La Balena Bianca sospende le pubblicazioni fino a settembre. Anche stavolta non potevamo mancare di congedarci dai nostri lettori con gli ormai leggendari consigli di lettura estivi a cura della redazione. È stato un anno intenso, la rivista ha raggiunto l’importante traguardo dei dieci anni di pubblicazione.

Ci prendiamo una pausa, ma siamo già al lavoro per realizzare nuovi progetti per il futuro. Buone vacanze dalla ciurma!


Francesca Mattei, Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, Pidgin (Ambrogio Arienti)

Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è una raccolta di racconti che hanno in comune, si potrebbe dire, un’atmosfera: sono quasi tutte storie di ragazzi sulla soglia dell’età adulta, o meglio vicini all’età sfumata in cui si è troppo vecchi per essere adolescenti e troppo confusi per essere adulti; raccontano molteplici tentativi di fuga dalla provincia italiana, così appiccicosa e desolata; sono affollati di amori e amicizie fallimentari, e ambientati in giornate e notti di birre, chiacchiere, cocaina, noia. Sono racconti nella maggior parte brevi e brevissimi, dove regna una prosa paratattica, che procede per frasi affilate, secche. Ho notato però che in alcuni punti, quando questo procedimento a salti s’interrompe, si aprono delle pagine più aperte, vuoi perché alcune frasi sono più articolate, vuoi perché attraverso l’elenco o la ripetizione di parole e sintagmi si viene a creare un ritmo, una cantilena. Lì, in questi punti di sovraccarico, i protagonisti svelano il loro cuore, colmo di disperazione e – teneramente, paradossalmente – voglia di cambiare, di essere migliori. Francesca Mattei ha scritto una raccolta d’esordio viva e pulsante – fa pensare proprio che sì, non c’è da aspettare che qualcos’altro, un libro che faccia ancora brillare questi temi e questa dote di scrittura.


Romy Golan, Flashback, Eclipse. The Political Imagery of Italian Art in the Sixties, Pricenton University Press (Camilla Balbi)

Flashback, Eclipse. The Political Imagery of Italian Art in the Sixties, il nuovo saggio di Romy Golan, non è soltanto un libro di storia dell’arte, o di storia delle mostre. È, soprattutto, una complessa macchina ottica: un dispositivo teorico di trappole visive, anacronie e giochi di luce che mette in moto, con rigore archivistico e coraggiose intuizioni metodologiche, la nostra storia recente. Il vero oggetto del libro è, in sostanza, “quello che gli anni Sessanta non dicono”: la rimozione fobica, e imperfetta, del passato fascista da una cultura d’avanguardia che si è soliti immaginare concentrata sulle battaglie del presente e proiettata verso un futuro da immaginare. Tre case studies: gli specchi di Pistoletto, Campo Urbano (1969) e La Vitalità del negativo (1970) incorniciano uno dei decenni più intensi della cultura italiana, attraversando il ’68 e gli anni di piombo, l’Italia e l’Europa, l’Italia e l’America, soprattutto, l’Italia e se stessa. Un ordine cronologico continuamente disatteso, sospeso, cortocircuitato in complessi giochi di specchi, che portano alla luce intuizioni nuove, analogie segrete tra arte, cinema, architettura, passati vicini e lontanissimi. Cosa ci fa Giordano Bruno a Como nel 69? In che modo Warburg si nasconde nei progetti editoriali di Munari? Antonioni dietro gli specchi di Pistoletto? Nella sua storia, stratificata e coltissima, di omissioni, mascheramenti e tradimenti, in cui, eppure, tout se tient, Golan ci dimostra che è possibile realizzare una filologia senza cronaca, una storia senza linearità, un immaginario senza staticità.


Viola di Grado, Fame blu, La Nave di Teseo (Olga Campofreda)

Con il suo ultimo romanzo Viola Di Grado conferma un’attenzione profonda per il mostruoso umano e lo fa inventandosi un linguaggio in cui prosa e poesia sono in costante lotta tra loro nel tentativo di dominarsi a vicenda. Dopo aver raccontato la degenerazione di un corpo dopo la morte (Cuore cavo, 2013) e le conseguenze delle catastrofi nucleari sulla vita (Fuoco al cielo, 2019), in questo nuovo capitolo la deformazione attacca un livello ancora più profondo: quello dell’animo ossessionato da un’attrazione. In Fame blu la protagonista e voce narrante arriva a Shanghai per realizzare almeno in parte il sogno di suo fratello, morto poco tempo prima. È qui che conosce Xu, una ragazza cinese “dai capelli color catrame e stupenda”. L’amore non corrisposto eppure consumato in una metropoli cupa e quasi distopica è un sentimento che Di Grado analizza con la precisione di una vivisezione, mentre l’uso delle metafore e le frequenti riflessioni sul linguaggio aprono a mondi paralleli e onirici, non per questo meno reali. Una prova di scrittura notevole che invita i lettori a scrutare nel punto più profondo e buio di se stessi.


