“Quando mi rivedrai, non sarò più io”.
(Il Nano all’Agente Cooper, nella stanza rossa di “Twin Peaks”, di David Lynch)


Mario abita a Padova e ha una tripla vita.
Nella prima, tranquilla in apparenza, sta per sposare Viola (una donna che di vite ne ha almeno due a sua volta); nella seconda, turbolenta, Mario in treno va a Roma per trovare Bianca, una donna da cui non s’è staccato, e con cui forse ha una figlia, Agnese (Mario non sa se Agnese sia sua figlia oppure no; c’è un tempo presente del romanzo in cui Agnese è una bambina; c’è un tempo presente in cui Agnese è adolescente). Nella sua terza vita, la più oscura, Mario è il servo di Santiago.
Santiago ha attraversato l’immaginario di Mozzi per decenni, si può dire ne sia la parte più inquietante: è un giovane dall’aspetto quasi femminile (così come Bianca è quasi maschile); è il diavolo, è la personificazione del male assoluto; sta sulla terra, noncurante e ineluttabile, a dimostrarci che il male esiste in sé, ed esiste in noi; che il male non è collegato a una colpa, ma è nella natura. Attorno al rapporto di schiavitù anche sessuale che Mario ha con Santiago ruotano gli eventi e le relazioni fra i personaggi, fino alla violenza estrema.
Sempre a Padova abita il GAS (Grande Artista Sconosciuto): un pittore e fotografo nel cui studio Mario passa certe sere; e per le vie della città, con il suo cagnolino, passeggia il Terrorista Internazionale; nelle storie di cui è composto il romanzo passano altri personaggi reali, legati a un Male che viene dalla cronaca e dalla storia: il Martellatore di Monaci, il generale Luigi Cadorna. Ma ci sono anche il secondo Don Chisciotte, e il famoso fotografo Vaccari, nella parte (inventata) di se stesso.

Dunque Mario, così come Giulio Mozzi, vive a Padova, ha pubblicato alcune raccolte di racconti, viaggia molto in treno, lavora nel mondo editoriale. Condivide con Mozzi il luogo di nascita, l’infanzia, la genealogia. La maggior parte delle vicende che lo riguardano si svolgono il 17 giugno, compleanno di Giulio Mozzi. Quello che potrebbe essere il presupposto per un gioco di autofiction sembra però messo qui per uno scopo ben diverso: assegnare sfacciatamente, quasi per comodità, elementi della propria biografia al personaggio, ne determina in qualche modo la refrattarietà. Lo toglie dalla necessità della costruzione mimetica. Lo smarca da qualsiasi domanda del lettore in merito al carattere, alla psicologia; è come se Mozzi dicesse: “Non c’è bisogno di costruirlo, questo personaggio, è una funzione; gli servono una casa, un lavoro, dei pensieri? Diamogli quelli dell’autore, più o meno, e sbrigato l’impiccio andiamo oltre”.

Le ripetizioni non ha un andamento lineare, ma è costituito da parti, isolate o raggruppate in sottoinsiemi (La storia di Bianca, La storia di Viola, La storia del Gas) la cui numerazione non segue sempre l’ordine in cui appaiono nel testo. I nessi non sono di causa ed effetto, ma piuttosto di risonanza, richiamo, ripetizione variata, per l’appunto. L’accostamento fra le parti genera la suggestione di uno sviluppo.
Con il primo capitolo (Storia del bosso) e il secondo (Storia delle fototessere) sono già chiariti i nuclei tematici attorno a cui le parti del romanzo si organizzano: la morte; la memoria (la sua inaffidabilità); l’identità (la sua inaffidabilità). Il fulcro di tutto è la fotografia: nel suo carattere documentale, più che estetico (la famosa biennale di Vaccari del 1972; le fototessere; le istantanee dei momenti familiari; i ricordini funebri; le foto dell’autore “prestate” al personaggio). Mettendo in crisi il carattere documentale della fotografia, si mettono in dubbio il tempo, la memoria, l’identità.
Ma più che a un narratore inaffidabile, siamo di fronte a un narratore mobile. Nell’apertura, a parlare è un noi che riferisce il racconto di Mario, ironizzando sul suo modo di narrare, sul suo divagare e non venire mai al punto (e così facendo, quel noi divaga e non viene mai al punto).
Presto questo noi si tira indietro, diventa implicito. C’è una terza persona con fuoco su Mario (a volte una prima mascherata). C’è una prima persona femminile imprecisata, in forma epistolare; rispunta il noi, e gigioneggia; in un certo capitolo, pare addirittura che a parlare siano le Parole stesse. Ma non è questa la cosa originale.
Si dice sempre che una qualità necessaria a una storia riuscita sia che il protagonista abbia un’evoluzione: si può perdere, ahilui, rinnegarsi, redimersi, stravolgersi, può acquisire consapevolezza, quel che vuole; ma deve cambiare. Bene: con Le ripetizioni Mozzi dimostra come si possa costruire un grande romanzo attorno a dei personaggi fissi, che non sono caratteri, ma, come detto, funzioni. È proprio questa fissità dei personaggi a permettere lo slittare delle relazioni, e delle situazioni, al punto tale che certe scene possono essere lette tranquillamente senza avere la certezza riguardo al personaggio che le interpreta. Questo rende molto intrigante il gioco.

