È andata più o meno così: quando ho voltato l’ultima pagina di La carne di Cristò (Neo, 2020; prima ed. Intermezzi, 2016) una parte di me ha tirato un sospiro di sollievo. L’altra stava urlando di terrore, o forse era una strana forma di gioia feroce, ma su questo mi pronuncerò a breve. Tornando al sospiro di sollievo, definire La carne un altro romanzo weird sarebbe perlomeno riduttivo. Significherebbe, infatti, disconoscerne alcuni meriti fondamentali che poco, mi sembra, hanno in comune con altre opere di questa “categoria”.

In primo luogo, Cristò costruisce La carne con una precisione da orologiaio, da compositore d’orchestra, da ingegnere matematico: ogni meccanismo narrativo scatta inesorabile al momento opportuno e spinge il lettore un passo più avanti, fino alla trappola/liberazione finale. Complice uno stile aguzzo, severo, ripetitivo e anaforico, quasi impietoso con rari momenti di abbandono, La carne non eccede mai nella rappresentazione orrida o “stramba” fine a se stessa, né sprofonda in esercizi di stile cannibale o sanguinario. Proprio per questo, le poche scene in cui lo scrittore di Bari cede all’orripilante, al disgustoso o rappresenta la pura e semplice violenza colpiscono nel segno perché abilmente preparate e fatte deflagrare. Certo, Cristò gioca anche con l’immaginario dei film di genere («se fosse un film horror…» si legge a pagina 70, e poco prima «se fosse un film porno…»), ma possiede la limpida consapevolezza di aver scritto qualcosa di totalmente altro dalle fantasie apocalittiche ma spesso disarticolate di tanta letteratura “new weird”: penso, ad esempio, a Medusa di Luca Bernardi (Tunué, 2016), o al molto citato Dalle rovine di Luciano Funetta (Tunué, 2015), due romanzi che ho apprezzato, ma in cui non ho pienamente ritrovato la coesione che anima le pagine di La carne.

Gli zombi descritti nel romanzo, che sempre più numerosi fanno in silenzio la fila davanti al deposito comunale per un pezzo di carne, sono quanto di meno stereotipato si possa immaginare. Nessuno li teme, ispirano soltanto disgusto, c’è chi dice che siano contagiosi e che non muoiono mai, chi vorrebbe liberarsene, ma nessuno è certo di nulla. Tuttavia, molti hanno ormai almeno un parente, un amico «passato dall’altra parte». Su questo fondale scenico il narratore, un anziano ottuagenario, passa le proprie giornate ricordando «il mondo quando aveva otto anni», tra dolori lancinanti alle gambe, sigarette, cinema porno e le visite di Giulio e Monica, un nipote acquisito e la sua compagna che lavora al deposito comunale. L’uomo ha sempre condotto un’esistenza appartata, e un precoce trauma infantile l’ha reso “adulto” ma non “grande”. Il pretesto è fornito dal “Pitone”, un grande scivolo ad acqua, comprimario di un grottesco rito di iniziazione a una vita che rimarrà invece sempre uguale a se stessa:

Era più veloce, più lungo, più bagnato che in ogni mia immaginazione. Girava, girava e scendeva sempre di più. (…) Non finiva mai. Faceva un po’ paura ma era bellissimo. L’acqua mi entrava in bocca mentre mi sembrava di volare. Scendeva e girava. IL PITONE era la felicità. All’improvviso sentii uno strappo e mi accorsi che i miei boxer erano rimasti indietro. (…). Appena riuscii ad aprire gli occhi vidi la bocca del serpente sputare sangue e acqua e un pezzo di pelle rosa risalire a galla. (…) Tutti erano intorno a me e probabilmente fui l’unico a vedere l’uomo col cappotto inginocchiarsi vicino all’acqua e raccogliere quello che rimaneva del mio scroto. Lo mise in bocca senza avidità e deglutì. Poi svenni.” (pp. 26-27.)

