La storia potrebbe essere questa (ometterò la fine): una famiglia di New York – madre, padre e due bambini, ma non apprendiamo i loro nomi – si mette in viaggio per gli Stati del sud: Texas, New Mexico, Arizona. I genitori – marito e moglie – si sono conosciuti quattro anni prima, lavorando a un progetto di ricerca che doveva mappare i suoni e le lingue di New York. Sono acustemologisti, o documentaristi, o documentecari: il senso del loro lavoro e quindi le loro specifiche professionalità, e come chiamarle, sono discussi ripetutamente. Il figlio maschio ha dieci anni e biologicamente è figlio di lui ma non di lei (la madre biologica è morta); la figlia femmina ha cinque anni e biologicamente è figlia di lei ma non di lui (il padre biologico è assente). Quando si mettono in viaggio, il matrimonio dei genitori è in crisi. Il marito progetta di registrare gli echi, o i fantasmi sonori, degli Apache, che un tempo abitavano i territori verso il Messico, e l’idea del viaggio è stata sua. La moglie ha aderito per documentare le storie dei bambini migranti che cercano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti. Spera inoltre di trovare notizie delle due figlie bambine di una donna conosciuta a New York, che dal Messico meridionale stanno cercando di raggiungere la madre negli Stati Uniti. Così partono tutti e quattro, genitori e bambini, ma la moglie teme, o comunque prefigura, che alla fine del viaggio la famiglia si dividerà: suo marito resterà a sud con il figlio, mentre lei e la figlia torneranno a New York e la separazione sarà definitiva. I bambini percepiscono l’incertezza che grava sul futuro della famiglia e ascoltano le storie dei genitori – quelle del padre, sugli Apache, e quelle della madre, sui bambini migranti o perduti, come i due bambini cominciano a chiamarli – e un giorno decidono di scappare. Identificandosi con i bambini perduti e temendo la fine del viaggio, scappano verso l’Echo Canyon degli Apache, o verso il deserto che i bambini perduti cercano di attraversare. Non dirò come finiscano la fuga e il romanzo.

Anche questa sintesi monca, d’altra parte, dovrebbe mostrare che Lost Children Archive non offre tanto una storia, quanto un coacervo di storie: della famiglia, dei migranti, delle due bambine e degli Apache. Proviamo a stratigrafare…

La prima storia è quella della famiglia, o del viaggio verso sud e del matrimonio in crisi. È fatta di conversazioni e giochi in automobile, soste nei motel e presso case in affitto, incontri occasionali, brani musicali e notiziari, domande ripetute all’infinito – «Quanto manca?» – e pranzi in tavole calde prima di riprendere la strada. A emergere sono soprattutto i due bambini, ai quali tornano costantemente i pensieri della madre, che della prima parte del romanzo è la narratrice. Ed è una storia che di per sé non presenta eventi drammatici, prima della fuga finale, ma che in vari modi funge da asse portante per le altre storie e da matrice di una riflessione che la narratrice svolge sul raccontare.

Già nel secondo paragrafo (il libro è diviso in quattro parti, divise in capitoli, divisi in paragrafi titolati), la narratrice pone infatti il problema del racconto come responsabilità: i bambini chiedono o chiederanno conto e loro, i genitori, dovranno rispondere. Il racconto, come assolvimento di responsabilità verso i bambini, deve offrire qualcosa che sia degno del nome di storia: qualcosa che abbia «a beginning, a middle, and an end» (5) [«un inizio, uno sviluppo e una fine» (11)].

