In uno dei suoi scritti più contestati, dedicato al rapporto tra forme di psichismo individuale e collettivo, Freud nota come la funzione attribuita al tabù nelle società dette primitive consista nel limitare, attraverso rigorosi dispositivi di controllo sociale, tutti quei gesti verso i quali la natura umana ci farebbe altrimenti tendere

Laddove è in vigore un tabù si avverte nei suoi confronti una profonda ambiguità: al rispetto di un divieto si accompagna il desiderio latente di infrangerlo, alla paura dinnanzi alla legge il fascino di trasgredirla.

Con Totem, uscito per Tic nel marzo 2022, Silvia Tripodi indaga su quello che è al tempo stesso il rovescio simbolico e l’equivalente materiale del tabù. Nel saggio freudiano, queste due nozioni e il tipo di comportamenti a cui rimandano (venerazione e paura, rispetto e spregio, purezza e impurità) vengono studiate come i due volti del rapporto umano con il sacro. 

Tripodi lo però fa interrogando una sfera profana che la letteratura, con il medesimo intreccio di fascino e ripulsione, considera il tabù per eccellenza: la televisione e le sue manifestazioni più degradanti, i reality show

Riprendendo più lo stile aforismatico che gli assunti teorici della critica allo spettacolare integrato, il libro si propone insomma di rovesciarla. L’idea che il «nostro tempo […] preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, l’apparire all’essere» presa in prestito a Feuerbach da Guy Debord (citato dall’autrice nei ringraziamenti) appare più che mai obsoleta. La televisione e il cinema mainstream non vanno stigmatizzati in quanto surrogati di realtà, ma osservati come mondi del tutto equivalenti e anzi indistinguibili da quello in cui viviamo.

Alla frase gnomica («Lo spettacolo […] è il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna»)[1] si sostituisce l’interrogativa («Esiste una parola tempo per un horror della memoria collettiva? Forse», p. 15), alla climax ascendente («Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo, […] l’autoritratto del suo potere[2]») l’epanortosi («Cosa ha fatto Guadagnino in questi mesi. Ha girato la sua fiction, non credo», p. 13) e soprattutto all’ostentato distacco del pamphlet la logica del contagio

Odio Milla Jovovich, invece mi piace Philip Seymour Hoffman. Sorprendente interpretazione di Capote in A sangue freddo. Ecco una cosa del genere su cui ragionare, molto affine con quello che ho in mente […]. La doppia faccia di Capote, il suo lato oscuro. Forse si era innamorato dell’assassino aveva un vero debole per lui ed è questo il motivo per il quale alla fine viene fuori un romanzo di trecento pagine. (pp. 11-12).

Come Alex DeLarge durante la Cura Ludovico, Tripodi si inocula e inocula al lettore una massiccia dose di immaginida assorbire in modo solo apparentemente passivo. Con una differenza: il protagonista di Arancia meccanica è costretto da uno speculum ferma-palpebre a guardare le scene di ultraviolenza proiettate di fronte a lui, mentre nessun fotogramma è messo davanti agli occhi del lettore di Totem. Benché non appaiano mai, le immagini si trovano tuttavia al centro del libro, di cui costituiscono il rovescio paradossale. 

La difficoltà di assegnargli un genere – Vincenzo Ostuni l’ha definito un romanzo-saggio[3] – può essere così aggirata se decidiamo di guardarvi come a un fototesto in absentia. Se è vero che alle parti diegetiche da racconto di viaggio («Sono arrivata a Crema un fine settimana di luglio», p. 9; «Luzfosca è arrivata a Pechino. I ragazzi della casa editrice l’aspettano nei pressi dell’università», p. 30) si alternano parti teoriche («Basta una parola associata a un colore o a un gesto per costruire le basi della paura», p. 15; «aspettative e possibilità sono le condizioni che permettono di crescere non come bruti», p. 20) e che entrambe sono ricondotte a un io narrante femminile dai contorni vagamente autobiografici, è la figura dell’ekphrasis che giustifica il passaggio dalla scrittura di finzione (o pseudo-finzione) alla scrittura saggistica.

La camera si sofferma su alcuni oggetti a bordo piscina. Sono degli indumenti. Un paio di infradito, due bicchieri, un piatto con alcuni resti di cibo, mentre fuori albeggia e sono tutti sdraiati in luoghi diversi della casa. Stanno dormendo. Dominano il bianco e i toni pastello (p. 64). 