Stilisticamente in questo libro c’è di tutto, ed è tutto mozziano: si apre con un prosare rigoglioso, girando attorno al profumo del bosso. Si continua con quel finto semplice di precisione spietata in cui Mozzi è maestro. C’è un tono tra l’allusivo e il surreale. Un tono ironico; un tono asettico, che genera la tragedia attraverso il pudore; mai sentimentalismo. Capitoli interi costruiti su dialoghi di una tensione fortissima. Ci sono divagazioni storiche, artistiche e filosofiche. Ci sono parti in versi. Ogni brano parla in molti modi: si torna a sfogliare alla ricerca di un passaggio, e la parola in esso contenuta rifulge in modo diverso. È una lingua sempre precisa nella sua duttilità, capace di menare per il naso e andare all’osso.

In una sua nota su Le ripetizioni, Edoardo Zambelli dice che Mario, il protagonista, è un uomo che rincorre se stesso. A me questa immagine – che, conoscendo Zambelli, potrebbe anche non essere un caso – ha fatto venire in mente l’agente Cooper che rincorre se stesso nella stanza rossa di Twin Peaks, dopo essersi, diciamo così, scisso in due: ci sono due Cooper, entrambi impomatati, entrambi in completo nero elegante, identici in tutto ma, per semplificare, uno ha assunto in sé il male assoluto, l’altro è buono e tenta di sfuggirgli. I due Cooper si rincorrono, passando e ripassando per le stesse stanze divise da tende, per lo stesso corridoio – e le stanze sono ogni volta le stesse, eppure sono diverse: contengono oggetti diversi, personaggi diversi; ciò che era solido è liquido, ciò che era destro è mancino; tutto è simile a se stesso, eppure differente; e alla fine, un agente Cooper raggiunge l’altro.
Lynch è uno che ti fa abitare un mondo. Come Mozzi. Ma ancor più che a Twin Peaks, accosto Le ripetizioni a Inland Empire.
Perché quello che Mozzi fin da subito mostra di voler fare non è tanto raccontare una storia, quanto costruire la possibilità di una storia (chiamarla così non mi piace: userei più volentieri l’espressione “mondo narrativo”) attraverso la giustapposizione di elementi; elementi che non sono altro che la variazione potenzialmente infinita di alcune situazioni e di alcune relazioni tra personaggi che Mozzi, come Lynch, mette in scena da decine d’anni.
Con Inland Empire, procedendo senza sceneggiatura scritta, Lynch lavora sul materiale datogli dall’identità dei suoi personaggi – Laura Dern, soprattutto, attrice che interpreta un’attrice e quindi se stessa: una donna, e l’imprecisato numero di donne (o di versioni della stessa donna) provenienti da piani dislocati in punti diversi del tempo, dello spazio, della veglia, del sogno, e in tre diverse finzioni filmiche: un film che nel film si sta girando, un film mai uscito di cui questo sarebbe il remake, una sitcom in cui i personaggi indossano teste di coniglio. E tutti questi piani, e tutte queste identità, si intersecano. Lynch le combina, e le sfalda, e le ricombina – e se c’è una porta da aprire, una porta che meglio starebbe chiusa, fossimo dentro una storia lineare, perché darebbe sul niente, bene, noi questa porta apriamola: alla peggio darà in una stanza dove troveremo un’altra porta, e alla peggio quella porta darà in un corridoio da cui accederemo a un’altra stanza ancora, e alla peggio questa stanza ancora si rivelerà una stanza di finzione, filmata e proiettata sullo schermo collocato in una stanza identica in tutto a quella che viene filmata e in cui noi stessi siamo, oppure una stanza sognata, oppure una stanza che sta in un altro tempo nel quale noi sognavamo noi stessi, ma prima o poi ci sarà una porta da cui rientreremo qui. Qui, dove? E soprattutto, Chi?

