In un articolo intitolato Finzioni a cui credere, apparso nel dicembre del 1984 su «Alfabeta», Gianni Celati traccia alcune idee che di lì a poco saranno alla base della raccolta di racconti Narratori delle pianure, libro di svolta rispetto alle sperimentazioni comiche coltivate fino a quel momento. In un passaggio del testo Celati riesce efficacemente a sintetizzare il punto della sua ricerca: «Noi crediamo sia possibile ricucire le apparenze disperse negli spazi vuoti, attraverso un racconto che organizzi l’esperienza, e che perciò dia sollievo… Crediamo che tutto ciò che la gente fa dalla mattina alla sera sia uno sforzo per trovare un possibile racconto dell’esterno, che sia almeno un po’ vivibile. Pensiamo anche che questa sia una finzione, ma una finzione a cui è necessario credere. Ci sono mondi di racconto in ogni punto dello spazio, apparenze che cambiano a ogni apertura d’occhi, disorientamenti infiniti che richiedono sempre nuovi racconti: richiedono soprattutto un pensare-immaginare che non si paralizzi nel disprezzo di ciò che sta attorno». Se la poetica del disorientamento e del pensare-immaginare per finzioni, condivisa per tutti gli anni ’80 in un proficuo scambio con l’attività fotografica di Luigi Ghirri, ha dato nuovo impulso all’opera di Celati, nondimeno questa esigenza di ricucire le apparenze, di organizzare orizzontalmente l’esperienza e prestare attenzione ai «mondi di racconto in ogni punto dello spazio» ha determinato un certo approccio allo sguardo, che potremmo definire sguardo delle pianure, anche al di fuori del discorso più strettamente narrativo.

Prova ne è l’aggirarsi sospeso tra spazio e memoria di Marco Belpoliti in Pianura, un’opera tradita da ogni etichetta che non sia quella di libro, in quanto nel suo svolgersi assume molte forme diverse: zibaldone, autobiografia, memoir, saggio narrativo, diario di viaggio. A prima vista le costanti che tengono assieme i pezzi sparsi (formalmente i brevi capitoli-istantanee) di questa vasta storia privata e culturale sono da una parte il grande palcoscenico della pianura padana, dall’altra il dispositivo allocutorio verso un misterioso e mai svelato tu a cui l’autore si rivolge per tutta la durata del racconto. Tuttavia è la lente scelta da Belpoliti per attraversare nel tempo e nello spazio la pianura che ci interessa maggiormente, un pensare-immaginare che non è per finzioni ma che cerca di elaborare in itinere un possibile racconto dell’esterno, assumendo quello sguardo risemantizzante della superficie di cui parla Celati.

All’inizio del libro l’autore si trova a vagare, quasi disperso, lungo uno dei tanti rettilinei padani tra l’infinito dell’orizzonte piatto e il finito geometrico della centuriazione. La sensazione è quella di essere solo un punto, disambientato nel paesaggio della propria storia biografica ma con gli occhi ben aperti sul mondo: «Quella che vado verificando qui sulla piatta pianura non è infatti una geologia della profondità, bensì della superficie. È lì che nella nostra epoca si depositano le cose, e la mia memoria non è una stratigrafia, una torta millefoglie, piuttosto una forma piatta, come la pianura dove sono nato». Belpoliti tornerà più avanti su cosa significhi venire dalla pianura, saggiando un possibile carattere antropologico dei suoi abitanti, ma qui è la percezione stessa delle cose e della memoria a essere influenzata da una forma del paesaggio fisico che diventa subito forma del racconto. Ci troviamo infatti di fronte a una serie non gerarchizzata di fatti, ricordi, riflessioni e descrizioni che fluisce per addizione, in cui il dato autobiografico appare come incidentale nella prospettiva ampia di una mappa che tutto comprende e dove nulla sembra spiccare veramente. L’occhio calviniano e l’attenzione leviana al fenomenico che Belpoliti ha applicato a molti dei suoi lavori di studioso e osservatore acuto della contemporaneità qui girano spaesati tra gli argini del Po e un’Emilia-Romagna puntiforme. Ognuno di questi punti di topografia fisica e culturale, dal Duomo di Modena alle Valli di Comacchio, dal DAMS di Bologna al minuscolo paese romagnolo di Campiano, non trova linee di collegamento che diano un disegno unitario alla cartina che l’autore si propone di esplorare. E i luoghi stessi restano muti senza l’incontro, la compagnia di qualcuno che ne ha tratto un senso, una visione. Prima di tutti Luigi Ghirri, vero nume tutelare del libro a partire dalla fotografia scelta per la sovracoperta. Come l’edicola sacra e l’albero sembrano scomparire o apparire tra le nebbie della pianura, creando quell’«incanto speciale» e quella «inquieta tranquillità» di cui parla Belpoliti nei capitoli iniziali, così il flusso del racconto è sempre sul punto di affiorare o di reimmergersi nell’indistinto della geografia. La «visione atmosferica» ricercata da Ghirri e Celati, per cui le apparenze delle cose più consuete si caricano di un filtro che riconduce al sogno e al mistero, a un altrove che può sconfinare verso la foce del Po come ai bordi della Via Emilia, è assunta da Belpoliti per sondare gli spazi della propria memoria personale intrecciata con quella collettiva. Tutto è visto come già consegnato in una fotografia, fissata per sempre ma incessantemente scrutata nel dettaglio e da molteplici punti di vista.