Il libro si sviluppa lungo tre assi narrativi principali: il récit dell’ossessione che l’io nutre nei confronti di Luca Guadagnino; i frammenti di un soggiorno scolastico in Cina in veste di educatrice e il commento in presa diretta del Grande Fratello Vip edizione 2021

Le allusioni a fatti di cronaca (i gialli di Crema e Caronia, estate 2020), spettacolo (la diffusione in streaming della serie We Are Who We Are, autunno 2020) e politica (le misure restrittive imposte dalla pandemia di Covid-19, inverno 2019 – primavera 2021) si sovrappongono alle cronologie interne a questi filoni, contribuendo a delimitare quello che sembra il tempo della storia («Leggo da qualche parte che Sorrentino sta selezionando delle comparse per il suo nuovo film. Le selezioni si svolgeranno a Napoli, con ingressi contingentati a causa del covid […]. Sto cercando di capire come fare a contattare Guadagnino», p. 19).

Questi riferimenti non compongono però un orizzonte spazio-temporale stabile. Ogni possibile valore documentario è inficiato dall’atmosfera surreale in cui sono immersi i ricordi di viaggio e le allusioni agli eventi pubblici o mediatici. 

In a Landscape o Landscape Suicide, due tracce mentali alle quali affezionarsi. Il primo è il titolo di una composizione di Cage, il secondo è un film di James Benning. Incrociare entrambi questi titoli proprio dopo quanto è accaduto alla madre e al suo bambino. Soprattutto rimanere colpiti dal fatto che in una delle sequenze del film vengono inquadrati dei piloni dell’alta tensione e pensare che già fanno parte dell’immaginario che ci si è costruiti in pochi giorni; l’immagine di un pilone, appunto, dal quale pare che la donna si sia lanciata, suicidandosi (pp. 24-25). 

Come negli huis clos di Yórgos Lánthimos (il set della Favorita è scelto come location per una fantomatica finale del GF), nelle distopie di Tripodi «accadono cose strane, leggibili attraverso un codice che va oltre quello linguistico, che diventa quasi magico» (p. 6). 

Una serie di oggetti – un unicorno di plastica rubato durante una cena in ambasciata, un piramidale sottratto da Tommaso prima della finale, e soprattutto tubi, prismi e filamenti – scompaiono dalla superficie piana della televisione per riapparire in uno spazio dalla profondità ambigua, nel quale si intrecciano fino a creare una nuova geometria non-euclidea.

Un piano traslucido, grigio scuro, una massa compatta di segni e di oggetti che vengono assorbiti dalla superficie nella loro interezza. Una volta apparsi, sono risucchiati da una gravità che nega la luce […]. Le innumerevoli questioni del cosmo non sono altro che tracce di questa natura, filamenti o perni, oggetti tubolari accatastati uno sull’altro o paralleli tra loro (p. 76).

Sempre Ostuni ha parlato per queste forme di «elementi di una metafisica».[4] Resta però da capire di quale metafisica si tratti. Da Kant a Derrida, passando per Nietzsche e Heidegger, tutta una tradizione filosofica fa coincidere la metafisica con un processo di svalutazione del mondo sensibile a vantaggio di una realtà tanto più pura quanto disincarnata

In Tripodi non vi è traccia di una simile assiologia. La dialettica visibile-invisibile così come quella presenza-distanza o quella superficie-profondità suggerite dal topos dello schermo e care alla poesia italiana almeno da Petrarca non sono in vigore nel caso del display televisivo, che si limita a rendere le immagini presenti e a disposizione dello spettatore. 

Dietro l’apparire dello spettacolo non si nasconde alcun essere («La maschera di un bene è un dentro che si mostra e si capovolge al contrario del contrario fino a ridursi a una matrice nitida e asciutta»p. 61). Al contrario, il principio che lega l’esperienza televisiva o cinematografica all’esperienza percepita come reale è quello dell’implicazione logica: poiché veniamo raggiunti e toccati dalla prima con la stessa intensità o indifferenza con cui viviamo la seconda, dobbiamo supporre che l’autenticità di una implichi l’autenticità dell’altra. A immagine e realtà non vengono attribuiti due statuti ontologici distinti, ma uno soloSe «il virus esiste» (p. 26) allora anche la televisione esiste, e viceversa. 

In girum imus nocte et consumimur igni, l’ultima pellicola di Debord, presenta il pubblico della società dello spettacolo come «schiavi sfruttati allo stremo dal vuoto, un vuoto che li ripaga con una moneta coniata a sua immagine e somiglianza».[5] Il film si apre sulla fotografia di una sala da cinema inquadrata frontalmente; la telecamera si trova nella posizione occupata dallo schermo e gli spettatori messi di fronte al loro doppio, che li guarda a sua volta. 

Chi osserva e chi è osservatosembra chiedersi anche Tripodi in Totem. A unire i filoni narrativi del libro è infatti il regime di sorveglianza al quale sono sottoposti i personaggi. I partecipanti al reality possono, incalzati dalla produzione, ingannare spettatori e avversari con falsi sodalizi o ostilità reciproche. Gli educatori che hanno imposto l’assoluto silenzio ai propri studenti affinché i maturandi cinesi si preparino al gaokao nelle migliori condizioni sono gli stessi a organizzare ronde notturne nell’albergo.

