Fra il 1982 e il 1998 William T. Vollmann si dedica alla scrittura di una delle sue opere più importanti, Rising Up Rising Down, una lunga riflessione, in 7 volumi, sulla violenza e sulle sue possibili giustificazioni (una versione ridotta è appena stata ripubblicata da minimumfax con il titolo Come un’onda che sale e che scende).

Si tratta di uno dei temi principali di tutta l’opera dello scrittore: basti pensare al ciclo dei Seven Dreams, dedicato al racconto della storia simbolica della colonizzazione dell’America, o al più noto (quantomeno in Italia) Europe Central, alla cosiddetta Prostitute Trilogye ancora ai molti altri esempi che potrebbero essere fatti.

E almeno sulla superficie non c’è dubbio che i libri di Vollmann contengano molta violenza, talvolta riflessa anche nel distintivo stile delle sue pagine, curatissime, quasi fino alla mania. Eppure questo interesse, questa indagine per la violenza fanno il pari con un’altra caratteristica peculiare di tutte le opere di Vollmann, che sono, in fin dei conti, opere sull’empatia.

Si tratta di una contraddizione solo apparente (com’è evidente dall’epigrafe da Poe posta ai Racconti dell’arcobaleno: “Molteplice è l’infelicità. La sventura terrestre è multiforme. Sovrastando come l’arcobaleno la vastità dell’orizzonte, i suoi colori non sono meno vari dei colori dell’iride: altrettanto nitidi, e tuttavia intimamente mescolati”), e che non si risolve in nessuna forma di facile identificazione o postura vittimistica, ma tutt’altro. Come ha scritto Jonathan Franzen in un bel ritratto che si può leggere in La fine della fine della terra, “Bill, meglio di ogni altro scrittore americano contemporaneo, sta tentando per noi l’impresa eroica di caricarsi il mondo sulle spalle”. 

Un’impresa che vive a partire dal proprio corpo, sul proprio corpo: basti pensare a quel libro stranissimo che è The Book of Dolores. Scrivere non-fiction, mi dice durante la nostra conversazione, per lui significa soprattutto “fare esperienza”, e in realtà la stessa cosa potrebbe dirsi per i suoi romanzi: per scrivere I Fucili fa un viaggio al Polo Nord, dà fuoco al suo sacco a pelo e ci rimette le sopracciglia.

D’altronde la stessa distinzione fra fiction e non-fiction, nel suo caso, è davvero molto sfumata, non sempre funziona e i suoi libri sono costantemente in dialogo fra loro. Basti pensare, di nuovo, a Come un’onda che sale e che scende: si tratta, senza dubbio, di un saggio, ma comunque un saggio di difficile definizione, e che deve molto alla sua esperienza di scrittore di narrativa, al suo continuo lavoro di erosione e confusione dei generi; alcune pagine potrebbero senza problemi trovarsi dentro Europe Central, e viceversa. E iniziamo a parlare proprio di questo.

Incontro Bill in una libreria milanese, è seduto sugli scalini di legno della saletta dedicata ai bambini, la sua figura imponente è perfettamente a suo agio in questo ambiente in miniatura, indica i libri per l’infanzia esposti sugli scaffali e mi dice: “Questi li ho scritti tutti quanti io”, ridendo. Gli assicuro che avrei fatto in modo di farlo sapere a tutti – anche le fiabe, d’altronde, hanno qualcosa a che fare con la sua scrittura…  Ma cambiamo presto argomento e gli chiedo di raccontarmi come ha costruito Come un’onda che sale e che scende:


Stavo per dire che non avrei potuto scrivere Europe Central senza aver prima scritto Come un’onda che sale e che scende: per me è molto più difficile dedicarmi alla narrativa di finzione che alla non-fiction. Per scrivere non-fiction tutto quello che devo fare è uscire, fare un’esperienza, osservare, descrivere, ricordare.

Il mio metodo con Come un’onda che sale e che scende è stato fondamentalmente un metodo induttivo: cercavo di inserire ogni giustificazione della violenza in un continuum: quando è giustificabile, per esempio, la protezione della madrepatria? Beh, Gandhi e Hitler darebbero risposte molto diverse, quindi devi guardare a quel problema e chiederti perché possiamo dire una cosa o come possiamo dirla e una risposta sembra più giusta dell’altra.

L’unico modo in cui possiamo fare tutto ciò, come in ogni sistema logico, è di iniziare con degli assiomi, e naturalmente puoi sempre rifiutarli, non accettarli, quindi cerco sempre di mantenere le mie proposizioni nel modo più semplice e ovvio possibile. Sostanzialmente il mio metodo è stato questo. 

