Qualche tempo fa mi sono ritrovato a guardare un documentario in cui si mostrava come perfino i grandi squali bianchi fossero di recente diventati preda delle orche, che li speronano per rovesciarli, provocando in essi uno stato catatonico che li rende inoffensivi. A quel punto, l’orca strappa il fegato allo squalo con precisione chirurgica, lasciando alle acque il resto. Cosa mi ha portato a questo video? E cosa ha portato l’io confessionale del compianto Carlo Bordini a un video analogo in cui un serpente «divorava una piccola scimmia» nei versi programmaticamente pòsti in epigrafe a questo notevole esordio di Riccardo Innocenti, Lacrime di babirussa (NEM 2022)? E perché l’io messo in scena da Guido Mazzoni si ostina a guardare un video in cui l’Isis decapita sedici soldati siriani («è un video orribile. È un video molto bello», La pura superficie, Donzelli, 2017)? E ancora, cosa ha spinto un poeta coetaneo di Riccardo Innocenti, Riccardo Socci, a scrivere di due che guardano «il video di un uomo | obeso che si ingozza» (Lo stato della materia, Arcipelago Itaca, 2020)?

Un individuo che si pensasse in rapporto salutare con il proprio habitat, orientato a una finalità, tenterebbe di minimizzare l’accaduto, per esempio convincendosi che sia stata una curiosità intellettuale a muoverlo, lo sforzo di allargare le proprie conoscenze ad ambiti extra-letterari. Ma si tratterebbe di un’illusione: richiamando prima la mia stessa esperienza, ho scritto «mi sono ritrovato» non tanto o non solo per distanziarmi da un’ammissione vergognosa, quanto per alludere al fatto che una forza impersonale mi avesse sedotto in quella zona della rete, in un periodo di ridotta scommessa nei confronti del mondo. C’è in effetti qualcosa non solo di morboso, ma anche di pornografico in questi video violenti; essi si prestano a una forma di contemplazione che può farsi estetica, cioè autotelica, come uno sprofondo nell’orrido che può riuscire assolutorio o escapista. Oppure, o anche, trascendersi in una riflessione etica sul contemporaneo – dalle risonanze cupe, certo, che rasentano la disperazione e la furia nichilista – come avviene in La pura superficie e anche in questo Lacrime di Babirussa.

Si prenda a titolo d’esempio la poesia senza titolo che inizia «Gli piacciono i documentari violenti» (p. 15). Oltre all’aspetto morboso-pornografico («si scusa se lei gli chiede di togliere | il video delle formiche che smembrano | altri insetti, mentre fanno colazione») ve n’è uno di catarsi al negativo: versi come «lo fa stare bene | vedere che la natura è una merda» espongono una magra (e anche finta) consolazione, non lontana da quella intercettata dal detto “mal comune mezzo gaudio”. Lo sguardo è deformato da un filtro tecnologico iper-antropocentrico attraverso il quale la danza degli uccelli del paradiso è assimilata a quella degli «esseri umani nei video di TikTok». L’effetto è potentemente antilirico, anticlimatico (si pensi, per contrasto, all’effetto comico-nobilitante che avrebbe ottenuto la similitudine se comparato e comparante fossero stati invertiti nell’ordine). Il virtuale, il mediato da schermi intacca e corrompe il naturale; l’iconosfera – una semiosfera impoverita – ha colonizzato, insieme allo sguardo, la stessa biosfera. E infatti, nella seconda parte della poesia, si assiste a una sorta di ecfrasi nozionale (cioè che non rimanda a un’opera esistente ma ne costruisce una fittizia; mutuo il concetto da Hollander[1]) con al centro la macellazione in presa diretta del maiale («è stato normale | fare a pezzi quel corpo e mangiarlo»; si confronti, per inciso, questa scena grandguignolesca con le istruzioni di uccisione del coniglio in Scurau, di Giuseppe Nibali, uscito per Arcipelago Itaca nel 2021). Altre volte l’animale in funzione di cavia impartisce lezioni (a)morali tramite la sperimentazione scientifica, come nella bellissima Con tutto quel desiderio (pp. 22-23): vi si parla dell’effetto Coolidge, che descrive il fenomeno in cui un topo maschio accresce il suo vigore sessuale solo a patto di accoppiarsi con femmine sempre diverse:

Se per esperimento decidessimo
di mettere un topo in una piccola gabbia
insieme a una femmina fertile, i due
inizierebbero presto ad accoppiarsi.
Poi, con il passare del tempo, il topo
maschio si stancherebbe della femmina
e anche se lei fosse sempre ben disposta
la sua erezione diminuirebbe progressivamente
impiegherebbe più tempo a eiaculare
un volume minore di sperma.