Da quel momento in poi, l’allora decenne protagonista di La carne vive nella completa immobilità, osserva la sua piccola porzione di mondo e colleziona foto, video, ritagli di giornale che raffigurano uomini con la sua stessa fisionomia, a quanto sembra parecchio comune. Sono loro, i suoi alter ego, a vivere per lui tutto quello che non ha mai vissuto direttamente. Per di più, da quando sono comparsi gli zombi, sembra che tutto si sia fermato: di sera le strade sono vuote, i modelli di cellulari e televisori sono sempre gli stessi da anni, la radio trasmette solo musica classica, film e programmi si ripetono identici. In questa continua riproposizione del “già visto” e del “già detto” si può ravvisare la cocente delusione di chi, come Cristò, nato negli anni Ottanta, ha visto franare le idilliche e propagandate prospettive di benessere e spensieratezza e si è dovuto confrontare con una realtà sempre più precaria e frammentata. Nel mondo anemico di La carne, a nessuno sembra più importare di nulla, si vive alla giornata con la paura tremenda di non morire, di ritrovarsi un giorno a fare la fila trasformato in zombi, occhi itterici persi nel vuoto, la fame come unico pensiero fisso. Si crea così un’atmosfera sfibrante di attesa continua, un deserto dei Tartari ribaltato in cui il nemico ha già varcato le porte della fortezza Bastiani e se ne sta immobile a guardare, innocuo ma terribilmente presente. Chiunque può passare dall’altro lato in qualsiasi momento, e una vita da zombi è peggio che morire.

È poi lo stesso narratore e protagonista a sovrapporre la propria vicenda a quella del medico Tancredi, che diversi anni prima, in un mondo ancora “normale”, ha visitato alcuni pazienti affetti da sonnambulismo: di notte vergavano di proprio pugno proclami vagamente sovversivi e anarchici su piccoli foglietti di carta, ma la mattina seguente nessuno di loro ricordava di aver scritto alcunché. Tancredi inizia a indagare, finché la “malattia” non colpisce anche la giovane moglie Lucia. Le due storie scorrono letteralmente insieme e attingono materiale narrativo l’una dall’altra. Cristò dimostra di avere la stoffa del bravo montatore nascondendo i punti di sutura tra le varie scene e creando così lunghe sequenze che quasi non risentono dei continui salti temporali ma ne traggono giovamento, soprattutto nei momenti in cui la tensione cresce e si intravede il filo che lega le due vicende. Forse, questo meccanismo dentellato di cui parlavo all’inizio sacrifica un po’ l’autonomia dei personaggi per l’efficacia della trama, ma anche questa scelta nasconde un disegno preciso: il protagonista sembra l’unico a poter beneficiare di un passato (o della facoltà di ricordarlo), mentre tutti gli altri non possono ricordare un mondo irrimediabilmente perduto o di cui neppure immaginano i futuri assetti. In più, verso la fine del romanzo, in rapide sequenze metanarrative, Tancredi disubbidisce alle richieste del suo stesso “narratore” e compie un errore fatale proprio quando i conti iniziano a tornargli.

È infatti il nesso che affiora tra i foglietti dei sonnambuli e gli zombi a disvelare il senso ultimo del romanzo. Lucia infatti sogna spesso Averroè, il filosofo commentatore di Aristotele che aveva teorizzato una “coscienza comune”, la connessione di tutte le menti umane. Averroè torna poi nelle speculazioni di Giuseppe, amico del protagonista e “studioso” degli zombi. Con un paragone ardito ma funzionale alla narrazione, Giuseppe traccia una connessione tra le teorie di Averroè e gli archetipi del pensiero collettivo di Jung, l’Anima Mundi di Platone, la coscienza di classe di Marx: milioni di persone, una sola, compatta e inequivocabile visione del mondo, garantita da inestricabili connessioni mentali. Averroè parla con Lucia, la informa che è fortunata, che a molti altri semplicemente detta alcune frasi da scrivere, i foglietti anarchici che tanto angustiano Tancredi. Gli zombi rappresentano lo stadio finale di questo sfrondamento, livellamento umano, di questa omologazione alla mente unica. Gli zombi, argomenta ancora Giuseppe, hanno perso del tutto la capacità di elaborare “simboli”:

«Cos’è un bicchiere d’acqua?» chiede.
«Da che punto di vista?» chiedo.
(…) «È un gruppo di molecole di acqua tenute insieme da un gruppo di molecole di vetro? Oppure è un’immagine che crea desiderio in un caldo pomeriggio d’estate? Oppure è una massa di particelle subatomiche non distinguibili dal resto delle particelle subatomiche del creato?»
(…)
«È un bicchiere d’acqua (…) solo nella tua testa. È un simbolo. Sei tu che lo rendi un’unità indistinta e diversa. Il tuo cervello gli dà significato. (…) se per un attimo il tuo cervello smettesse di elaborare simboli tu smetteresti di distinguere un bicchiere d’acqua dal resto dell’universo. Tutto sarebbe pura materia e niente più. Io penso che per loro (gli zombi, nota mia) succeda qualcosa del genere.»
(…)
Penso a Monica.
Io ci riesco ancora. (pp. 132-133.)

E arriviamo così alla parte di me che gridava di terrore, o forse di una strana forma di gioia. Perché da un lato, e con l’escamotage originale di un finto romanzo di genere, Cristò mette il lettore faccia a faccia con una verità difficile da digerire: spesso il passo che separa le enormi cattedrali del pensiero umano (e soprattutto la loro vulgata) dalle elucubrazioni più o meno sconclusionate di branchi di mitomani (o addirittura da semi-bestie che usmano soltanto l’odore del cibo perché non vedono né riconoscono altro: è la loro idea fissa, la loro anima mundi, la loro rivoluzione) è più breve di quanto pensiamo, che non c’è molta differenza tra voler tutto comprendere e non comprendere più nulla, tra il vertice della sapienza e quello della stoltezza, tra il piano orchestrato al dettaglio e una serie di coincidenze: Faust e una zombi possono essere due facce della stessa medaglia. Dall’altro lato, tuttavia, si intravede una tenue speranza che passa, oltre che dall’accettazione dei nostri limiti intellettivi, proprio dai simboli, dalla capacità solo umana di astrarre dal tutto indistinto, di conferire agli oggetti, alle persone, alle situazioni contingenti più significati diversi. Così, verso la fine del romanzo, il protagonista festeggia da solo il proprio ottantunesimo compleanno disinteressandosi della propria “collezione” (niente più alter ego, quindi, non più le vite degli altri) e concedendosi per la prima volta nella vita, un caffè:

Verso un cucchiaino abbondante di zucchero nel caffè come ho visto fare a Monica a casa mia. Mescolo. Ho la strana sensazione di essere normale.
Il simbolo di un uomo normale che versa il simbolo di un cucchiaino pieno del simbolo di zucchero nel simbolo di una tazzina piena del simbolo di un caffè. (…)
Che il caffè fosse caldo me lo aspettavo, ma che il bordo della tazza fosse così bollente da non poterlo avvicinare alle labbra è una sorpresa.
Il simbolo di una sorpresa.
Basta, porca miseria!
(…)
Lo butto giù in un solo sorso.
(…)
Cento di questi giorni suonerebbe come una minaccia. Non voglio diventare uno zombi. Mi tengo cari tutti i miei simboli finché posso. (p. 150.)

Soltanto così, «tenendosi cari i propri simboli», si può tentare di vivere, di resistere all’annullamento o alla pazzia prima che sia troppo tardi. Perché tutti, prim’o poi, inizieremo ad avere fame.


Cristò La carne

Cristò, La carne, Neo 2020, pp. 168, 15€.