Il porno è una forma di cinema dannatamente superficiale. E, dalle superfici, trae la sua forza: superfici di carne, piaceri superficiali, patti di non-identificazione. La porno-esperienza a 360 gradi ha dunque poche, semplici regole: go with the surface, osserva da lontano, non farti domande. Perché quello che sta sotto non concerne questo momento. Oppure, come propone Pleasure – debutto alla regia di Ninja Thyberg, presentato al Sundance film festival nel 2021 e da qualche giorno disponibile su MUBI – perché, visto in profondità, il porno potrebbe non gustarti allo stesso modo.

L’argomentazione si svolge così. Los Angeles. La diciannovenne Bella Cherry (Sofia Kappel, esordiente davanti alla macchina da presa) atterra negli Stati Uniti dalla Svezia per diventare la next big thing dell’industria del porno, di cui la città californiana è capitale. Tra prime amicizie con giovani colleghe, difficili relazioni con gli agenti, e l’adattamento a un ambiente dapprima esplorato solo a distanza di sicurezza, Bella, novella Virgilio, guida il pubblico attraverso la commedia umana del porno, affrontando, girone dopo girone, paura, ambizione, spaesamento, tradimento, e violenza (alla lista dei vizi manca, notevolmente, la lussuria, perché sempre di business si parla). Una discesa che ribalterà il suo ruolo, da osservatrice di porno a oggetto osservato del porno, e che la inserirà su un percorso di crescita e formazione accelerato: quello dove, prima o poi, si fa rendez-vous con i lati sepolti della propria personalità.

Un film a tesi dunque, Pleasure, che strizza l’occhio al documentaristico mentre volge verso il Bildungsroman, e che seleziona professionisti della porn industry al posto dei più classici attori caratteristi (tutto il cast, tranne Kappel). Un film nato da approfondite ricerche sul campo di Thyberg e che fenomenologizza il tema dello sguardo da una vasta gamma di angolazioni: quella della regia, che mima l’invasività e le tecniche della ripresa porno; quella, autodiretta, di Bella, che scruta attentamente ogni centimetro del suo corpo e che si pone a modificarlo pur di inseguire il suo sogno; quella, eterodiretta, di Bella verso le altre ragazze del sistema; quella della controparte maschile di turno di Bella, insieme all’imposizione di potenza che esprime. Lo sguardo e la sua direzione, afferma Thyberg con ogni componente di Pleasure, sono potere, desiderio. E l’arma più efficace per non cadere preda delle occhiate di sottomissione è la consapevolezza, la continua indagine del sistema, dove i cambiamenti, per la regista e la sua storia, possono avvenire solo dall’interno.

Programmaticamente, e contrastando la limpida segretezza del porno, Pleasure è un lavoro che non tace nulla di sé, che, anzi, si pone come sussidiario ben delineato sul tema. Un corso accelerato, che in 108’ stende le basi per chiunque, da questa o quella parte dello schermo, volesse accostarsi al cinema del piacere superficiale. Perché Pleasure è mainstream, non-complicato, colorato di pop – letteralmente: Thyberg traccia le influenze della fotografia di Pleasure a Spring Breakers (2012) di Harmony Korine –, eppure conserva il briciolo di pepe che, tematicamente, lo stacca dalla massa. Scavare, però, come insegna Thyberg, si deve. E scavando in Pleasure troviamo qualcosa di ruvido, che gratta, che lascia a bocca asciutta.

Viene in mente il male gaze – lo sguardo maschile – anzi, eterosessuale, cis, maschio – e la scopofilia che si porta dietro, teorizzati per il cinema da Laura Mulvey, secondo cui la settima arte intera è una giustificazione del voyeurismo più pernicioso e sessualizzato. Ma Thyberg scansa la questione. Vengono in mente le minoranze lasciate intonse dall’analisi del film, che porta solo brevemente sullo schermo la problematica feticizzazione del corpo degli uomini afroamericani, esclusivamente appaiati a co-star donne, e caucasiche, per il piacere proibito del* fruitor* finale. Anche questa, scansata. Soprattutto, viene in mente un’apertura, uno scivolamento di prospettiva verso la fine della lunghezza di Pleasure. Uno spiraglio squarciato di sfuggita, attraverso il quale osserviamo Bella, consumati voyeur a nostra volta nel confortevole buio del salotto, performare una scena ragazza-ragazza a strap-on con la collega-rivale Ava (Evelyn Claire), durante la quale assistiamo a dinamiche di vendetta e, allo stesso tempo, allo svolgersi di un malcelato, parassitario desiderio. Complice il climax attoriale di Kappel per la sequenza – la performance di Kappel nel complesso, per un esordio, è degna di lode –, ora ne siamo certi: è qui che Thyberg avrebbe potuto affondare il coltello, qui invece che serra il manico su una conclusione affrettata, rinfoderando l’arma più affilata nell’arsenale di Pleasure. Che, ovvero, faremmo tutti l’impossibile per sottomettere un nostro simile, qualsiasi la motivazione. Che instauriamo giochi con regole ben codificate, e che, forse, ci piace che conti più la posizione occupata rispetto alla natura dell’occupante.

Ci sarebbe di che riflettere, e in profondità. Perciò, pleasure to meet you, Ninja Thyberg, anche se a un primo incontro un po’ superficiale. Siamo certi sentiremo nuovamente parlare di te, e in maniera più approfondita. Siamo certi che questa prima prova, un po’ come il percorso di Bella e Kappel, sia solo l’inizio.