È naturale, si chiama effetto Coolidge.
In seguito, se si sostituisse la prima femmina
mettendo nella gabbia un’altra femmina
ben disposta, il topo sarebbe subito rinvigorito
con nuova motivazione riprenderebbe i suoi assalti.
Ripetendo la sostituzione con una serie
potenzialmente infinita di nuove femmine
allo stesso modo continuerebbero gli amplessi
fino a quando il topo maschio non cadrebbe esausto.
È del tutto naturale, i geni vogliono farsi strada
trovare posto nel futuro.

Così anche oggi, come ogni altro giorno
lo sguardo ostinato entrerà nei miei schermi
per sfiorare nuove immagini. È il desiderio
che esce dalla tana e cerca a lungo un posto caldo
dove potersi squagliare. Anche tu, come noi
non puoi evitarlo e come gli altri non sai
di chi è la colpa. Guarda, al centro della stanza
ho costruito, con tutto quel desiderio
una piccola gabbia.

Il giogo del desiderio, dei geni che «vogliono farsi strada, trovare posto nel futuro» è lo stesso dell’io, schiavo delle pulsioni, in un presente di stimoli a breve e brevissimo termine senza possibilità di trascendenza culturale, cioè di emancipazione metafisica dalla coazione a ripetere, dalla trappola della propria fatticità. Non è inoltre causale che sia proprio il maschio, e il punto di vista maschile in generale, a essere esposto e tematizzato, qui come altrove nel libro: come nota Jessy Simonini in sede di postfazione, «appare infatti evidente come la questione del maschile, un maschile che mi sembra sia costantemente messo in crisi o perlomeno in discussione dal dispositivo poetico, sia un elemento cruciale per interpretare la poesia di Innocenti nel suo complesso» (p. 76). Uno degli aspetti che rendono particolarmente riuscito un testo come questo è il suo transitare con spiazzante naturalezza da un tono saggistico che ne percorre circa i due terzi (e che mi ha ricordato Nervo vago, di Carmen Gallo, in Le fuggitive, Aragno 2020: «secondo alcuni esperimenti, un neonato che osservi il volto inespressivo di sua madre…»), a uno lirico-confessionale nella strofa conclusiva, con tanto di «tu» e imperativo esortativo a riscaldare il timbro e avvicinare il lettore in uno spazio intimo, ancorché inquietante. A rendere fluida tale transizione contribuiscono sia la coesione tematica e figurale tra le parti, con «il desiderio | che esce dalla tana» proprio come farebbe un piccolo mammifero, sia lo stile, che lessicalmente e sintatticamente si attiene al rasoterra discorsivo: per urgenza etica di chiarezza, di soppressione certosina e quasi masochistica dell’individualismo e dei suoi portati espressivisti, collocandosi in una posizione ben delineata da Stefano Dal Bianco nel saggio Lo stile classico (ora in Distratti dal silenzio, Quodlibet 2019). L’io non è insomma meno cavia rispetto al topo, ma la gabbia che si è costruito è l’esito di un mancato progetto: più che una proiezione intenzionale ricorda una concrezione naturale, o l’acquisizione di un habitus ormai indistinguibile dal proprio sé.

