Preambolo: «Nulla da fare contro la vita», ovvero Landolfi riscoperto

A poco più di un anno dall’inizio di questa pandemia (vocabolo su cui gravano, ormai, tutto il tragico e il tragicomico delle umane sorti), sono certo che stesse provando ad avvertirci. Difficile trovare un autore meno “inquadrabile” o editorialmente “spendibile” di Tommaso Landolfi (Pico Farnese, 9 agosto 1908 – Ronciglione, 8 luglio 1979), che tanto aborriva le quarte di copertina da imporre all’amico e editore Vallecchi il risvolto intonso per le proprie opere, corredato soltanto da questa breve nota: «Come di consuetudine, per desiderio dell’autore, anche il risvolto di questo nuovo libro di Tommaso Landolfi è in bianco: il libro rimane pertanto affidato esclusivamente all’intelligenza del lettore.»

Eppure, forse al di là delle sue speranze di rimanere senza eredità letteraria né eredi di sorta, in questi ultimi anni Landolfi si è nuovamente imposto agli interessi della critica (segnalo, ad esempio, il bel volume di Matteo Moca, Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi, ed. Carabba, 2020) e, soprattutto, ha conquistato una fetta più ampia di lettori non specializzati. La ristampa per i tipi di Adelphi della raccolta di elzeviri Del meno[1] nel 2019 è passata tutt’altro che inosservata, così come quella, l’anno precedente, della raccolta di racconti A caso, già vincitrice dello Strega nel 1975 e tra le più abbordabili da un punto di vista linguistico-concettuale. Più indietro nel tempo: dal 2015/2016, l’esplosione del fenomeno new weird nella letteratura nostrana ha evidenziato come, dopo una fase più strettamente engagé i cui riferimenti erano/sono rintracciabili soprattutto in Pasolini narratore e critico, o in un Gadda versione postmoderna, la figura di Landolfi sia assurta a capostipite, tanto grande quanto involontario, di una nuova letteratura del fantastico nero, dell’onirico-distopico, del perturbante. Autori come Pincio, Funetta, Zucco, Bernardi devono parecchio a Landolfi, dalle atmosfere angusto/apocalittiche alle piante irreali di ville abbandonate, dagli animali-feticcio al baratro di nonsenso che governa le umane sorti, dagli ibridi uomo-bestia all’irruzione dell’elemento sconcertante in situazioni di squallido realismo fino alle trappole insite nel linguaggio o del ragionamento umano. Più indietro ancora: già nel biennio 2004/2006, due affermate donne di teatro come Anna Marchesini e Emma Dante hanno adattato per la scena Le due zittelle, operazione tanto insolita quanto meritoria.