Mentre Guadagnino, da vittima di stalking da parte dell’io («dormire nel letto di Guadagnino, entrare furtivamente in casa sua», p. 6; «condurre Guadagnino nei pressi della paura, farlo sentire, esposto, in pericolo. Oppure essere la sua personal shopper», p. 95) ne diventa la guida spirituale. Il regista non è solo un feticcio, l’oggetto di un desiderio abortito («Guadagnino è gay», p. 6) e perciò rimasto puro: è anche e soprattutto una direzione di poetica.

Tommaso si mette i tacchi e cammina per la casa, gli altri inquilini lo guardano divertiti, ha carisma. Qualcosa però gli manca. Forse è troppo giovane. Quando appare in tv rimango ipnotizzata e non riesco a smettere di guardarlo. L’effetto di tutto questo arriva durante il sonno, nel dormiveglia o nei sogni. Voglio chiamarlo effetto Guadagnino o dell’intimità strutturata, un’intimità talmente sofisticata che se ne può percepire solo un debole riflesso, nello stato di veglia, dopo aver inanellato immagini su immagine di occhi, di situazioni tipo andare a trovare qualcuno che sta male o ha la febbre […]. Così si può creare una dipendenza, si può creare un legame intimo con l’immagine (p. 28).

Come gli osservatori-osservati nel pubblico di Debord e del GF 5, Guadagnino è insieme il creatore delle immagini e l’immagine stessa. L’effetto di intimità sapientemente costruito nei suoi film è identico a quello suscitato nel confessionale della casa. La villa di Crema dove viene girato Call Me by Your Name e lo studio di Cinecittà si confondono tra loro, in un continuo rovesciamento dell’autentico che impedisce di dare un senso stabile allo spettacolo e che Tripodi si propone di riprodurre. 

«L’idea perno non so bene quale sia a questo punto e comunque sì, la dimensione del significato risulterebbe fluttuante, non c’è il voler dire, metafore no, tutto sarebbe molto netto», p. 6), immagina l’io in apertura al libro che deve ancora scrivere. Sono molte le opere la cui idea-perno rimane almeno in parte un enigma (per citare due esempi illustri: Cos’è l’andere Zustand di Musil? cos’è la Beltà di Zanzotto?). 

Non è quindi importante capire se il totem sia davvero Guadagnino, come lascia pensare la foto pixellata che chiude il volume. La domanda che sembra sollevare Tripodi è un’altra: perché la televisione, le serie Netflix, il voyeurismo della cronaca nera all’italiana e soprattutto ciò che questi prodotti ci invitano ad osservare (i soldi, il virus, la morte) sono un tabù nella poesia contemporanea? 

Tenere il covid lontano dalla letteratura, se la letteratura è realtà allora il virus vorrà entrarci. Invece tenerlo lontano, eclissarlo, ghettizzarlo, tenerlo fuori dalla poesia, dal cinema, da ogni racconto. […] Mi interessa di più vedere Thimothée Chalamet con la mascherina che esce da un supermercato […] oppure un film tutto così, girato come una specie di documentario sulle star di Hollywood in tempo di pandemia, quello che hanno fatto durante il lockdown (pp. 26-27).

Una simile iconoclastia (o un simile «negazionismo intellettuale», p. 26) si può forse spiegare andando oltre la distinzione tra cultura high- e lowbrow. Nella presunta competizione tra medium scritturale e pittorico, la poesia è forse la prima ad aver intuito di non potere né tradurre, né spiegare, né tantomeno denunciare l’immagine in quanto simulacro

Il procedimento ekphrastico su cui poggia Totem serve allora a Tripodi per sottolineare il limite della letteratura quando quest’ultima è messa a confronto con la fotografia, il cinema, la televisione e, di conseguenza, con il mondo spettacolare che abitiamo: quello di essere inevitabilmente didascalica.

L’idea di base sono le immagini, la società dello spettacolo, la spettacolarizzazione, la pubblicità e una parte obliqua, fatta di ragazzi e fatta però anche di Cina, un mondo macchinoso e nascosto di tecnologie e di controllo […]. Forse di esplicito ci potrebbe essere solo la fissazione della tipa, il resto no, le immagini ci sono ma senza una didascalia, non so come dire (p. 8).


Silvia Tripodi, Totem, Roma, Tic Edizioni, 2021, €15.


[1] Guy Debord, La società dello spettacolo; Commentari sulla società dello spettacolo, trad. di P. Salvadori e F. Vasari, Milano, Baldini e Castoldi, 2008, p. 34.

[2] Ivi, p. 43.

[3] TicTalk: presentazione di Totem di Silvia Tripodi» con Massimiliano Manganelli e Vincenzo Ostuni a cura di Antonio Syxty: https://www.youtube.com/watch?v=vz0q_YnK_BQ&ab_channel=TicEdizioni

[4] Ibid.

[5] Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, in Œuvres cinématographiques complètes, Parigi, Gallimard 1994.