Proprio la gabbia – insieme a termini che la implicano fortemente, quali «ostaggio», «trappola», «schiavo», «schiavitù»– è il centro vuoto e l’asse esistenziale del libro: nonostante la presenza di esterni, esplicita in Anne Geddes o nel Trittico di Sharm, ci si muove in un orizzonte claustrofobico, che appare condiviso e variamente rappresentato da un’intera generazione: penso agli spazi ristretti del poemetto Le fuggitive, di Carmen Gallo; a titoli come 11h (Nuovi modi per uscirne), di Simone Burratti; al concetto di demi-monde in Silvia Righi («il demi-monde è l’intercapedine, la porta socchiusa, il riflesso del riflesso»); penso a un bel saggio di Andrea Accardi sulla «macrofigura ossessiva» incentrata su «spazi chiusi, locali ermetici, appartamenti» in libri di Carmen Gallo, Luciano Mazziotta e Noemi De Lisi[2]. Che cosa sono infatti se non gabbie o comunque spazi claustrofobici la tela sotto cui il boscimano copre il ghepardo (Waterboarding), le inquadrature ecfrastiche (non solo le ecfrasi mimetiche della sezione IV, già commentate da Bernardo Pacini[3]) come quella dello screenshot nella poesia Hai inviato una foto del tuo cazzo…, l’incubo in Castello (titolo kafkiano quant’altri mai) e la quasi-sereniana In sogno? Proprio come nel Sereni di Un sogno, anche questa poesia di Innocenti si sviluppa attorno all’idea di lotta; la perdita di un orizzonte propriamente storico, tuttavia, comporta che i connotati ideologici ed esistenziali di Sereni siano stati del tutto rimossi, sostituiti da una virtualità iperbolica («sarà un professionista | si muoverà come un killer»: altra figura di mascolinità, di «prevaricazione nei confronti delle altre soggettività», Simonini, p. 76). Tale virtualità rende più netta la scollatura con il reale, strozzato dall’anticlimax della chiusa: «dovrebbe essere un guerriero, si sente esausto | mentre spinge la grande porta a vetri | entrando nel palazzo».

Tra tutte le gabbie, quella più prossima e opprimente è il proprio corpo, che sembra aver perso ogni volontà di proiezione nella trascendenza; meglio ancora, è la stessa gabbia toracica, catacresi che nel suo tenore e nel suo veicolo sembra condensare o comprimere l’intero libro. Stare dentro un orizzonte claustrofobico è tutt’uno con la difficoltà di respirare, come sa chiunque abbia vissuto  periodi di ansia, panico o depressione, in cui sembra impossibile avere pieno controllo sul proprio respiro («tali stati d’animo sono generati dall’aria che respiri», p. 13). Non è un caso che le pratiche di meditazione partano proprio dalla disciplina del corpo e del respiro per tentare di ristabilire un’osmosi fra l’individuo e la totalità che lo circonda, fino a rendere porosi i confini della persona. Innocenti però propone una soluzione opposta e nichilista, la cessazione del respiro: in una sequenza omogenea ma distribuita a intervalli, in apertura a ogni sezione, segnalata dal corsivo e solcata da ossessive ricorrenze lessicali, egli manomette i messaggi motivazionali delle campagne antifumo, sostituendo «respirare» a «fumare». L’effetto è paradossale e straniante:

una volta eliminata la sensazione di perdita e di sacrificio potrai riprendere
in considerazione la salute, il denaro, l’amore e le altre ragioni per cui hai
deciso di smettere.

Il rovesciamento del contesto pragmatico – che, insieme alla tecnica del cut-up di cui Innocenti fa largo uso è un’appropriazione intelligente di alcune tecniche delle scritture di ricerca[4] – cambia di segno la connotazione di «salute», «denaro» e «amore», che da stati desiderabili diventano zavorre, ostacoli che perpetuano lo stato di schiavitù del soggetto. C’è un forte sostrato schopenhaueriano nel libro, se il «desiderio» ossessivamente tematizzato (includendo anche le forme del verbo «desiderare», si contano ben diciotto occorrenze della radice) altro non è se non il versante impersonale o meglio sovraindividuale della volontà di vivere, dalla quale occorre liberarsi. L’imperativo etico consiste dunque nell’aspirazione a un’ascesi che liberi dal desiderio, alla tensione verso un Nirvana che però non è solo irraggiungibile, ma neanche immaginabile, in quanto il soggetto non intraprende il cammino necessario, mancando di quell’orizzonte di trascendenza che presuppone la possibilità di compiere delle scelte e tracciare delle direzioni. Solo in contesti d’immersione subacquea si realizza qualcosa che ricorda questo stato di liberazione: in Perchie di mare si legge che «restare sott’acqua era una forma di ascesi» (p. 61), e ancora più esplicitamente, in Relitto (p. 64), un «subacqueo romagnolo»,

avanzando fra le carcasse delle Chrysler e la nave affondata, guardando il blu profondo accanto a lui e i microrganismi trascinati dalla corrente, ha avuto la sensazione di essere padrone del proprio destino. In quel momento, se solo avesse voluto, sarebbe scomparso per sempre.

