Nel suo libro Eccessi d’autore, Filippo Pennacchio argomenta che nella letteratura italiana contemporanea si stia verificando un vistoso recupero del ruolo dell’autore all’interno delle narrazioni. Sintetizzando molto il discorso di Pennacchio, gli autori tendono a massimizzare la loro presenza nel testo, privilegiando una direzione inversa alla tecnica della sparizione dell’autore tanto cara alle varie poetiche realiste che si sono succedute nel corso dei secoli. Fra gli autori di cui tratta Pennacchio rientra Albinati: nella Scuola cattolica, infatti, è rintracciabile un andamento simil-saggistico che ostacola la narrazione, dilatandone i tempi; al tempo stesso, il saggismo di Albinati è «degradato, spesso ridondante»; «un miscuglio di luoghi comuni, una specie di parafrasi all’impronta di una pagina Wikipedia». Pennacchio conclude dunque che La scuola cattolica è «un romanzo-saggio, aggiornato all’epoca dei social network: essendo i social network lo spazio in cui tipicamente pensieri alti e bassi, massime esistenziali o para-esistenziali e inezie infraordinarie, lacerti di discorsi altrui e frammenti di vita “vera” si susseguono in modo asistematico». Perdonerete questo incipit così teorico: ma trovandomi di fronte alla caratteristica principale del terzo romanzo di Sally Rooney, Dove sei, mondo bello (Einaudi), ho immediatamente ripensato a queste parole. La caratteristica cui mi riferisco, avrete avuto modo di leggerlo fino allo sfinimento nelle recensioni dedicate al libro, è la sua natura per metà epistolare: le lunghe mail che Alice ed Eileen si scambiano sono – per l’appunto – rimaneggiamenti di Wikipedia, racconti di vita vissuta, riflessioni estemporanee sul capitalismo, sul cambiamento climatico, sul destino della civiltà umana. Una delle critiche più frequenti alle mail, oltre alla loro pretenziosità, è quella che vorrebbe questi scambi come deleteri per la credibilità dei personaggi. Quando Alice ed Eileen si scrivono – dicono molti recensori di Rooney – la sospensione dell’incredulità viene meno, e diventa faticoso ritenerle persone “vere”.

In questo caso, però, la questione risiede più in ciò che noi ci aspettiamo di trovare in un libro di Sally Rooney, che in un difetto del libro. Parlarne tra amici e Persone normali, infatti, erano due romanzi perfettamente condotti secondo il criterio dello show don’t tell; la materia narrativa sembrava persino fin troppo “freddamente” risolta. E d’altronde, l’altro tratto saliente della scrittura di Rooney, ovvero la fittezza dei dialoghi, è presente anche qui, che sia negli sfoghi di Eileen con Simon o nei botta e risposta fra Alice e Felix. Il fatto è che a quanto pare non è perdonabile a Rooney l’idea che si sia ritagliata, all’interno di questo romanzo, dei momenti per lasciarsi andare a questi effluvi di riflessione; non è concepibile che un’autrice di romanzi “ben fatti” possa gettare la maschera così facilmente e lasciar capire che Eileen e Alice non esistono, che si tratta solo di due modalità della sua voce. E dire che, tra l’altro, l’eccesso d’autrice a cui Rooney si abbandona qui non è nemmeno soverchiante come in altri generi, è anzi circoscritto; le mail stesse sono giustificate all’interno della storia raccontata dalla distanza che separa le due protagoniste, ed in ogni caso Rooney delega ai suoi due personaggi la facoltà di parlare. Insomma, di fronte all’io-monstre di un genere come l’autofiction, l’io che traspare da queste mail è ben poca cosa: però tanto è bastato per renderle insopportabili. Come mai?

Dove sei, mondo bello racconta le vicende sentimentali di due amiche, Alice ed Eileen. La prima è una scrittrice milionaria che decide di tornare a vivere a Dublino e lì conosce – su Tinder – Felix, un operaio; la seconda è invece un’intellettuale precaria, innamorata da sempre di Simon, un amico di famiglia impegnato in politica in un partito di sinistra. Le due amiche si aggiornano sulle proprie vite tramite uno scambio di mail, fino all’incontro delle due coppie nella parte finale del romanzo.

Si può obiettare che sia un problema squisitamente tecnico, che investe il piano della resa formale: queste mail ostacolano la lettura, interrompono l’azione, sembrano dei veri “intoppi”, come se Rooney fosse indecisa sulla forma da dare al suo romanzo. Può essere che sia così, ma in questo caso: perché ad Albinati, ad esempio, concediamo una struttura ondivaga e respingente, formalmente impura, e a Rooney no? Credo che la questione abbia molto più a che fare con l’orizzonte d’attesa che circonda questa scrittrice, e non solo a partire dai suoi romanzi precedenti, ma anche a causa del livello di celebrità che ha raggiunto. Cosa, quest’ultima, che lei stessa tematizza nel libro, utilizzando in questo modo il personaggio di Alice. Le riflessioni delle due protagoniste aprono una crepa non solo nel realismo del romanzo, ma sembrano sollevare una questione più generale legata alla legittimità della voce autoriale. Se nel libro di Pennacchio, infatti, gli eccessi d’autore erano tutti imputabili a maschi bianchi per lo più eterosessuali (con la sola eccezione di Siti), qui l’eccesso d’autrice, sviato e “rinchiuso” nella forma del romanzo parzialmente epistolare, appartiene a una scrittrice di coordinate sociali del tutto differenti. Di conseguenza, mi sembra più fertile rovesciare la domanda, non chiedersi perché Rooney abbia sentito l’esigenza di inserire questo pseudo-saggismo nel suo romanzo, ma perché abbia avvertito il bisogno di circoscriverlo e limitarlo.