E cosa puoi dirmi sulla forma di questo libro?

La mia speranza iniziale era di creare un calcolo morale conciso e onnicomprensivo, e invece sono finito con lo scrivere una specie di elenco telefonico. Contiene qualche successo, come nel caso del discorso sulla liceità o meno delle guerre, ma a volte ammette anche dei fallimenti.

Ho fatto il meglio che ho potuto per definire e spiegare il calcolo morale, ho letto testi di storia, di filosofia e così via. E la mia impressione è stata che, generalmente, se leggi, non so, diciamo le memorie di Cesare, trovi un punto di vista coerente, perché in fondo siamo tutti semplici a modo nostro, nel modo in cui siamo fatti, rispetto alla complessità del mondo. E tutti noi vogliamo semplificare, tendiamo a semplificare così che il nostro punto di vista sia considerato giusto.

Quindi ho pensato: usciamo e andiamo a vedere delle situazioni reali: e sfortunatamente le cose sono un po’ più complesse. Essere umani vuol dire essere un mazzo di motivazioni, di motivi differenti, e quindi se dobbiamo chiederci qualcosa del tipo: “la seconda guerra mondiale è giustificabile?”, dovremmo aggiungere sempre: “per chi?”. Era giustificabile che gli alleati bombardassero Dresda? Questo è uno dei motivi per cui ho pensato che per rappresentare la realtà devi descriverla in un modo che permetta alle persone di vedere e sentire, provare quanto è complessa. 

Hai detto che per te scrivere non-fiction è più semplice perché vuol dire andare fuori nel mondo, fare delle esperienze e raccontarle. Eppure se si leggono i tuoi libri questo sembra vero solo in parte, perché sono costruiti su un’evidente ricerca documentaria. In una tua vecchia intervista uscita sul New York Times hai definito Come un’onda che sale che scende un libro “poco pratico”. In effetti dai al lettore tantissime informazioni, fornisci molti esempi, dati, riferimenti. Anche questa è una caratteristica costante del tuo lavoro e che di nuovo accomuna la non-fiction, dove ci aspetteremmo con più facilità di trovare un cospicuo lavoro di ricerca reso esplicito e citato, e le opere più romanzesche. Eppure, rispetto a questa mole quasi caotica di dati, a un certo punto tu finisci quasi sempre per dichiarare una certa impossibilità di trarne un significato (particolarmente esplicito, in questo senso, è I poveri). Qual è dunque il tuo rapporto con la ricerca di dati e documenti e il senso della loro accumulazione nelle pagine che scrivi?

A questo proposito cito molto spesso Thoreau, quando scriveva che non dovremmo mai far sì che la nostra conoscenza interferisca con quello che è importante, cioè la nostra ignoranza. Non appena dico “è così, è esattamente così che deve essere”, allora sono un ideologo; ma se invece mi arrendo, mi limito a dichiarare i miei limiti e i miei fallimenti, l’impossibilità di trovare una risposta, ecco, neanche questa soluzione va bene.

Mi sembra, quindi, che la cosa migliore da fare sia aprire la mia mente, aprire il mio cuore, ammettere il fallimento e al tempo stesso cercare di sottolineare i miei occasionali successi, e quando non ce ne sono, quando non riesco a trovare delle soluzioni o a offrire delle possibili risposte, cerco di descrivere perché ho fallito e come l’ho fatto. E se ho fallito solo in parte allora i miei tentativi, i miei esperimenti potrebbero essere utili a qualcuno.

Tutto ciò è molto esplicito di nuovo ne I poveri quando ti confronti con Sia ora lode agli uomini di fama di Walker Evans e James Agee, che definisci non a caso un capolavoro, in una certa misura, proprio perché è un fallimento che riflette su sé stesso. E a proposito di povertà, in Come un’onda che sale e che scende c’è un capitolo in cui esplori la violenza rispetto alle condizioni di classe. Nel tuo lavoro di scrittore le condizioni materiali, economiche, sono spesso molto pressanti, sia quando vengono affrontate esplicitamente, sia quando restano implicite al livello di rappresentazione. Mi sembra che quando queste sono implicite talvolta sei molto vicino al modo in cui il marxismo concepisce la violenza e le relazioni di potere, ma quando affronti queste questioni direttamente, in maniera più o meno saggistica, prendi spesso le distanze dal metodo marxista. 

