato da questo filtro metafilmico e sono riverberi della follia intrinseca alla pellicola, di cui è metafora la fuga notturna lungo la route desertica che vediamo all’inizio, a metà – durante la «zona di mutazione» (sempre Benn) carceraria – e alla fine.

In esergo alla sceneggiatura scritta insieme a Barry Gifford, autore del romanzo da cui è tratto Wild at Heart nonché sceneggiatore di due dei tre episodi di Hotel Room, misconosciuta serie creata da Lynch per HBO nel ’92 che anticipa le atmosfere di Lost Highway, il regista ha collocato una quadruplice definizione per il film:

A 21st Century Noir Horror Film.
A graphic investigation into parallel identity crises.
A world where time is dangerously out of control.
A terrifying ride down the lost highway.

A differenza dei traduttori italiani dello script, che rendono “graphic investigation” con “vivida descrizione”, sarei propenso a mantenere l’ambiguità della locuzione. In quanto indagine cruda e grafica a un tempo e, quindi, al limite dell’astrazione emotiva che caratterizza il cinema lynchiano da Eraserhead Inland EmpireLost Highway funziona come quella corsa irreversibile, un viaggio di sola andata sino alla fine della notte, rigorosamente in soggettiva: le due vicende corrono parallele come le corsie di asfalto antracite, la linea di mezzeria gialla rappresenta i momenti (discontinui, continui, doppi come quella) in cui le metà coincidono e si confondono, i fari (o gli occhi di chi guida?) eguagliano la macchina da presa che rende visibile tutto questo, o lascia che venga inghiottito dall’oscurità. Eppure quella linea gialla vacilla violentemente, per il movimento frenetico della macchina si scinde in segmenti simili ma non uguali, uno diventa l’ombra dell’altro e subito si scambiano le reciproche posizioni nella “strada perduta”, ovvero nel diagramma instabile che (non) sintetizza il deragliamento erotico del soggetto maschile. Il Malone di Beckett lo avrebbe chiamato «uno sfasamento promettente».

Qui, tuttavia, ogni promessa è una minaccia. Così il film è strutturato intorno alle asimmetrie visive e uditive – Asymmetrical è il nome della casa di produzione di Lynch – e alle corrispondenze mancate che gradualmente minano l’isomorfismo tra le due versioni del reale simulato dalla mente del protagonista, e difatti ne rovinano le immagini, coi fotogrammi sempre più tremolanti, sovraesposti, distorti, mentre i piani americani dei corpi nudi e i mezzi busti insanguinati paiono reminiscenze della pittura di Kokoschka, con cui Lynch, neanche ventenne, avrebbe voluto studiare. I primissimi piani dei dettagli corporali, prima in luce poi in ombra; il ruolo delle VHS, da riprese di esterni e interni di casa Madison a tape porno clandestini; gli scambi tra Fred e Renée e poi Pete e Alice riguardo ad Andy; la doppia conversazione telefonica con Mistery Man; quel che accade nella camera 26 del Lost Highway Hotel; il fumo e il fuoco della cabina in fiamme che già compaiono separatamente nel salotto dei Madison – tutti questi elementi appaiono in due occasioni distinte ma mai in una formula speculare, perché, come la linea gialla che taglia in verticale la prima e l’ultima inquadratura, vengono invece sfalsati dall’incapacità dell’io di mantenere il controllo sul proprio morboso tentativo di rivivere fuori dalla temporalità un passato di sospetti, tradimenti e delitti. La coscienza in dissoluzione di Fred/Pete invade contemporaneamente entrambe le corsie della strada (all’inizio e alla fine del film è sia all’interno sia all’esterno di casa sua, la sua voce sia in campo sia fuoricampo, ma la si sente alterata), e sarà la strada stessa – l’immagine-movimento – a far credere a lui e a noi che persino la facciata e il mobilio di casa sua (l’edificio, progettato da Lloyd Wright, è di proprietà di Lynch e si trova a pochi metri dalla sua villa sulle Hollywood Hills) sono asimmetrici, che persino la sua ombra si sdoppia prima di uccidere Renée.

Immagine 1: “Strade perdute” di David Lynch
Immagine 2: “Strade perdute” di David Lynch

Le asimmetrie, su tutte la tinta della capigliatura di René/Alice, sono indizi dello sfasamento temporale e della scissione identitaria che la logica deviante, maniacale del film stesso impone ai ricordi paralleli di Fred/Pete, i quali, avvicinandosi troppo all’incandescenza di un passato inaccettabile (l’incendio della cabina, la scena in rosso della camera 26), finiscono per mutarsi in registrazioni oniriche di fatti traumatici. In quest’ottica Mistery Man altro non è che la maschera fantasmatica della memoria individuale: quanto più il protagonista la rifiuta, sostenendo di non riconoscere l’uomo senza nome, tanto più essa lo assedia spiandolo e filmandolo (nastri e schermi sono manifestazioni del rimosso), oltre che assistendolo nell’omicidio di Dick Laurent/Mr. Eddy. Allora magari ogni evento del film si svolge (e per la sequenza del citofono si riavvolge) nell’intervallo tra l’ultimo sparo e il momento in cui la pallottola raggiunge quella vittima designata, come ne Les gommes di Robbe-Grillet o nel pinku eiga d’avanguardia Inflatable Sex Dolls of the Wasteland di Atsushi Yamatoya.

Lost Highway è la memoria infedele di un incubo o un sogno fatto da morti, uno scacco psicagogico e una catabasi lisergica dove l’inferno è un passato eternamente sfuggente ed Euridice si rifiuta di tornare di tornare indietro con Orfeo – praticamente Out of the Past di Jacques Tourneur se fosse un libro delle Metamorfosi ovidiane tradotto da Burroughs. Forse ora esagero. D’altra parte, con involontaria perspicacia, la Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana ha giudicato il film «farneticante e inaccettabile»: proprio come risulterebbe la vita interiore di ciascuno di noi – quell’“impero della mente” osceno e inquietante che ci illudiamo di poter sottomettere alla logica del quotidiano, alla biologia condivisa, ed è l’incubatore del cinema di Lynch – se potesse all’improvviso prendere corpo davanti agli occhi degli altri. Che è poi esattamente quel che succede ogni volta che le luci in sala si spengono e torna il buio.