Ma torniamo al presente. Tutta l’attenzione di questi ultimi anni per la figura di Landolfi si rivela quantomai necessaria in questo momento storico. La sua opera può infatti fornire un ottimo breviario interpretativo (anche) dei nostri tempi, oltre che un sicuro riparo letterario. Mai come ora ci sembra infatti di vivere completamente a caso, senza alcun tipo di scopo o traiettoria, di essere insomma in balìa del dio pressapochista e quasi inconsapevolmente crudele di Quattro chiacchiere in famiglia (in Racconti impossibili, Vallecchi, 1966, poi Adelphi 2017), che alle domande del figlio su un’umanità ormai condannata all’estinzione risponde, sempre più elusivo, «probabilmente», «forse», «non so», «ma a caso, che vuoi che ti dica?». Uno scenario del genere, soprattutto se all’incertezza generata dalla pandemia si somma la massiccia fruizione in solitudine di vari servizi digitali e la confusione generata da vaste serie di dati, numeri e vaticini medico-scientifici, ricorda molto da vicino quella descritta nelle pagine di Cancroregina (Vallecchi, 1950, poi Adelphi, 1993). Con la promessa di sfuggire alla noia della sua esistenza, uno scrittore oberato dai debiti accetta l’invito di un inventore folle: raggiungere la luna a bordo della sua navicella spaziale, che ha chiamato Cancroregina. Il viaggio parte con i migliori auspici, ma lo scienziato perde via via contatto con la realtà e aggredisce il protagonista che si trova costretto ad ucciderlo. Incapace di adoperare i complessi strumenti di bordo[2], il protagonista non può né tornare indietro verso la Terra, né raggiungere l’agognata luna. Rimane pertanto bloccato sulla navicella “antropofaga”, non morto ma neppure vivo, e sprofonda nella follia. Ovviamente, l’alea della casualità si estende anche al campo dell’esistenza individuale, come in La mattinata dello scrittore (in In Società, Vallecchi, 1962, poi Adelphi, 2006), dove il protagonista non riesce a concludere nulla che lo soddisfi, ma quando decide di suicidarsi con una rivoltella adempie al proprio proposito senza alcun tentennamento. Ampio spazio è poi dedicato da Landolfi alla “casistica” delle relazioni interpersonali, dove tuttavia balena, se mi si permette il gioco di parole, un tenue luccichio di speranza disperata, o di disperazione speranzosa. Certo, questo accade di rado nella narrativa landolfiana. Molto più spesso i rapporti umani sono causa di mutua incomprensione e sofferenza drammatico-grottesca, di mortificazione fisica o spirituale. Non è affatto raro, poi, che i “rapporti” non coinvolgono due “veri” esseri umani, ma uomini e ibridi bestiali o non definibili (come in Un petto di donna o ne La pietra lunare), fantocci (La moglie di Gogol’) desideri idealizzati di donne o figurazioni eteree e astratte, quasi allegorie della tensione e della diffidenza dell’autore verso il linguaggio/comprensione o l’assenza di esso (La spada, L’eclisse, La muta).

Prendiamo, a esempio di quanto detto prima, il finale in crescendo di Mano rubata (in Tre racconti, Vallecchi, 1964, poi Adelphi, 1998). Dopo un’impacciata partita a strip-poker (e il gioco, si sa, è uno dei pilastri della poetica landolfiana) in cui il protagonista riesce a distogliere dal proposito di suicidio una giovane donna bellissima e vagheggiata ed entrambi si spogliano l’uno davanti all’altra, assistiamo al loro colloquio sulla via del ritorno:

 «L’alba ci minaccia» Riprese Gisa dopo un poco.
«Ebbene, salviamoci da questa alba e da tutte».
«Come, dove?».
«Da te, da me».
(…)
«O semplicemente è male, è peccato, in ogni caso è scomodo, prendere coscienza delle cose».
«E si potrebbe fare a meno?».
«Che ne so io: dovremmo provare»,
«E come dunque si dovrebbe vivere?».
«A caso»,
«Ma è impossibile! Magari».
(…)
«Gisa, vieni, prima che sa troppo tardi; chiuderemo le imposte, tireremo le tende, contro il giorno. Accenderemo le luci; rosse, a quest’ora, come occhi di pianto».
(…)
«Vengo» disse infine sgomenta. «Ma Marcello… Marcello, e poi?».
Senza rispondere la trasse in furia, felice e disperato.

Gisa e Marcello tentano di sottrarsi dalle amare consapevolezze dell’esistenza che hanno di nuovo sperimentato durante il gioco. Tuttavia, il loro sollievo non può che essere momentaneo (da qui la “felice disperazione” di Marcello nelle ultime righe del racconto). Nell’universo materialista e determinista di Landolfi, così come nel nostro di uomini e donne di nulla, poca o non sufficiente fede, anche il “caso” è una mera illusione, un altro “oggetto solido” che impatta sulle vite dei personaggi e da un momento all’altro si trasforma in fatalità ineluttabile, una fatalità cieca e dolorosa. Come afferma Calvino nella postfazione all’antologia Le più belle pagine di Tommaso Landolfi (Rizzoli, 1982, poi Adelphi, 3°ed. 2013), «Il vero incubo di Landolfi è questo: che il nulla non esista.» (p. 563).