L’ambiente sottomarino è la forma di estraneità maggiore che un individuo possa esperire sulla terra: persino maggiore che nel deserto, proprio perché il nostro apparato respiratorio non è fisiologicamente adatto ad abitare l’acqua. Restare sott’acqua invera una doppia condizione: dal punto di vista esperienziale consente una quasi-morte, la possibilità concreta di una cessazione definitiva del respiro; dal punto di vista etico implica un rifiuto o almeno una sospensione della società umana (ma, direi, di società tout court, includendo quindi i rituali degli animali, le interazioni uomo-animale spesso al centro di queste poesie), e a maggior ragione della società neoliberale attuale come la subiamo o cavalchiamo – con diversi gradi di intensità, di consapevolezza, e connivenza.

Nemmeno l’acqua è però al riparo dalle dinamiche di potere e prevaricazione onnipresenti sulla terraferma: nella già citata Perchie di mare, la poca resistenza dell’animale trafitto dal tridente («la perchia si divincolava con poca determinazione, come se la vita gli fosse stata indifferente») soffoca sul nascere lo schema mitico della lotta, e con esso il diritto all’autoespressione e all’autodeterminazione delle parti in causa («Avrebbe voluto che lottasse per sopravvivere, così che la sua agonia potesse rimanergli estranea»). Lo stesso scarto epocale che intercorre fra In sogno e la sereniana Un sogno, intercorre fra Perchie di mare e alcuni classici novecenteschi incentrati su situazioni analoghe: penso soprattutto a Il vecchio e il mare di Hemingway, dove il marlin lotta tenacemente per la sopravvivenza. Intermedia è la situazione in The fish, di Bishop: da un lato anche qui il pesce non lotta («He didn’t fight. / He hadn’t fought at all»); dall’altro, diversamente da Perchie di mare, l’io libera il pesce dalla presa («And I let the fish go») dopo averlo contemplato e restituito sulla carta con dovizia di particolari. Quella di Bishop è una poesia in versi euforica in cui un’effimera ma intensa comunione fra due estraneità è ancora possibile; quella di Innocenti è una poesia in prosa disforica in cui l’estraneità desiderata non avviene, causando dolore in un reciproco riconoscimento “da perdenti”.

Da una parte l’operazione compiuta in Lacrime di babirussa può essere vista come un prosieguo di quella aperta o riaperta con forza, in Italia, da La pura superficie. Confrontato con il libro di Mazzoni, quello di Innocenti ne esce esente o quasi da epigonismo, nonostante l’innegabile transfert stilistico ed esistenziale; la differenza fondamentale risiede a mio avviso nella fede fortissima, benché nichilista, dell’io nei confronti dei propri enunciati nel libro di Mazzoni, vis à vis l’io non solo esperenzialmente ma anche enunciativamente passivo del libro di Innocenti (il cut-up è d’altronde figura emblematica di questa passività, di questo “essere parlati”). Mazzoni è pugnace nell’affermare verità (rappresentazioni?) esterne e impersonali, e la sua totalità di segno negativo sfocia in un furioso determinismo storico-sociale; Innocenti è, al contrario, incline a subire rappresentazioni (verità?) esterne e impersonali, quasi come se questo fosse il solo modo per espiarle, per «distruggere parte di sé dopo averla trovata e addomesticata» (p. 73). La maggiore distanza di Innocenti dai propri enunciati, e il livello più incarnato della sofferenza (per es. il discorso sul respiro) può presagire un’uscita dallo stallo nella direzione annunciata – benché non ancora rappresentata – nel testo conclusivo, sul quale tornerò alla fine. D’altra parte, però, la realtà diagnosticata tanto da Mazzoni quanto da Innocenti è realtà solo nel senso empiricista e materialista del termine: essa risente di uno sguardo oggettivante, di una programmaticità anche, la quale può tuttavia darsi solo a patto di ignorare tutta una parte “solare” dello spettro fenomenologico, che esiste come esiste un profumo attingibile nella vita incarnata di ognuno – un testimone anche di pienezza, se vogliamo, come quello che ci hanno trasmesso Wallace Stevens, Marianne Moore, William Carlos Williams, Elizabeth Bishop, Mario Luzi, e altri, anche tra i nostri contemporanei, come Maria Grazia Calandrone, Federico Italiano, Roberto Minardi e Tommaso Di Dio, tra gli altri.