Maxim Loskutoff, Ruthie Fear, tr. it. di L. Taiuti, Black Coffee (Carolina Crespi)

Loskutoff vive in Montana e in Montana ambienta questo piccolo gioiello tradotto da Leonardo Taiuti di Edizioni Black Coffee. Ruthie Fear, la sua eroina, cresce insieme al paese in cui abita che da luogo sperduto della Bitterroot Valley, popolato di alci, orsi e lupi e creature misteriose, si trasforma con gli anni in meta prediletta di amanti dell’arrampicata, ex giocatori di football e cicloturisti. Ai piedi della catena dei Bitterroot e dei monti Sapphire, scorre il fiume sulle cui sponde cacciatori, predicatori, cercatori d’oro e indiani Flathead hanno costruito le proprie case e i propri dissidi interni, e ora si sentono minacciati dall’avanzare della gentrificazione. Ruthie cresce nella sua casa mobile, possiede tredici fucili e si allena sparare da una casupola che suo padre le ha costruito quando ancora era una bambina. Da adolescente prova ad andarsene, ma Los Angeles è troppo poco e allora torna per cercare una creatura misteriosa che non è mai riuscita a comprendere cosa fosse. Un romanzo di formazione e avventura, ma anche una critica all’avanzata del nuovo che, mentre abbellisce, rovina, ignorando l’apocalisse che da tempo segnala il suo arrivo imminente.


Alberto Ravasio, La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, Quodlibet (Claudia Dellacasa)

Libro generazionale: sul posto mancato dei trentenni nella società circostante, sullo spazio eccessivo di relativi padri e madri, sulla quasi impossibilità di dare vita a nuove vite, non avendo ancora capito la propria. E allora anche saga familiare, cronaca provinciale, storia d’amicizie (poche) e amori (ancora meno). Di generi che cambiano, generi in tutti i sensi. Di un linguaggio che si plasma su una moltitudine di fluidità. Soprattutto, di una mancanza di coordinate, di un’imprendibilità di fondo del reale attingibile per approssimazioni e per iperboli a un tempo, con un registro colto e sfacciato, letterariamente riverente e irrispettoso. Un racconto insomma sulle contraddizioni. Fatto di contraddizioni esistenziali ma soprattutto sospeso nello spazio esilarante tra gli opposti che tali contraddizioni nutrono: maschile e femminile, crescita e regressione, consapevolezza intellettuale e sbaraglio emotivo. Per chi voglia conoscere la voce nuova e volontariamente stonata di Alberto Ravasio, che (dis)armonizza le voci interiori di tanti suoi coetanei parlando di Guglielmo Sputacchiera, individuo corale, protagonista cangiante, singolo dimezzato, o moltiplicato.


Luciano Bianciardi, Non leggete i libri, fateveli raccontare, intr. P. Corrias, Neri Pozza (Michele Farina)

In occasione del centenario dalla nascita dell’autore, torna in libreria un manualetto postumo di Luciano Bianciardi dal titolo imperativo. Composto di sei modeste proposte pubblicate su «ABC» nel 1966, l’opuscolo è rivolto a tutti quei giovani privi di talento che vogliano salvarsi della mediocrità facendo carriera come intellettuali. A mezzo secolo di distanza, la falange dei potenziali beneficiari di queste norme sembra essersi tutt’altro che assottigliata. In un numero contenuto di pagine l’interessato troverà diverse indicazioni di immediata applicazione: 1) un vademecum per navigare la densa nebbia intorno al termine intellettuale; 2) consigli su come pianificare la propria scalata all’Elicona in economia di sforzi; 3) una persuasiva dissuasione dalla necessità di leggere libri; 4) linee guida per un matrimonio vantaggioso; 5) fondamenti di “bossologia”, la scienza che studia i padroni e il modo migliore di accostarvisi; 6) un’infarinatura sull’impiego delle marcature calcistiche in ambito lavorativo. La satira di Bianciardi è talmente equilibrata e nutrita di empiria da risultare davvero utile a chi sia abbastanza smaliziato da volersene servire. Tutti gli altri avranno modo di riapprezzare la straordinaria capacità di osservazione di uno dei nostri maggiori polemisti e, perché no, di farsi anche qualche sghignazzo. Insomma, concedetevi un’ultima contravvenzione al titolo di questo aureo libretto: non fatevelo raccontare, leggetelo.