Prima di rispondere a questa domanda, facciamo un salto in avanti. Il romanzo termina con due mail di Alice e Eileen, in cui si raccontano quello che è successo loro nelle ultime settimane, il tutto diciotto mesi dopo il loro ultimo incontro. Queste due mail, in realtà, appaiono più come una sorta di appendice, hanno quasi la funzione di titoli di coda; il romanzo tradizionale vero e proprio, quello per cui è usata, per intenderci, la voce narrante in terza persona, termina col terz’ultimo capitolo. E questo finale è decisamente anticlimatico: il litigio fra Eileen e Alice si risolve in un nulla di fatto, è poco più che una sfuriata, e le due fanno subito pace piangendo. Questo schema è rintracciabile in altre narrazioni con protagoniste simili ai due personaggi di Rooney: in Shiva Baby (2020), film di Emma Seligman, l’enorme pressione sociale che si accumula per un’ora e mezza sulla protagonista Danielle culmina in una crisi di pianto isterica, subito minimizzata dai genitori della ragazza che la consolano come fosse una bambina; in Fleabag (2016-2019) la possibile risoluzione finale più drammaticamente forte viene scartata, e il prete cattolico di cui la protagonista si innamora decide di non lasciare il sacerdozio per lei. La scelta di finali anticlimatici, in cui improvvisamente la tensione narrativa dei rapporti interpersonali descritti si scarica in eventi minimi e banali, sembra essere un tratto comune di queste storie, come se le giovani protagoniste non fossero in grado di produrre nemmeno accadimenti particolarmente drammatici.

Credo che questo stratagemma narrativo sia in aperta tensione formale con la questione delle mail saggistiche, perché porta sul piano della struttura della narrazione, e quindi al massimo livello di rottura, la dicotomia di una generazione altamente istruita e contemporaneamente, nella percezione generale, emotivamente irrisolta. Questo meccanismo di coabitazione schizofrenica fra un senso di superiorità culturale e una sensazione di inadeguatezza sentimentale è riprodotto esattamente in queste mail, in cui Alice e Eileen passano dal discutere del sistema capitalista globale al lamentarsi dell’impellente ticchettio dell’orologio biologico. D’altronde, la pretenziosità delle mail è perfettamente giustificabile proprio da questo contrasto: Eileen e Alice si ritrovano a essere altamente istruite – e a non sapere che farsene di questa istruzione, sia su un piano strettamente individuale, sia sul piano pubblico: a un certo punto, ricordando le istanze che le animavano al college, Eileen scrive ad Alice:

Le idee erano giuste, ma l’errore era credere che noi contassimo qualcosa. Be’, quell’errore, nello specifico e in modi diversi, è stato estirpato a entrambe noi – a me, non raggiungendo il benché minimo risultato in oltre un decennio di vita adulta e a te (mi perdonerai) raggiungendo tutto quello che si poteva raggiungere senza per questo ostacolare di un battito il funzionamento fluido del sistema capitalista.

È possibile che a un certo punto della scrittura, Rooney abbia ritenuto di aver individuato un punto così cruciale nella vita dei giovani adulti che abbia deciso di metterlo in scena senza curare del tutto la verosimiglianza dei personaggi che lo incarnano: di qui la presenza delle mail, in cui la voce autoriale soppianta la narrazione, come teorizza Pennacchio, richiamato all’inizio di questa riflessione. Il senso di fallimento esistenziale ed epocale pervade le giovani vite dei protagonisti di questo romanzo, rendendoli incapaci di dialogare fra loro: il culmine di ciò, il loro incontro nel finale, come ho già scritto, si risolve in un litigio piuttosto patetico; più significativamente, per Eileen il simbolo della sua disfatta in questo senso è il saggio su Natalia Ginzburg mai pubblicato. Trovo importante il riferimento alla scrittrice italiana, perché per Rooney non si tratta né di un omaggio, né di un riferimento estetico, ma più propriamente di un faro morale: nel suo articolo pubblicato su «The Guardian» in cui presenta la traduzione inglese di Tutti i nostri ieri, Rooney scrive che

«Ginzburg’s work is concerned, it seems to me more than anything, with the distinction between what is right and what is wrong. […] In other words, it poses two questions of equal significance. Firstly, how do we know what is right? And secondly, how can we live by that knowledge?».