Così avrebbe detto anche Aristotele, ma raccontare non è facile e la narratrice non nasconde le proprie difficoltà. Riflettendo sulla propria incapacità di spiegare la crisi del proprio matrimonio, si trova a dire che l’inizio, lo sviluppo e la fine che imponiamo alle storie «are only a matter of hindsight» (62) [«non sono che una questione del senno di poi» (78)]. Un inizio vero e proprio della crisi non c’è stato e il suo racconto non traccia un arco narrativo che per un climax – sono parole sue – pervenga a un finale. E la difficoltà non è tecnica, ma radicale: il racconto non si struttura perché non può fondarsi su una comprensione del passato e su una visione del futuro. Ciò vale per la narratrice e per la sua difficoltà privata di raccontare ai figli la storia della loro famiglia e della crisi sopraggiunta, ma anche per la società, che sembra incapace di trovare una posizione rispetto al proprio passato e al proprio futuro:

«time feels like only an accumulation. An accumulation of months, days, natural disasters, television series, terrorist attacks, divorces, mass migrations, birthdays, photographs, sunrises. We haven’t understood the exact way we are now experiencing time» (103)

[«il tempo sembra soltanto un’accumulazione. Un’accumulazione di mesi, giorni, disastri naturali, serie televisive, attacchi terroristici, divorzi, migrazioni di massa, compleanni, fotografie, albe. Non abbiamo capito come esattamente viviamo il tempo oggi» (125)].

A ciò si aggiunge, nella dimensione della famiglia come in quella della società, la difficoltà di dire chi siamo noi. Chi forma il gruppo in cui ci riconosciamo e quali sono le relazioni fra noi come membri di un gruppo, che per la narratrice, suo marito e i loro bambini è innanzitutto la loro famiglia? «[U]ntil now at least, our family lexicon defined the scope and limits of our shared world» (6) [«almeno finora, il nostro lessico famigliare ha definito l’estensione e i confini del nostro mondo condiviso» (12)]. Ma i confini si destabilizzano: «I, he, we, they, she: pronouns shifted place constantly in our confused syntax while we negotiated the terms of the relocation» (26) [«Io, lui, noi, loro, lei: i pronomi cambiavano posto di continuo nella nostra confusa sintassi mentre negoziavamo i termini del trasferimento» (36)]. Raccontare la storia della famiglia ai bambini che lo chiedono, di nuovo, significherebbe radicare e consolidare il loro sentimento di sé come membri di una famiglia, ma la narratrice dubita di riuscirvi. Il racconto tenderebbe a una duplice performatività: non tanto prendere atto di una comprensione del tempo e di un gruppo già dati, che non resti che rispecchiare, quanto generare quella comprensione e costituire il gruppo al quale il racconto si rivolge e riferisce – o provare a farlo e rischiare di fallire, forse fallire:

«Conversations, in a family, become linguistic archaeology. They build the world we share, layer it in a palimpsest, give meaning to our present and future. The question is, when, in the future, we dig into our intimate archive, replay our family tape, will it amount to a story? A soundscape? or will it all be sound rubble, noise, and debris?» (29)

[«Le conversazioni, in una famiglia, diventano archeologia linguistica. Costruiscono il mondo che condividiamo, lo stratificano in un palinsesto, dando senso al presente e al futuro. La domanda è: in futuro, scavando nel nostro archivio privato, riascoltando il nastro della nostra famiglia, quelle conversazioni equivarranno a una storia? A un paesaggio sonoro? O saranno soltanto macerie di suoni, rumori e detriti?» (39)]. Che cosa saremo in grado di raccontare e che cosa quindi resterà?

La domanda, di nuovo, si impone non solo per la famiglia, ma anche per la società. Ritroviamo così il secondo strato narrativo, o la storia dei bambini migranti, alla quale la narratrice accede tramite un’esperienza come traduttrice e interprete volontaria per i minori richiedenti asilo. Per raccontarla, Luiselli attinge alla propria esperienza, della quale aveva raccontato in un saggio del 2017 (prima versione, più breve, del 2016) intitolato Tell Me How It Ends: An Essay in Forty Questions (Dimmi come va a finire. Un libro in quaranta domande). Le quaranta domande del titolo sono quelle del questionario che il Tribunale Federale per l’Immigrazione di New York somministra ai bambini che entrano negli Stati Uniti per chiedere asilo («Per quale motivo sei venuto negli Stati Uniti?»; «Quando sei entrato negli Stati Uniti?»).

