In un’intervista pubblicata su “Singola”, firmata da Jacopo La Forgia, a Laura Pugno viene chiesto quale sia il ruolo del fantastico, sia nella scrittura dell’autrice che nella letteratura contemporanea. Una parte della risposta è emblematica dell’idea che ha Pugno riguardo il dialogo tra reale e irreale. La stessa apre uno spiraglio nel dibattito più ampio sulla modalità con la quale la letteratura contemporanea si pone nei confronti del fantastico.

“Per me reale e realismo, immaginario e fantastico, sono in un continuum, non in opposizione o in reciproca esclusione, come molta parte della riflessione sulla letteratura italiana contemporanea tende a pensarli. In un certo senso, è una forma di pensiero immanente, che vede gli altri mondi in questo mondo, se vogliamo”.

Bisognerebbe aprire una digressione su ciò che potrebbe voler dire “reale”, aprendo ulteriori parentesi su come il concetto cambi e si relazioni alle diverse influenze letterarie. Ma ipotizzando che di per sé una realtà, univoca e solida, addirittura oggettiva, non esista, come bisogna considerare il continuum con l’irreale? Lo sfondamento di trincea da parte dell’altrove è una semplice commistione di percezioni? E se sì, attraverso quali processi e in che modo?

La risposta anche alla fine di questo articolo potrebbe non arrivare, e potrebbe non essere nemmeno necessaria. Il nocciolo della questione è capire come un ipotetico concetto generale di “reale” venga espresso in relazione al fantastico nella produzione letteraria di Laura Pugno e come tale connessione possa essere spunto di riflessione più ampio.

La produzione di Laura Pugno offre un’ampia scelta di titoli da analizzare a favore di questa visione. Cercando di stringere il campo di indagine, Quando verrai, edito da minimumfax nel 2009, può fornire un apporto iniziale alla discussione.

La storia è quella di Eva, una ragazza cresciuta senza padre che vive in una roulotte parcheggiata in una periferia non identificata di una città senza nome assieme alla madre Leila e il nuovo compagno Stasi. Eva vive in un mondo al margine, tra ambulanti e immigrati clandestini, in una realtà precaria quanto dolorosamente attuale.

Eva è coperta da macchie cutanee particolarmente vistose, dalle cause sconosciute. Verrà a contatto con uno sconosciuto, che prima la rapirà da piccola e poi ritornerà a salvarla da adolescente, anch’egli ricoperto dalle stesse macchie.

Tali eruzioni cutanee spingeranno Eva e l’uomo a muoversi all’interno della narrazione. Le stesse donano a entrambi il potere di vedere la morte di chi le sfiora. Una divinazione cutanea che è il simbolo della presenza dell’irreale all’interno del reale. Sono limite e varco.  

Gli scritti narrativi di Pugno sono particolarmente pregnanti, al netto del cambio di topoi e di direzione di ricerca, perché quasi tutti ospitano un contagio irreale. Più precisamente uno slittamento di centralità: il movimento è sempre diretto verso l’esterno.

Questa esternalità si caratterizza spesso come sconosciuta o particolarmente ostica ed esotica (anche quando è situata nel passato, ma vivida nel presente, come in Antartide, minimumfax, 2011). Ancora più netta tale divisione si evince negli esordi della produzione di Pugno. Lì il rapporto tra irreale e reale è capovolto, se non del tutto mescolato. Faccio riferimento a Sirene, edito da Marsilio nel 2007.

La storia è quella di Samuel, sorvegliante di una vasca di sirene, destinate alla produzione della «carne di mare». Una supply chain tutta controllata dalla yakuza, in un mondo vicinissimo al collasso, sul quale troneggia un sole malato che induce la pelle degli abitanti a sclerotizzarsi in macchie nere (collegamento curioso, che in altra sede andrebbe approfondito), sintomo del cancro nero. Il sorvegliante si unisce con una sirena, nello struggente ricordo della compagna morta, e da questa unione nasce Mia: per metà umana e per metà sirena.

Il cosmo in cui opera questa narrazione non è percepito realisticamente (benché la pandemia di cancro nero faccia riecheggiare eventi storici al lettore piuttosto vicini, ma lontani all’autrice che scriveva l’opera a inizio del millennio).

In Sirene il rapporto è invertito e sembrerebbe il reale a subentrare nell’irreale. In realtà, le due dimensioni dialogano in un rapporto simbiotico, di dipendenza e sussistenza. La percezione reale dei rapporti umani (lo struggimento per una perdita, l’amore eclettico e “polytropos” direbbe Aristotele) conversa con le onde dell’irrealtà (l’esistenza delle sirene, l’epidemia di cancro nero, l’azione aggressiva e mortale del sole), dimostrando in modo chiaro come le due parti non operino “in opposizione o in reciproca esclusione”, ma piuttosto di vicendevole inclusione.

Tale concezione è esplicitata più chiaramente in In territorio selvaggio, piccolo pamphlet dell’autrice, edito da Nottetempo nel 2018, per la collana Gransassi. L’opera è uno snello commentario, formato da appunti e riflessioni che fanno emergere la ricerca letteraria alla base della produzione narrativa della Pugno fino ad oggi.

“Il selvaggio è deciso da noi, non esiste in natura, si crea nel momento in cui chiudiamo la porta di casa, definiamo un dentro e un fuori”

Il selvaggio si produce per differenziazione. Ciò che definiamo come reale, produce un resto: l’irreale. Se è vero che esiste il primo, va da sé considerare come esistente anche il secondo. Il confine funge da sbarramento e da traduttore; aprire all’irreale e al selvaggio significa assottigliare i limiti.

La riflessione dell’autrice precipita in avvallamenti scuri, tra anfratti nei quali la mente va a ritroso, graffia, scava, cerca; finché a metà trattazione una considerazione appare chiara:

“Eppure, giardino o bosco o deserto, siamo sempre nella storia. Tutto si sta sempre trasformando in qualcos’altro, e non c’è fine”.

Un concetto che ricorda l’entropia, l’eterno cambiamento, il continuo modificarsi della materia. L’irreale anche come metamorfosi, quindi, o come ritorno temporale: irruzione del futuro sul presente. Si potrebbe considerare come ciò che sarà ma manifestatosi in anticipo. L’uomo è una innegabile antenna perché, continua Pugno:

“Siamo animali che conoscono per differenza, che riconoscono il rosso, in mezzo al verde dell’intorno”.

Importante poi notare come in ognuna delle opere qui citate la natura si ponga come il foro attraverso il quale respira il mondo esteriore. Le macchie cutanee, il mare, il bosco, i ghiacci, il regno animale. L’incursione naturale appare, ancor meglio nel dialogo con il selvaggio, come la possibilità ontologica del passaggio e dello slittamento del reale.

Ancestrale luogo dell’extra-umano, la natura resta la dimora dell’altrove e dello sconosciuto, anche se l’uomo ne sta corrodendo il perimetro. In questo quadro, essa, possibilmente esclusa dalla presenza umana (che deve rimanere limitrofa, periferica, osservatrice; quindi, in un ideale terzo paesaggio ipotizzato da Gilles Clément e ripreso dalla stessa Pugno nel libello), si pone come varco attraverso il quale percepire l’afflato di altri mondi e l’inconsistenza del nostro. In quest’ottica, la letteratura si offre come luogo di confronto, confermandosi strumento e testimone della non unicità.

Ammettendo che l’irreale sia un costrutto umano, rimane valida la domanda che si pone l’autrice. “Se smetti di crearlo, cosa accade?”.