Ne Le ripetizioni Mozzi fa la stessa cosa. Si capisce che, con questi presupposti, tentare di spiegare la vicenda nel suo dipanarsi è un’impresa inutile. Non penso che l’autore stesso avesse la storia come obiettivo. Tant’è che, leggendo, ci accorgiamo che le volte in cui, incastonato nel suo divagare incantevole o nel suo prenderci a schiaffi, càpita il brillio di una pepita romanzesca, Mozzi non si perita di disinnescarlo. La costruzione di questo testo procede – e qui sta il grandissimo potenziale magico, divinatorio, come per gli Oracoli – per montaggio e giustapposizione. Così che, accostando frammenti e brani scritti in momenti diversi e per motivi diversi, si scopre un caso che nell’assemblaggio diventa destino. Allo stesso modo in cui peschiamo una sola fototessera da uno scatolone che ne contiene a migliaia, ed è proprio il nostro ritratto. Allo stesso modo in cui, dallo sfondo nero di un quadro ancora in via di formazione, colature casuali di colore producono la nascita di un essere, di un sentimento.

Qualche minuto di Inland Empire, si è detto, è occupato da una sitcom in cui tre personaggi dalla testa di coniglio, in una stanza, pronunciano dialoghi banali, il cui mistero è generato dal loro essere totalmente scombinati, e dal fatto che le classiche risate registrate delle sitcom scoppiano in momenti incongruenti, slegati da qualunque senso stia nella battuta che i personaggi si sono appena detti.
Lynch produsse una mezz’ora di questi cortometraggi e la pubblicò sul suo sito, intitolandola “Rabbits”, nel 2002. Nel 2006, ripescò dieci minuti dal girato di “Rabbits”, e li sparpagliò dentro Inland Empire: nel film una ragazza (è sempre la protagonista, ma con un altro volto? È un’altra donna? Reale o sognata?) sta immobile davanti alla tv che trasmette la sitcom dei conigli, e piange. Le frasi che i conigli si scambiano sullo schermo producono, ricontestualizzate, un’inquietudine nuova; non possiamo fare altro che collegarle agli eventi del film, a cui sinistramente rimandano: tutto sembra rimandare sinistramente a tutto.