In una certa misura Marx era come il Socrate dei Dialoghi platonici: è stato senz’altro un genio per aver individuato quanto c’era di sbagliato in un particolare sistema. E quando leggi quelle pagine sconvolgenti in Das Kapital sulla classe lavoratrice inglese, sui lavoratori dei canali e tutte quelle terribili condizioni di vita che descrive pensi “sì, tutto questo non deve essere tollerato“, e amo molto quella nota idea di Marx: ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni. Non è molto lontana se ci pensi, dalla regola d’oro cristiana – ovviamente, in una certa maniera, sono due cose diverse, dipende da quanto quest’ultima è istituzionalizzata.

Quello su cui invece continuo a tormentarmi è l’idea di falsa coscienza, perché da un lato la capisco e la condivido, come quando gli americani, per esempio, pensano di essere il paese più libero del mondo, quello perfetto e migliore sin dalla sua nascita, quando dicono che siamo ancora liberi, abbiamo la nostra democrazia e ci odiano per questo e così via. Non credo che siano cattive persone, ma sono fuorviate, finanche ingannate.

Ma se mi dici “oh Bill, sono davvero davvero felice in questo momento, nel mio stato e nella mia condizione, e non ho bisogno di nulla”, e io invece penso di saperne di più, di capire meglio di te la tua vita, di conoscere i tuoi errori, perché in realtà è la tua falsa coscienza che ti inganna in questa illusione, e io, al contrario, posso aiutarti, beh, credo che tutto questo ragionamento sia sbagliato. La liquidazione dei kulaki fatta da Stalin, per esempio, mi ha sempre disturbato.

Come scrivo anche in Come un’onda che sale e che scende, penso molto allo slogan della Rivoluzione Francese. Dal mio punto di vista con il capitalismo c’è troppa libertà, c’è la libertà del più forte contro il debole; con il comunismo c’è troppa uguaglianza, se hai più capacità o più fortuna di conseguenza devo abbassarti al mio livello e forse addirittura punirti perché la tua condizione in una certa maniera deve aver beneficiato di qualche forma di sfruttamento. A connettere questi due ideali, quello della libertà, e quello dell’uguaglianza, dovrebbe esserci la terza parola dello slogan: la fratellanza. E se possiamo dire che la libertà è uguale alla fratellanza allora mi sembra che siamo sulla strada giusta. 

Hai scritto Come un’onda che sale e che scende più di vent’anni fa. Nel 2018 è uscito Carbon Ideologies, altra opera monumentale che fa i conti con la questione ambientale. Credo sia davvero molto difficile concettualizzare la violenza del cambiamento climatico, perché è qualcosa di molto diverso dalla tradizionale violenza della natura matrigna o indifferente. E non è neanche semplicemente la violenza dell’uomo sull’ambiente. Forse potremmo dire che si tratta della violenza dell’umanità verso sé stessa attraverso la natura. Credi che le riflessioni elaborate sulla violenza in Come un’onda che sale e che scende possano essere utili per riflettere anche sul cambiamento climatico?

Mi sembra che quello che dici sia molto appropriato e molto vero. Si tratta, da un certo punto di vista, della violenza dell’umanità verso sé stessa attraverso la natura, certo. Quasi in tutti posti che ho visitato, anzi no, proprio in tutti i posti che ho visitato per scrivere Carbon Ideologies, le persone pensano che sia giusto continuare a comportarci nello stesso modo, continuare a fare quello che stiamo facendo, e non si tratta semplicemente, come ha scritto Al Gore, di una verità scomoda. Le persone sono davvero impegnate a causare grandi danni al pianeta e agli altri.

Quando gli abitanti del West Virginia mi raccontavano che credono in Dio, e Dio ci ha fornito il carbone perché lo usassimo per dare energia agli Stati Uniti, e, ancora, che noi siamo quelli che hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale col carbone e ora i socialisti alla Casa Bianca e gli ambientalisti della California vogliono toglierci il carbone, ma noi crediamo in Dio, e non dobbiamo preoccuparci del cambiamento climatico perché Dio farà quello che deve, ecco, in questo caso direi che sì, si tratta di falsa coscienza.  

Molti dei tuoi libri contengono immagini: che siano i disegni di Afghanistan Picture Show o le foto di Imperial o di The Book of Dolores. Qual è il tuo rapporto, da scrittore, con le immagini?

Sono uno scrittore molto “visivo”, e forse questo può essere strano perché non ci vedo davvero bene. E quindi quando disegno o quando scatto una foto, posso usare queste immagini per acquisire più informazioni, posso riguardarle, ricordare meglio e esser più preciso. Le immagini mi servono per raccontare meglio la realtà.