E però al tempo stesso, «chi non ha attraversato il nulla non va da nessuna parte»: lo ha scritto perentoriamente Stefano Dal Bianco a proposito di Progetto per S., l’esordio di Simone Burratti nel 2017 sempre per NEM. Queste parole sembrano cucite su misura anche per Innocenti, che di Burratti è coetaneo e al quale è parzialmente affine, al di là della comune collocazione editoriale. Questo nulla, che assume le sembianze di una riduzione dell’esistenza fenomenologica all’impulso e al riflesso, questa condizione di passività (anzi di schiavitù) è una dimensione pre- e sovra-individuale, e quindi tocca o ha toccato tutti noi, o quasi: era questo il senso dell’aneddoto personale con cui ho aperto questo contributo. Non sarebbe corretto pretendere da un poeta una postura e una visione che gli siano (ancora, o per sempre) estranee. Ciò che conta è che ciascuno faccia, con tenacia esistenziale e perizia tecnica, i conti con quelle aree della realtà alle quali le proprie antenne si rivelano maggiormente sensibili. Innocenti questi conti li fa, ricavandone un esordio di severa compattezza che offre non poche possibilità di compiere analisi illuminanti sui singoli testi[5]. Lacrime di babirussa è un libro vero a sé stesso dall’inizio alla fine, impegnato a portare la scrittura a un grado quasi zero, disadorno, inseparabile dalla poetica che lo informa e a quest’ultima necessario.

Viene di esprimere appena qualche riserva sulla didascalicità d’arrivo delle ecfrasi della sezione IV e su testi più ellittici e formalisti come Tartana 2017 e Nella casa ostile delle lamette…, che seppur di pregevole fattura mi hanno troppo ricordato il Giovenale di Criterio dei vetri (Oèdipus 2007):

Nella casa ostile delle lamette
contro le rotule e interni-gomito
slaccia l’ovulo aspro dal bilico
vuota le palpebre nel buio nuoto.

Eravamo precisi nella luce
sotto i led bianchi con il freddo imposto
a protezione delle superfici
solidi impratici, stringevi un pomo

dentro la casa di spigoli vivi
fratture esposte sul piano, polmoni
senza pleura, ventotto mesi circa

extrauterini

La ricercatezza letteraria, sia pur “fredda”, di un testo come questo, mi sembra stridere con la studiata trasandatezza, il (falso) grado zero della maggior parte dei testi. Che tale trasandatezza sia un’abile illusione ottica lo provano, fra le varie spie stilistiche, i richiami lessicali a distanza, talvolta estesi a intere frasi variate (appena un esempio: «diventare umano come una conquista», p. 9; «consumare come una conquista», p. 32; e ancora «essere oggetto del desiderio | come una conquista», p. 60) testimoniano un’attenzione millimetrica al macrotesto; anche a livello micro-stilistico, ho dovuto ricredermi su quelle che dapprincipio mi erano parse soluzioni discutibili: per esempio, nei versi «Il duello comincia con i due campioni | maschi uno di fronte all’altro» (p. 16), mi era sembrato che «maschi» fosse dispensabile perché semanticamente ridondante; lo stesso autore mi ha fatto tuttavia notare che la posizione di questa parola all’inizio del verso successivo consente di leggerla non come semplice aggettivo antonimo di «femmine», ma come aggettivo sostantivato che implica la mascolinità, l’essere maschi in senso cultural-antropologico (sull’importanza del maschile come direttiva del libro, rimando ancora alla bella postfazione di Simonini). Questo indizio cambia il senso del verso, nonché l’inflessione e il ritmo nella scansione mentale. Si potrebbero fare numerosi altri rilievi stilistici; mi limiterò a notare l’effetto di intonazione cinica ottenuto dall’atto enunciativo del consiglio espresso in forma di periodo ipotetico di primo grado («se la donna è sana e forte […] allora la si può deflorare presto», p. 17): che cos’è infatti questo (pseudo)consiglio se non una vera e propria istruzione alla violenza, un consiglio impersonale di cui nessuno può assumersi la responsabilità in quanto la fonte enunciativa è smaterializzata, non albergando dentro un corpo e una mente individuali?