Quello che Mozzi similmente mette in scena, traslando brani scritti nell’arco di una ventina d’anni e per occasioni diverse (a testimoniare la persistenza di visioni con cui, evidentemente, gli tocca fare i conti), è un gioco combinatorio attorno all’identità. L’identità di un ignavo che si trova ad attraversare un bene per cui è incapace di organizzarsi, e un male che è incapace di combattere. Mario sta, attonito, a far da cardine e da spettatore alle combinazioni di quella che poi alla fine – e torniamo lì – nessuno ci dice essere la realtà, nessuno ci dice essere un sogno; si sogna di dormire poi si sogna di svegliarsi: siamo svegli, o stiamo dormendo sognando di esserci appena svegliati?
Un po’ come per le storie a bivi: sarebbe potuta andare così, o anche così, o anche così. Ma accostando le possibilità diverse, rendendole compresenti: la fioritura completa di un immaginario. Che, va detto, è un immaginario anche terrificante; chi ha letto Il male naturale, sa da che parti siamo: uno sguardo che accetta di guardare l’inaccettabile.
Proprio nel 1998, anno di pubblicazione de Il male naturale, la sua terza raccolta di racconti, Mozzi cominciava la lavorazione di quello che, ventitré anni e svariate pubblicazioni dopo, è il suo primo romanzo, e chiude un cerchio. (Lo chiuderà davvero?)
Ma se è in quel testo che si può trovare il germe, altre cose che Mozzi ha fatto in questi anni in cui la sua produzione narrativa si è rarefatta (per esempio Favole del morire, ma anche gli sketches di Sono l’ultimo a scendere), non sembrano più così occasionali, se messe sulla linea che ha portato a questo risultato. Perciò Le ripetizioni (come è stato Twin Peaks 3 per David Lynch) non è solo un bellissimo e multiforme oggetto in sé, non è solo un mondo in cui addentrarsi e abitare, ma è anche l’operazione con cui Giulio Mozzi è riuscito a ordinare il suo immaginario, nei modi diversi in cui si è manifestato nel tempo che l’ha condotto fino a qui.
(Per chi volesse tracciare questo percorso, c’è Un mucchio di bugie: antologia uscita da poco per Laurana, che raccoglie testi dal 1993 al 2017).

Le ripetizioni è quel tipo di romanzo/mondo in cui si torna per rimasticare i brani, e li si trova trasformati, accresciuti, pronti a parlare ancora: curiosamente, abbiamo detto, parte di questa forza-romanzo viene dalla rinuncia a costruire personaggi che evolvano; e, altra cosa curiosa, è un libro molto più lungo delle sue circa 350 pagine. Niente di più lontano da una raccolta di racconti, o di brani, spacciata per romanzo. Intanto proprio perché non sono racconti, ma brani.
C’è spesso l’idea che un racconto sia un vero racconto solo se è un meccanismo perfetto, con uno sviluppo, un finale, insomma un oggetto levigato: io son del tutto contrario; un racconto può essere slabbrato, sbilanciato, tronco, deforme: quel che deve avere è un fuoco; deve ardere, il resto è secondario. Ma non parlo soltanto di forma. I brani di questo romanzo hanno al loro interno una tensione che spinge a cercare fuori, e chiama. L’enorme importanza dei buchi! I buchi non sono mai uno spazio neutro, nelle storie, ricordiamocelo, mai. Ed è il rapporto fra i pezzi, e fra i buchi, a fare il romanzo. Gli elementi che riecheggiano da una vicenda all’altra e da un personaggio all’altro. Le rispondenze e i contrappunti fra una parte e l’altra, che, indifferenti all’ordine cronologico, ne creano uno sinfonico (ogni volta che si costruisce una storia fatta di pezzi assemblati, questo aspetto è fondamentale); le lampadine che si accendono in stanze vuote, le false piste. Le contraddizioni, persino: se io metto in relazione eventi smaccatamente contraddittori (se una certa cosa è successa in questo modo e in questo tempo, allora quell’altra che ho già letto era impossibile) innesco un giro infinito. Per dire, se mia figlia Agnese, ammesso che Agnese sia mia figlia, l’ho vista per la prima volta adolescente in treno, come può scrivermi una lettera in cui parla delle giornate che abbiam passato insieme fin da quando lei era piccola? Allora non è lei? Mica si firma, infatti, nella lettera. Perché sono stato indotto a credere che fosse lei? Ma se non è lei, è quell’altra, è forse Viola? Mah. Chi la scrive, questa diavolo di lettera? E chi ha detto poi che sia io il destinatario? Nemmeno quello è scritto. Importa, alla fine? Una cosa molto lynchana.
Anche le chiusure dei capitoli – molte memorabili, potenti – invocano connessioni, aprono pozzi di tensione; sono tutt’altro che chiusure perentorie “da racconto” comunemente inteso.