E se Celati e Ghirri sono le guide generali di questo viaggio, ogni luogo ha la sua particolare: John Berger per il paesaggio fluviale, Montale per Comacchio e le sue anguille, Giuliano della Casa e Antonio Delfini per il centro di Modena, Piero Camporesi e Giuliano Scabia per Bologna, Marco Martinelli e Ermanna Montanari per la Romagna, Giovanni Lindo Ferretti e Pier Vittorio Tondelli per l’Emilia paranoica e malinconica, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi per Milano. Gli incontri personali e i ricordi familiari si alternano alle annotazioni letterarie, storiche, naturalistiche e antropologiche. Che si parli della produzione dell’aceto e del latte, della geologia padana, dell’urbanistica di Reggio Emilia, dell’architettura dei palazzi modenesi o dell’attività di artisti eccentrici che hanno attraversato il secondo Novecento come Giulia Niccolai o che sono rintracciati in un antico passato come Opicino de Canistris, ogni cosa depositata ben in vista si vela e sfoca in quel sentimento di pianura, chiamato in dialetto magon, che Belpoliti riprende da Delfini e Tondelli. È una nostalgia, un essere «ansiosamente malinconico» senza ragioni apparenti che può portare alla perdita della lucidità, a un carattere umorale e lunatico tipico degli abitanti della bassa e ben rappresentato nella letteratura recente da Cavazzoni. «Pianura, nostalgia e magone sono una sola cosa», recita la chiusa del capitolo dedicato a Tondelli.

Credo sia questo lo spirito con cui è stato scritto il libro, cercando di mantenersi su un difficile argine tra spinta emotiva, il magon, e acutezza dello sguardo, inseguendo un binomio che non è più quello pasoliniano di passione e ideologia ma che unisce l’umore della propria terra alla assidua frequentazione della nozione di «scienza diagonale», un approccio al sapere ripreso da Caillois e più volte approfondito da Belpoliti nel corso dei suoi studi. In questo senso l’emotività dello sguardo e il dato autobiografico, che emerge a tratti negli accenni di storia familiare e di amicizia con il tu a cui l’autore si rivolge, sono raffreddati nel vortice delle rispondenze tra teoria e osservazione diretta che come tanti rivoli obliqui irrigano il piano del discorso. È come se l’autore esitasse a svestirsi dei panni dello studioso e dello scrutatore laterale del mondo, pur tentando di interpretare le cifre del tempo e dello spazio concentrandosi solo sulle figure che in un modo o nell’altro hanno segnato la propria esistenza. Scegliendo magari di guardare da vicino figure bizzarre ma che assumono un significato nascosto dietro le quinte del proprio lavoro, come quella di Opicino de Canistris. L’opera di questo miniatore e calligrafo pavese, che dopo una crisi di follia ha tracciato mappe fantastiche del Mediterraneo in cui ogni toponimo è accompagnato da una visione mostruosa, sembra rappresentare la tentazione inevasa del libro. Alla registrazione reticolare della realtà, fino nei particolari della struttura dei marciapiedi o dei pioppeti, si aggiunge infatti il fondo impressionistico dei propri umori, magari filtrati dal ricordo, a volte solo allusi. Ma questo senza far mai travalicare veramente la propria nevrosi e i propri demoni personali all’interno di una struttura più ampia e composita, operazione delicata e riuscita a Sebald in un libro per certi versi accostabile al nostro come Gli anelli di Saturno.

Belpoliti resta fedele alla citazione di Saul Steinberg posta all’inizio del libro: «Se la mia vita, o la tua o di altri fosse tradotta in architetture chissà che costruzioni incredibili, mancanza di logica, spreco di materiali, equilibri per miracolo, terreni sbagliati». I disegni e gli schizzi dell’autore che arricchiscono il testo sono quindi solo il sintomo grafico di un atteggiamento che lo coinvolge nella sua globalità. Quello di cui si rende conto qui è la traduzione, il segno o l’architettura di un senso che resta altrove. Come il faro bianco di Goro, che è ancora in piedi per miracolo su un’isola instabile del Delta del Po, così il racconto di questa pianura non mette mai radici e resta sospeso tra le nebbie, con i suoi segnali e le sue apparenze. Sembrava un libro di identità e ci troviamo invece disorientati come il suo autore all’inizio del viaggio. La percezione finale che possiamo ricavare con più sicurezza è quella di una stagionalità conclusa, in cui si riconoscerà a tratti, come in un album fotografico, una famiglia allargata che dagli anni ’70 a oggi ha condiviso esperienze e fermenti. A chi è venuto dopo resta in mano una fotografia di gruppo frammentata e sfocata, non facile da interpretare ma sicuramente ricca di tracce per il futuro.


M. Belpoliti, Pianura, Torino, Einaudi, 2021, 296 pp., € 19,50.