Assumersi le responsabilità, anche collettive, e farle proprie, è invece il primo passo da compiere per lasciarsi alle spalle questo paesaggio «anomico» (cioè alienato e senza solidarietà, come nell’uso che ne fanno Durkheim e McIver; e proprio Paesaggio anomico era il titolo preliminare del libro), «anemico» (cioè senza forza, cfr. la poesia Paesaggio anemico, p. 53) e «anonimo» (cioè indifferenziato, pre- o sovra-individuale). Il segnale che prefigura l’uscita emerge nella parte finale del testo conclusivo, Un patriarca:

Dovrà decidere da che parte stare, se distruggere parte di sé dopo averla trovata e addomesticata. Sforzarsi di vedere il suo capo come una donna e non come una madre o una sorellastra, una culla o una stronza. Pensare a lei come a una guida, una figura autoritaria in virtù del merito e del consenso. Discuterà con i suoi colleghi quando questi diranno che è una troia, difendendo ciò che ritiene giusto senza avere un tornaconto. Perché tutto sia come dovrà essere per sempre.

«Decidere da che parte stare» implica tanto la rinuncia ad appiattirsi su un esistente meramente empirico e costruttivista (fatto cioè da una parte di meri stimoli e dall’altra di coercitive convenzioni sociali), quanto la speculare tentazione della sparizione; ciò di cui si sente forte il bisogno è invece l’abbracciare le diversamente rischiose svolte del bene, dove a contare saranno le scelte etiche che si compiranno fuori dal perimetro del testo: «perché tutto sia come dovrà essere per sempre».


[1]John Hollander, The Poetics of Ekphrasis, in «Word & Image», IV, 1988, pp. 209-219

[2]Andrea Accardi, Stanze che imprigionano: su una figura ossessivo-generazionale in De Lisi, Gallo, Mazziotta. «Poetarum Silva», 19 settembre 2019, https://poetarumsilva.com/2019/09/19/stanze-che-imprigionano-su-una-figura-ossessivo-generazionale-in-de-lisi-gallo-mazziotta/

[3]Bernardo Pacini, Quest’opera è perversa, abusa di noi – commento a quattro ecfrasi di Riccardo Innocenti. Lay0ut, 14 maggio 2021. https://www.layoutmagazine.it/4-ecfrasi-riccardo-innocenti/

[4]Cfr. Gian Luca Picconi, La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività, Roma, Tic edizioni, 2020.

[5] Oltre a quelle presenti in questa postfazione, per le quali rimetto il giudizio al lettore, ricordo la già citata nota di Bernardo Pacini, nonché due analisi a cura di Antonio Francesco Perozzi: la prima si concentra sul testo liminare, Diventare umano come una conquista…, leggibile qui: https://lamorteperacqua.wordpress.com/2021/03/24/da-paesaggio-anomico-riccardo-innocenti/ ; la seconda, dal titolo La soggettività poetica nell’era della sua riproducibilità tecnica, è un’analisi comparativa su tre autori (oltre a Innocenti, Gilda Policastro e Roberto R. Corsi) leggibile qui: https://www.layoutmagazine.it/la-soggettivita-poetica-era-sua-riproducibilita-tecnica/ . In questo contributo, Perozzi si sofferma sulla poesia Hai inviato una foto del tuo cazzo…, che farei rientrare, per la composizione quasi pittorica della scena, nel concetto di ecfrasi nozionale mutuato da Hollander e che ho già impiegato per descrivere la seconda strofa della poesia Gli piacciono i documentari violenti...


Riccardo Innocenti, Lacrime di babirussa, Nem, Varese 2022, 14 €.