Valeria Della Valle, La strada sognata, Einaudi (Giacomo Raccis)

Lo stupore con cui Livia apprende che le tessere colorate che da qualche giorno sta componendo sul cartone che ritrae una piazza assolata e una statua di donna daranno vita al Sonno di Eva, un mosaico di Alberto Savinio, e il candore con cui apprende l’importanza di questo artista, sono forse uno dei tratti più caratteristici della Strada sognata di Valeria Della Valle. Tra le pagine di questi dieci, calibratissimi racconti rivivono aneddoti reali e immaginazioni plausibili che fanno perno sul piccolo grande mito di via Margutta, la via romana degli artisti, la «strada sognata», appunto. Ma quel che rende questa raccolta preziosa è proprio il fatto che la curiosità aneddotica – e il gusto per una quotidianità cosmopolita in cui s’incrociavano severe giornaliste svedesi e famiglie armene dal passato innominabile – lascia il passo alla precisione di uno sguardo che riscopre continuamente il mondo. È lo sguardo di Livia e poi quello di Adele, madre e figlia, testimoni di una storia fatta di piccoli momenti privati, di incontri per lo più destinati a lasciare traccia in una memoria che – sembra essere la lezione di questo libro – può sopravvivere anche alle persone, per diventare patrimonio di una comunità, di un luogo, che continua a vivere nell’immaginario.


Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Sossella (Marcello Sessa)

Saggio in senso pieno, ma non in senso stretto. Corrado Bologna vi innesta il suo oggetto di analisi e la sua formazione, da filologo romanzo, come una margotta. Ne crescono poi, in direzioni difficili da controllare, rami nuovi e foglie variopinte. In origine doveva essere «uno studio sul silenzio», e si è trasformato in un tentativo di avvicinamento a un momento imprendibile: l’emissione vocale. Uno scarto, uno iato, che rappresenta qui, nella struttura a dittico del libro, sia il luogo più adatto per cercare le condizioni di possibilità e le conseguenze del gesto poetico, sia la garanzia tangibile (se si dice qualcosa in qualche modo si sente) della pragmatica della comunicazione umana. E per iscritto, per di più! L’erudizione in questo caso non è ostacolo, essendo versatile e apertamente dispiegata con effetto di schianto sui lettori che, travolti da glosse rare e citazioni preziose, alla fine avvertono la potenza della voce (e la sua presenza nella scrittura). Elvio Fachinelli raccontava di aver ritrovato, sulla spiaggia e con un’eco, il brivido emotivo della “mente estatica” prenatale: «Come scrivere tutto questo?», si chiedeva. Con un linguaggio che inscriva in sé stesso suono, rumore e silenzio, gli risponderebbe Bologna.


Sam Kean, La brigata dei bastardi, tr. it di L. Civalleri, Adelphi. (Alessio Verdone)

Le opere con una visione multiprospettica e interdisciplinare trovano da sempre una casa accogliente nella preziosa Collana dei casi di Adelphi. Nel recentissimo La brigata dei bastardi, Sam Kean – autore del geniale Il cucchiaino scomparso e altre storie della tavola periodica degli elementi (2012) – ci guida, con grande sapienza narrativa, tra le strade tortuose della «più romantica delle scienze» (p. 11), la fisica, che mai come nel Novecento ha influenzato l’esistenza dell’umanità intera. Il libro racconta «l’epico tentativo» (p. 12) degli Alleati di impedire a tutti i costi la costruzione della bomba atomica nazista. L’autore segue le vicissitudini dei protagonisti di questa impresa, illustri scienziati e personaggi improbabili che improvvisamente si ritrovano proiettati al centro della storia. È in questo modo che Kean dà vita a una narrazione in cui scienza, fatti personali e storia dell’umanità si intrecciano fino a formare una di quelle opere in cui la gioia della scoperta si unisce al piacere della lettura.


Matteo Melchiorre, Il Duca, Einaudi (Andrea Brondino)