I media italiani ed europei hanno parlato di questa migrazione soprattutto quando l’amministrazione Trump ha separato migliaia di quei bambini dai loro genitori, rinchiudendoli in gabbie che a qualcuno avranno ricordato quelle di Guantánamo, ma i flussi erano aumentati già nel 2014 e mentre scrivo, tra marzo e aprile del 2021, si registra un nuovo picco. Le nuove politiche dell’amministrazione Biden, più orientata all’accoglienza, hanno forse incoraggiato un aumento delle partenze. Luiselli, che dal 2015 lavora come interprete volontaria per le organizzazioni che assistono questi bambini, anche legalmente, usa le domande del questionario per raccontare ciò che accade. Ricorda che l’80 per cento delle donne e delle ragazze che si mettono in viaggio subisce uno stupro; che i minori morti lungo il viaggio sono decine di migliaia; che migliaia sono anche i rapimenti. Giovedì 1 aprile le autorità statunitensi hanno diffuso un video in cui due bambini vengono issati, probabilmente da trafficanti di esseri umani, in cima al muro che segna il confine tra Messico e Stati Uniti e poi gettati dall’altra parte, da un’altezza di quattro metri.

Sua figlia, racconta Luiselli nel saggio, le chiede come finiscano le storie di quei bambini; lei risponde che ancora non lo sa. I bambini chiedono conto, gli adulti non sanno che cosa rispondere.

«When I sat through courtroom hearings in the New York City Immigration Court – ora è la narratrice di Lost Children Archive a raccontare –, listening to and recording children’s testimonies, my recorder on my lap, hidden under a sweater, I felt that I knew exactly what I was doing, and why I was doing it. […] But as soon as I pressed Stop on my recording device, put all my staff into my bag, and went back home, all the momentum and certainty I had had slowly dissolved. And when I re-listened to the material, thinking of ways to put it together in a narrative sequence, I was flooded by doubts and problems, paralyzed by hesitance and constant concerns» (78)

[«Quando assistevo alle udienze del tribunale per l’immigrazione di New York, e ascoltavo e registravo le deposizioni dei bambini, il registratore in grembo, nascosto sotto un maglione, credevo di sapere con esattezza ciò che facevo e perché lo facevo. […] Ma non appena premevo Stop sul registratore, e riponevo le cose nella borsa e tornavo a casa, l’abbrivio e la certezza che mi era parso di avere lentamente si dissolvevano. E quando riascoltavo il materiale, pensando a come raccoglierlo in una sequenza narrativa, venivo inondata da dubbi e problemi» (97)].

I media, intanto, addensano intorno agli eventi un’altra congerie di discorsi, inevitabilmente conflittuali, talvolta improntati a patetismo, più spesso chiaramente xenofobici. «Everyone has an opinion on the issue – dice la narratrice –; no one agrees on anything» (40) [«Tutti hanno un’opinione in merito; nessuno è d’accordo su nulla» (52)]. Nessuno, soprattutto, sembra chiedersi perché questi bambini scappino dalle proprie città, nessuno sembra interessato a ricordare le responsabilità degli Stati Uniti rispetto alla violenza e alle lacerazioni del tessuto sociale dei paesi latino-americani da cui provengono i bambini. Il romanzo integra così un’inflessione politica in cui precipitano l’indignazione, la rabbia e la lucidità della narratrice (e, prima, dell’autrice, come ancora leggiamo nel saggio) e confluiscono i racconti del marito – terzo strato narrativo – sugli Apache. La storia delle tribù che si opposero strenuamente alla conquista dei bianchi diventa storie di Geronimo, di Cochise e degli altri capi Apache e dei bambini indiani che il marito, sulla strada, racconta alla famiglia (non senza pedanteria: l’ideologia del marito converge con la caratterizzazione del personaggio, avrebbe forse detto Michail Bachtin, senza che ciò la privi interamente di validità). Così i racconti del padre accendono l’immaginazione dei figli e, con la concentrazione della madre sulla tragedia dei migranti, cominciano a generare in loro ansia e una progressiva identificazione con quei bambini indiani, migranti e infine perduti. E a questa progressiva compenetrazione di storia familiare e storia sociale contribuisce anche la quarta storia, delle due bambine che dal Messico cercano di raggiungere la madre, amica della narratrice, negli Stati Uniti.

