Sono molte le uscite importanti previste per la rentrée letteraria di settembre. Un giorno prima, il 31 agosto, Quodlibet ha invece deciso di presentare in una nuova edizione rivista e ampliata un libro ormai introvabile: Opere complete di Learco Pignagnoli (e altre opere complete). Rispetto alla prima edizione (Aliberti, 2006), la raccolta vede il sostituirsi di 32 opere ad altrettante espunte, e l’aggiungersi di 176 nuove brevi prose.

Anche il suo autore, Learco Pignagnoli, è introvabile. Nessuno l’ha mai visto e certi malevoli dicono in giro che il suo nome non è che uno pseudonimo, che in realtà non è mai esistito e che il vero scrittore è un altro, che però si chiama Learco Pignagnoli pure lui. Le sue opere hanno raggiunto il pubblico grazie alla mediazione di Daniele Benati, che ne ha permesso la pubblicazione in prima battuta nella rivista Il Semplice – Almanacco delle prose, di cui era redattore, e che ha poi curato le due edizioni complete.

Benati ha più volte affermato di aver ricevuto le Opere complete di Pignagnoli tramite posta, in una busta senza recapiti o indirizzi. Le uniche note biografiche che le accompagnavano, riportate nel risvolto di copertina fin nella prima edizione del libro, asseriscono che Pignagnoli lavora presso la ditta Scoppiabigi e Figli, dove tiene dietro al loro lupo, e che è nato a Campogalliano e a San Giovanni in Persiceto. Perché Pignagnoli è l’unico scrittore al mondo ad essere nato in due posti diversi contemporaneamente. Gli eredi di Moravia, però, andati a cercarlo per riempirlo di botte, affermano di non averlo trovato né da una parte né dall’altra.

La vaghezza biografica è l’essenza stessa della poetica e della vita di Pignagnoli, iniziatore di un movimento che prende nome di assenzialismo. Pignagnoli non c’è mai, e si guadagna così un diritto di parola senza pari. È infatti dall’assenza di Pignagnoli, così inconcepibile nella società più voyeristica di sempre, che sorge la spinta catartica della sua opera: se l’autore scompare, la sua voce diventa di tutti.

Grazie a una lingua viva, dalla postura colloquiale, le sue sentenze dissacrano l’autorità, prendendosela ad esempio, sulla scorta di Thomas Bernhard, con i premi letterari, come nell’Opera n. 113:

Quando danno un premio a uno scrittore, cosa fanno? Gli danno un premio. Ma cos’è quel premio? Quel premio vuol dire che lo scrittore va lì sul palco e loro, gli organizzatori, gli scaricano addosso una buona quantità di merda delle loro parole. Lo scrittore non lo capisce subito, perché è lì coperto di merda e fa fatica a respirare. È la sua fidanzata, se ne ha una, che poi glielo fa notare. Lui, s’è inorgoglito, lei invece ha gli occhi attenti. Però delle volte ci sono fidanzate che amano proprio l’odore specifico di quella merda (pp. 42-43).

O con gli studenti troppo accondiscendenti. come nell’Opera n. 214:

Quelli che vanno a una conferenza tenuta dal loro vecchio professore d’università, non devono più andare a leccargli il culo dopo la conferenza. Vanno lì da lui dopo la conferenza a stringergli la mano e chiedergli come sta, con l’aria di aver imparato molte cose alle sue lezioni, oppure con l’aria di voler rinverdire un vecchio fruttuoso sodalizio culturale. Questa è una visione che dà fastidio agli occhi (p. 90).

Non dà tregua nemmeno alla religione:

Gesù Cristo ha detto: Coloro che crederanno in me non moriranno mai. E così, ai suoi tempi, è riuscito a farsi dei seguaci. Ma se avesse detto: Coloro che crederanno in me moriranno subito, di seguaci non se ne sarebbe fatto neanche uno (p. 20)

Fin nel nome uno scrittore assume una posizione morale. E Pignagnoli al suo tiene moltissimo. Anche se a volte forse se ne dimentica. Come nell’opera numero 16, in cui dice di chiamarsi Silvio Soncini; o nell’opera 24, in cui la madre lo chiama Giuliano; o nella 151 dell’edizione Aliberti, assente nella versione aggiornata, in cui afferma di essere Fausto; nell’opera numero 244 dice di fare Bonini di cognome; nell’opera numero 272 invece il suo nome è Cianuro. Esiste poi un romanzo autobiografico di Learco Pignagnoli, che si intitola Giacomo. Perché Pignagnoli sa che essere sé stessi in fondo è un po’ una truffa e nell’Opera n. 332 fa di sé un autoritratto:

Uno che in un enorme stanzone, tipo refettorio di caserma, fa risuonare la seguente domanda pronunciata ad alta voce: Chi può dirmi chi sono io?