Ambientato in un paese di montagna del Nord Italia, Il Duca racconta l’escalation di una faida sorta per futili motivi tra un proprietario terriero della zona e il protagonista (il Duca, appunto), erede di una nobile famiglia della zona. La forza centripeta del passato, la crisi ecologica, la facilità con cui ci si presta a guerre private senza apparenti motivi, l’amore per le contrapposizioni senza costrutto: questi i temi principali del Duca, che però, essendo un romanzo e basta (senza ulteriori aggettivi, un raro lusso nel panorama letterario contemporaneo), si occupa di un po’ di tutto. Si fa fatica a ricordare un altro romanzo italiano recente con una trama tanto avvincente come quella de Il Duca. Eppure, ciò che rende il romanzo d’esordio di Matteo Melchiorre tanto interessante non è, come spesso succede, un intreccio ricco di colpi di scena o un linguaggio piano sul quale l’occhio del lettore scivola senza attriti; anzi. È lo stile del Duca a rendere unico questo romanzo: uno stile colto ed elaborato, preciso e ricco di aggettivi e avverbi. La voce del narratore è memorabile e riflette la meticolosità del lavoro di Melchiorre sulla lingua. Dati temi e ambientazione del libro, il rischio di scivolare nella mimesi della parlata dialettale, nel colore locale, nella “scena di paese” (aspetti che, se non riportati con cura, in letteratura sconfinano spesso nella macchietta), era alto. Il Duca,tuttavia, evita di cedere a simili regressioni grazie a un tono epico e razionale al tempo stesso (alchimia misteriosa, al centro, non a caso, dell’ultimo capitolo del Duca). Un tono sobrio e incantato che guida il lettore dall’inizio alla fine, riuscendo nell’intento di non suonare mai ridicolo né eccessivo. Come la cornacchia con le ali bianche che accompagna il protagonista nei momenti cardine della vicenda, anche Il Duca è un esemplare piuttosto raro di romanzo italiano.  


Emanuela Canepa, Quel che resta delle case, Tetra, 2022 (Stella Poli)

Con una scrittura misurata, quasi attuttita, Emanuela Canepa affresca un microcosmo familiare semplice: una bambina silenziosa, figlia unica, legata a una nonna affascinante, indisponibile ai più e – quasi sullo sfondo – due genitori in una relazione-bilico delle rispettive mancanze, come a volte le relazioni dai baricentri incerti. Un trasloco, nel mezzo, e verrebbe quasi da dire, non fosse semplice, che le case infelici, nemmeno quelle si somigliano. Esatta e potente, la narrazione di Canepa sta in poche pagine, di un formato quadrato elegante.

È uno dei quattro titoli d’esordio di Tetra, casa editrice nata il 4 maggio, promettendo, ogni quattro mesi, quattro racconti. Il gioco onomastico sta, naturalmente, in questa persistenza numerica, ma, leggendo La notte delle ricostruzioni, di Andrea Donaera, uscito insieme a Canepa, si colora di un sovrappiù di atmosfera, quasi quel ‘tetro’ nel nomen stesse a presagio. Donaera coglie un trentenne incrostato nello squallore di un’esistenza che prova a riavvolgere verso la provincia d’origine, acuendo, in realtà, il disastro. Resta, nei giorni a venire, l’impronta di questi testi, delle voci, di questa forza d’urto della forma breve.


Wolfgang Hilbig, Le femmine / Vecchio scorticatoio, tr. it di R. Cravero e R. Gado, Keller (Simone Giorgio)

Nel vasto e ormai persino inflazionato panorama del weird contemporaneo, le cose più interessanti sembrano provenire dalla penna di scrittori dello spazio post-sovietico. Non è difficile immaginare il perché: se davvero la caratteristica del weird, per seguire Fisher, è la presenza dello strano nel familiare, nulla più di un posto dove si incontrano le macerie del socialismo reale e le storture del capitalismo contemporaneo si presta meglio a questo tipo di narrazione. E l’immaginario evocato da Hilbig è esattamente questo appena descritto: scrittore nato nella Germania Est, le sue opere sono passate inosservate per quasi tutta la sua vita, finché negli anni zero non ha cominciato ad avere fortuna – almeno in patria. Questi due racconti lunghi, composti mentre a Berlino ci si preparava a picconare il Muro, non mettono semplicemente in scena il disfarsi del blocco sovietico: mettendo a frutto la lezione del modernismo più tardo, Hilbig introietta questo disfacimento nella sua stessa psiche, cosicché all’immaginario post-industriale di queste narrazioni corrisponde un trauma nell’inconscio dell’autore che viene fuori attraverso la scrittura. Se il primo racconto, Le femmine, descrive l’azione castrante del regime dittatoriale e la censura del desiderio all’interno di un contesto di industrializzazione pesante, è nel secondo che viene fuori la vena più propriamente poetica di Hilbig – vena attraverso la quale il vecchio scorticatoio diventa al tempo stesso matrice degli incubi totalitari e promessa non mantenuta di un futuro migliore, rovello esistenziale in cui ciò che poteva essere non è stato e ciò che è stato è un trauma: in una prosa soverchiante, ottimamente tradotta da Riccardo Cravero e Roberta Gado, Hilbig deforma la concezione dello scorrere del tempo, disordinandone la consequenzialità logica, e recupera la lezione di Céline e Joyce per costruire un poema in prosa sul tramonto della Germania Est.