Accade allora che la difficoltà degli adulti di rendere conto di tutto ciò induca i bambini a prendere la parola. Alla fine della prima parte, la madre e narratrice ascolta il figlio maschio raccontare e pensa che

«[i]t’s his version of the story that will outlive us; his version that will remain and be passed down. Not only his version of our story, of who we are as a family, but also his version of others’ stories, like those of the lost children» (185)

[«sarà la sua versione della storia a sopravviverci; sarà la sua versione a restare e a essere tramandata. Non soltanto la sua versione della nostra storia, di chi siamo come famiglia, ma anche la sua versione delle altre storie, tra cui quella dei bambini perduti» (220)].

Finisce quindi la prima parte e, con l’inizio della seconda – «Reenactment» –, l’enunciazione narrativa passa al figlio maschio, che rivolge il proprio racconto alla sorella. I bambini si sono presi la parola. Sul seguito sarò più vago, ma dirò che si arriva a un capitolo intitolato «Echo Canyon», che è sostanzialmente il capitolo conclusivo, se non per una coda, nel quale tutte le storie e tutte le voci convergono e si fondono.

A questo proposito, conviene dire che il romanzo è caratterizzato da un’intertestualità ampiamente ramificata. Ci sono i libri che la narratrice porta con sé in viaggio per riflettere sul proprio progetto: Le porte del paradiso di Jerzy Andrzejewski, La crociata dei bambini di Marcel Schwob, Belladonna di Daša Drdndić, Il piacere dell’archivio di Arlette Farge e un libretto intitolato Elegie per i bambini perduti, di una certa Ella Camposanto (libro immaginario e sul quale torneremo); i libri del marito, tra i quali Cuore di tenebra, Sulla strada e 2666; i libri citati in esergo ai capitoli; gli audiolibri che la famiglia ascolta in automobile, e in particolare Il signore delle mosche di William Golding e La strada di Cormac McCarthy; altri romanzi, poesie e testi di altro genere che si incontrano lungo la via; cinema: la versione di Bela Tarr di Satantango; la musica che i quattro ascoltano in macchina, dagli Andrew Jackson Jihad ad Appalachian Spring di Aaron Copland; e fotografia: Robert Frank, Sally Mann, Emmet Gowin, Walker Evans e altri. L’intertesto del romanzo è ramificato e multimediale e ciò si riflette anche nella composizione del testo, che diventa un fototesto con l’inclusione delle fotografie che il maschio avrebbe scattato lungo il viaggio con la Polaroid che la madre gli regala alla partenza. La complessità è tale che Luiselli, in coda al libro, aggiunge una nota in cui spiega che questi riferimenti multimediali «function as intralinear markers that point to the many voices in the conversation that the book sustains with the past» (381) [«servono da indicatori interlineari della moltitudine di voci presenti nel dialogo che il libro intrattiene con il passato» (435)]. E offre un elenco dettagliato delle citazioni e delle allusioni all’«archive that sustains this novel» (381) [«archivio di cui si alimenta questo romanzo» (435)]. L’intertesto del romanzo, in altre parole, è pensato insieme come voci in dialogo e come archivio e il concetto di archivio, ovviamente, si lega all’idea di documentare, per ricordare e poi forse per raccontare. Il romanzo stesso si presenta come archivio e comprende nella sua storia, con mise en abyme, il costituirsi degli archivi che genitori e figli raccolgono.

Nell’intertesto, inoltre, troviamo anche l’opera immaginaria di un’autrice immaginaria: Elegie per i bambini perduti, di Ella Camposanto. L’autrice sarebbe italiana e l’opera sarebbe una breve composizione di frammenti narrativi che raccontano di bambini migranti in viaggio. Luiselli scrive questi frammenti e li inserisce nel romanzo – archivio ed elegia – come testi che la narratrice e il figlio maschio leggono durante il viaggio. Per effetto di questa lettura, in particolare, la narratrice raggiunge la certezza di volere raccontare la storia dei bambini che non ce l’hanno fatta:

«The story I have to record is not the story of children who arrive, those who finally make it to their destinations and can tell their own story. […] [T]he story I need to tell is the one of the children who are missing, those whose voices can no longer be heard because they are, possibly forever, lost» (146)

[«La storia che devo incidere non è la storia di bambini che arrivano, di quelli che ce l’hanno fatta e possono raccontare la propria storia. […] [L]a storia che voglio raccontare è quella dei bambini che sono scomparsi, le cui voci non possono essere più udite perché sono andate perdute, forse per sempre» (175)].