Pignagnoli ha però scelto di essere Pignagnoli, di vivere una vita che si riscrive continuamente, di porsi in posizione anarchica, contraria a ogni costruzione di autorità, che a volte inizia proprio dal nome che si decide di indossare. Come è il caso di Alberto Moravia:

Moravia di vero nome si chiamava Alberto Pincherle. Poi ha fatto il furbo e s’è cambiato il nome perché non si sapesse. (Opera n. 100, p. 36)

Alla costruzione dell’autorità di Moravia, Pignagnoli oppone il comico, la sua voce dissidente. Se Moravia ha scelto di essere lo Scrittore, Pignagnoli ha scelto di non esserci. Il suo è un nome senza corpo, uno pseudonimo antibiografico: «Che non ci confondiamo con Moravia. Con Learco Pignagnoli voi vi mettete lì, non leggete niente, non voltate pagina, ma almeno lo sapete che non state leggendo niente» (p. 140).

Anche sulla professione svolta da Pignagnoli, oltre a quella di scrittore e di impiegato non meglio precisato per la ditta Scoppiabigi e figli, ci sono molti dubbi. Nel romanzo autobiografico Giacomo sembra che il protagonista, Giacomo, e quindi Learco Pignagnoli, non facesse molto altro oltre a vagare per le stanze e spiare la sua scrivania per prenderla di sorpresa. Grazie a Daniele Benati, sappiamo che Pignagnoli è anche pittore e che i suoi quadri sono riconoscibili per un soggetto poco rappresentato sulla tela: il tavolo.



Dalle prose che Pignagnoli ha aggiunto nella nuova edizione Quodlibet, scopriamo che in passato ha svolto la professione di insegnante, come si evince dall’Opera n. 269:

Una volta ho rotto i coglioni a un mio collega di scuola. Eravamo a un consiglio di classe, l’ultimo della giornata, si stava per finire, io in genere non dicevo mai niente oltre allo stretto essenziale, ma quel giorno mi era venuta voglia di non farli andare a casa e mi sono messo a rompere i coglioni a un mio collega (p. 128).

Nell’opera numero 73 Pignagnoli scrive che quando qualcuno gli chiede che lavoro fa lui risponde sempre che fa il libraio:

Oppure il bibliotecario. Delle volte dico anche che faccio l’editore. Poi, se mi chiedono come mi chiamo – e me lo chiedono sempre quando dico che faccio l’editore – gli rispondo che mi chiamo Giulio Einaudi; oppure Arnoldo Mondadori. Sono l’erede; gli dico. Loro mi guardano seri e subito dopo spunta qualcuno che dice d’aver scritto un libro, se vuole pubblicarlo. Un libro di che tipo? Gli chiedo, bello o brutto? Loro s’affrettano a dire che è bello, poi fanno un passo indietro per modestia (p. 27).

Forse Pignagnoli è tutto questo. O forse no. A volte non sapere è parte del patto coi lettori e ci si deve accontentare di quanto lui stesso scrive nell’opera numero 120:

Tante volte, di notte, mi chiedevo chi poteva essere Learco Pignagnoli. Me lo immaginavo come un venditore di cose al dettaglio, un rappresentante che girava per l’Emilia fermandosi nelle trattorie a mezzogiorno, e lì al tavolo, dopo pranzo, in attesa di un Fernet, buttasse giù tre o quattro righe. Non so perché, ma non riesco a vederlo in un altro modo. Tra le tante cose che ho pensato, questa è quella che continua a rimanere nella mia mente come più probabile. Forse perché anch’io, in tempi lontani, ho fatto la stessa vita, e mi piaceva, di tanto in tanto, scrivere (p. 46).

Dal 31 agosto le Opere complete sono tornate in libreria. Se ci saranno presentazioni Pignagnoli, sicuramente, non ci sarà.


Daniele Benati, Opere complete di Learco Pignagnoli e altre Opere complete, Quodlibet, pp. 240, 16 €