Lo stesso interrogativo anima le discussioni fra i protagonisti di Dove sei, mondo bello; in particolare, la figura di Simon, cattolico, è tormentata proprio dal contrasto fra il suo desiderio e la morale cattolica. In uno dei loro primi incontri, Felix nota malignamente: «È questo il tuo problema, disse, sei così severo con te stesso perché non assomigli abbastanza a Gesù. Dovresti fare come me, essere una semplice testa di cazzo e goderti la vita». Ma farlo risulta impossibile per larga parte del romanzo: se l’esempio di Gesù è inarrivabile per chi crede e anacronistico per chi non crede, persino la «moral clarity» di Ginzburg sembra difficile da perseguire con determinazione, in un contesto di collasso sociale, politico e ambientale, e, nel privato, di sradicamento e allontanamento dall’ultima generazione con dei principi, sbagliati senz’altro, ma perlomeno fermi: così Alice parla del distacco dai suoi genitori:

[e se] la mia fissa di sapere tutto sulle registrazioni jazz e il vino rosso e i mobili danesi, perfino su Keats e Shakespeare e James Baldwin, non fosse altro che una forma di vanità o, peggio ancora, una benda sulla ferita primigenia delle mie origini? Ho scavato tra me e i miei genitori un tale abisso di sofisticheria che per loro toccarmi o raggiungermi è ormai del tutto impossibile. E mi volto a guardare oltre questo abisso non con un senso di colpa o di perdita, ma con sollievo e soddisfazione. Sono meglio di loro? No di certo, anche se forse sono più fortunata.

L’«abisso di sofisticheria» è esattamente il limbo in cui i personaggi del romanzo si ritrovano, o almeno tre di loro; ne sfugge forse Felix, il proletario, probabilmente il personaggio meno riuscito, ma sulla difficoltà di Rooney di ritrarre un personaggio non appartenente al mondo dell’alta cultura si potrebbe scrivere un altro articolo. Mi limiterò qui a suggerire che uno dei motori narrativi dei personaggi di Rooney, che accomuna i tre romanzi, è il nesso tra intelligenza e tristezza: è come se i personaggi di Rooney non possano essere intelligenti senza essere tristi, o più precisamente è come se la tristezza fosse l’unica applicazione possibile dell’intelligenza. Felix non rientra in questo discorso, di qui forse l’imbarazzo di Rooney nell’utilizzarlo come personaggio.

Nell’appendice finale, Alice ed Eileen si scoprono richiuse nel privato, anche e soprattutto come reazione alla pandemia, che entra in scena nelle ultime pagine. Eileen è incinta, e ha deciso di tenere il bambino: con un ragionamento un po’ sofista sostiene che sarebbe più egoista e deprimente scegliere di non avere figli per paura del cambiamento climatico. È un nodo complesso, ma sembra indicarci la soluzione (almeno temporanea) al problema della forza morale in Sally Rooney: per ritrovare riferimenti e stimoli ad agire bene nel mondo, è necessario rivolgersi agli istinti base dell’animo umano, cioè l’amore verso un/una partner ed eventuali figli/figlie. Non credo che nelle intenzioni di Rooney rientrasse scrivere un elogio della famiglia, sia chiaro; ritengo fosse piuttosto interessata a rappresentare il bisogno di ritrovare nel privato quella spinta morale da riutilizzare nel pubblico, sebbene l’irresolutezza emotiva dei suoi personaggi non faccia che confermare categorie sociali già in vigore, come ben argomenta Sofia Torre su «Gua Sha» n. 11, a partire dall’analisi delle scene erotiche del libro. Il rapporto tra pubblico e privato è alla base di tutta la letteratura più morale, e quella di Rooney non fa eccezione, sebbene sembri del tutto sbilanciata a favore del secondo: e riesce davvero difficile credere alla risoluzione del dilemma proposto nelle ultime pagine, se non altro perché pare facile rovesciarlo utilizzando le parole di Bo Burnham, altro cantore della disperazione millennial, che in Inside (2021) ha trasformato il lockdown in un simbolo della resa alla depressione e della sconfitta personale e politica: «You say the ocean’s rising like I give a shit, you say the whole world’s ending, honey it already did. You’re not gonna slow it, heaven knows you tried: got it? Good, now get inside». Ecco, a ciò è imputabile il senso di totale disillusione dei personaggi di Rooney: anche loro, sia pur non del tutto consapevolmente, sono “rientrati in casa”.

Dove sei, mondo bello è probabilmente un libro scostante, altalenante dal punto di vista letterario; l’alternarsi di narrazione in terza persona e di lettere in prima persona rende la lettura non del tutto agevole e i personaggi risultano talvolta pretenziosi e fin troppo sofisticati. Nell’«abisso di sofisticheria» in cui siamo risucchiati, però, è difficile non scorgere i nostri errori e le nostre bassezze e i problemi che ci incalzano e ci costringono a fare i conti con l’assenza totale dell’ipotesi che il mondo possa essere bello.


Sally Rooney, Dove sei mondo bello, trad. M. Balmelli, Einaudi, Torino 2022, 312 pp. 20€