Non sarà però la narratrice a raccontare questa storia, o non solo lei. Dovranno prendere la parola i bambini, come dicevamo, e dovremo seguire la loro fuga verso l’Echo Canyon per ritrovare gli echi degli Apache e le due bambine di cui la madre cercava notizie, nonché per essere, loro, bambini perduti e così riavere l’attenzione e la cura dei genitori, troppo concentrati su se stessi, sulla propria crisi e sui propri progetti.

Ancora una volta, il racconto può essere performativo: i bambini diventano i bambini perduti dei racconti e il capitolo «Echo Canyon» scorre come un flusso testuale di una ventina di pagine, sintatticamente continuo, in cui i racconti e le voci si fondono come «the uninterrupted murmur of other children who had died there before them» (326) [«l’ininterrotto mormorio dei bambini morti prima di loro e davanti a loro» (378)]. E con esse si fondono realtà e immaginario, quando i bambini reali – della realtà del romanzo – incontrano metaletticamente i bambini immaginari. Storie e voci, infine, si compongono.

Ma a che cosa serve tutto questo raccontare? Se anche il romanzo assolve alla responsabilità del racconto, che cosa cambia davvero? A chiederselo è la narratrice, che a tratti formula le domande che l’autrice e i lettori potrebbero porsi rispetto al romanzo e ai bambini migranti là fuori: «Why? What for? So that others can listen to them [questi racconti. N.d.R.] and feel—pity? Feel—rage? And then do what? No one decides to not go to work and start a hunger strike after listening to the radio in the morning» (96) [«Perché? Per cosa? Affinché altri possano ascoltarli e provare… pietà? Rabbia? E poi per far che? Nessuno decide di non andare al lavoro e cominciare uno sciopero della fame dopo avere ascoltato la radio al mattino» (118)]. La narratrice trova una risposta meno desolata poco prima di cedere la parola al figlio:

«stories don’t fix anything or save anyone but maybe make the world both more complex and more tolerable. And sometimes, just sometimes, more beautiful. Stories are a way of subtracting the future from the past, the only way of finding clarity in hindsight» (185-186)

[«le storie non aggiustano nulla e non salvano nessuno ma forse rendono il mondo più complesso e tollerabile. E a volte, soltanto a volte, più bello. Le storie sono un modo di sottrarre futuro al passato, il solo modo di fare chiarezza col senno di poi» (221)].

Al che potremmo aggiungere la trottola di Sartre e sperare che il libro serva almeno a chi la fa girare. Lost Children Archive (2019) è stato tradotto in italiano da Tommaso Pincio, per La Nuova Frontiera, come Archivio dei bambini perduti (2020). Chi dovesse fare lunghi viaggi in automobile potrebbe anche considerare l’audiolibro, con Valeria Luiselli nella parte della narratrice.


L’immagine nell’header ritrae un’opera di street art realizzata dall’artista francese JR sul muro al confine tra Stati Uniti e Messico. Questo contributo è scaturito a margine del sesto ciclo di incontri “Opere mondo”, curato da Paolo Giovannetti e Filippo Pennacchio e ospitato presso la Casa della Cultura di Milano. Al seguente link è possibile assistere all’incontro con Stefano Ballerio su Valeria Luiselli e reperire le registrazioni degli altri incontri del ciclo. Qui è invece possibile leggere e scaricare il pdf di questo articolo.


V. Luiselli, Archivio dei bambini perduti, trad. it di T. Pincio, Roma, La Nuova Frontiera, 416 pp., € 20.