Infine, un’altra cosa abbastanza impressionante: pare che Giulio Mozzi metta completamente da parte un aspetto che in generale si ritiene necessario alle storie che si leggono, e cioè il racconto dell’emozione.
Possiamo scrivere utilizzandolo in termini ricattatori, come scorciatoia per toccare certe corde nel lettore e provocarne l’immedesimazione – convinti (a ragione?) che l’immedesimazione del lettore sia da perseguire come condizione basilare per una buona storia.
Possiamo anche farlo in maniera pulita, accurata, scavando a fatica con le parole per catturare una sfumatura d’emozione che non sia ancora stata descritta a quel modo. Possiamo raccontare, e in quel caso siamo in tanti, riportando ogni oggetto e accadimento all’emotività dei personaggi (e a me questa cosa infastidisce, come l’inviato del TG che accorre sul luogo dove s’è svolto il fatto e invece di raccontarlo va in giro a chiedere ai passanti: “Lei, come si sente?”)
Qualcuno ha un’idea di realismo che cerca di applicare, con pudore e rispetto, a una realtà che continua a ritenere altra da sé, osservabile: e applica questo metro anche alla descrizione delle emozioni (e questo è il modo che sento più, ingenuamente, vicino).
Resta il fatto che, dal più onesto al più truffaldino, il racconto dell’emozione è un ingrediente sulla cui importanza c’è quasi l’unanimità. Bene, Giulio Mozzi si toglie da questo campo. I suoi personaggi, da un lato, sono pura superficie. Inquietante, opaca; anzi: opaca, e quindi inquietante. (È anche l’opacità della superficie a rendere così mobile la loro identità).
Dall’altro lato, i personaggi di Mozzi sono fatti di pensiero, di speculazione (e passano il tempo a domandarsi cosa questo significhi, o se invece solo il corpo abbia davvero un senso; se l’anima abbia una sede specifica nel corpo, se la si possa vedere). Com’è possibile che il Terrorista Internazionale o il macellaio Cadorna siano corpi, come me e te, e al contempo siano ciò che sono? Com’è possibile che in questi loro corpi nascano pensieri come quelli che loro hanno pensato, e infine loro muoiano, come faremo tutti banalmente, prima o poi, rimbambiti su una spiaggia ligure, o invecchino come un qualsiasi vecchio portando a spasso un cagnolino per le strade di Padova?
Da un lato assistiamo alle azioni dei personaggi, contraddittorie, inerziali, violente, legate ai desideri del corpo; dall’altro vediamo in scena un meccanismo raziocinante, come ripreso dall’interno e messo in dialogo con il narratore, e con il lettore. (Dov’è, questa scena? È dentro la pelle o ne è fuori? Chi è, il narratore? Chi è che ogni tanto dice Noi? È dentro o fuori? Sono le parole stesse a dire Noi? Chi è che interviene per chiudere la scena più terrificante e con essa il romanzo, interrompendo la frase, andando a capo con un salto di riga e dicendo in corsivo, finalmente: Adesso, basta?)
È come se di questa umanità noi vedessimo la brutale superficie e insieme il mistero della composizione atomica – l’agire del dentro e del fuori – ma non fossimo mai chiamati al cospetto di un’emozione. Se rileggiamo Una lettera, il quintultimo capitolo, dove il narratore è una prima persona femminile che si rivolge al padre – è Viola a parlare? È Agnese? Nessuna delle due? Che importa – troviamo lo stesso controllo e lo stesso rigore che stanno ne L’apprendista, che stanno ne Il bambino morto. Non si tratta di un’esposizione accurata dell’emozione che mira a crearne una equivalente nel lettore. È un’altra faccenda, che riguarda il controllo e la distanza. Quello di Mozzi è un esempio magistrale di come, attraverso la distanza e l’omissione, si possa togliere l’emozione, per così dire, dal pacchetto diretto che l’autore fornisce al lettore col suo testo, e spostarla in un punto più intimo che sta tra la pagina e il lettore stesso, rendendola più potente; ineccepibile, precisa.
Tutto è descritto e raccontato attraverso l’agire del corpo, il percepirsi del corpo: e questo, che in apparenza sembra straniamento, sottrazione, in realtà è il tentativo di scendere a fondo nei meccanismi della vita e provare a spiegarne il mistero. Da un punto di vista che, nella misura in cui cerca di essere puramente fisico, diventa inattaccabile dal punto di vista spirituale.


Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Marsilio, Venezia 2021, 368 pp. 17,00€