Cosa rimane quindi, al di là degli spifferi di felicità illusoria, delle briciole di annullamento che gli amanti di Una mano rubata trovano oltre il portone di una casa? Tommaso Landolfi risponde così:

 L’esistenza è una condanna senz’appello e senza riscatto; niente vi è da fare contro di essa; ed è forse la nostra speranza soltanto, il nostro bisogno di riprender fiato come dall’acuto dolore di una ferita, che ha immaginato uno stato altro dall’esistere, un nulla. Forse, mio Dio, tutto esiste, è esistito, esisterà in eterno. Non c’è niente da fare contro la vita, fuorché vivere, press’a poco come in un posto chiuso dove si sia soffocati dal fumo del tabacco non c’è di meglio che fumare…». (Rien va)

Il mar delle blatte di Landolfi e Scòzzari

Nel panorama di riscoperta “pop” dell’opera di Tommaso Landolfi che ho sommariamente delineato, un posto d’onore spetta a Filippo Scòzzari, ormai entrato di diritto nella storia del fumetto italiano. Coconino press ha infatti ripubblicato a gennaio 2021 il suo albo dedicato a quel piccolo capolavoro che è Il mar delle blatte, primo racconto dell’omonima raccolta uscita nel 1939 per le edizioni della Cometa di Roma e ora ristampata da Adelphi. La versione di Scòzzari era apparsa invece per la prima volta nel 1983, divisa in quattro puntate, sulla rivista Frigidaire, il lisergico laboratorio di tavole inchiostrate di Scòzzari, Pazienza, Tamburini, Liberatore e Mattioli. A stupire è innanzitutto la data “alta” di pubblicazione: solo cinque anni dalla morte di Landolfi, e meno di uno dall’antologia dei suoi scritti curata da Calvino. Si può quindi ragionevolmente parlare di Scòzzari come di un pioniere, uno dei primi “traghettatori” dell’opera landolfiana oltre i confini della critica letteraria e della cosiddetta fruizione “alta”, senza però occultare o sfrondare la complessità insita in qualunque pagina dello scrittore di Pico. Le tavole di Scòzzari sono infatti un eccezionale esempio di traduzione d’autore. Da innovatore del fumetto (e non solo) nella Traumfabrik occupata di Bologna, Scòzzari ha intuito il potenziale eversivo di Landolfi, sperimentatore umbratile e non allineato, lontano dall’impegno della neoavanguardia per estrazione sociale e convinzione ideologica, ma ugualmente capace di sgretolare le placide convinzioni e convenzioni del lettore, di scuoterlo dall’apatia impiegatizia delle sue giornate e precipitarlo in notti da incubo, faccia a faccia con il male di vivere. Landolfi, inoltre, è di sicuro uno tra gli scrittori più “visivi” e “visionari” del nostro Novecento, e Il mar delle blatte è uno dei massimi esempi di questa tendenza “figurativa”. Questa la trama: Il mar delle blatte può essere considerato in prima istanza la parodia grottesca di un racconto di iniziazione alla vita “adulta” dalle tinte avventurose e marinaresche. Il protagonista Roberto Coracaglina, tuttavia, non è affatto un giovane audace e sprezzante del pericolo, ma si presenta già da subito, nei pensieri del padre avvocato, come un antieroe insicuro e trasognato, braccato dalle smanie tipiche dell’età. Un giorno, però, come nei sogni dell’infanzia, Roberto si trasforma nell’Alto Variago, nobile ed invincibile capitano di un grande veliero. Assolda quindi una ciurma assegnando loro piccoli oggetti estratti da una larga ferita al braccio (un pezzo di spago, chicchi di riso, un chiodo da scarpe, “artefatti magici” da nulla, oppure segni di un’immaginazione ancora infantile che trasfigura anche gli oggetti più banali), e parte insieme al padre. Prima, però, viene menata sulla nave la giovane e bella Lucrezia, nuda e stillante latte dai seni (immagine, quindi, sia virginale che materna, erotica e infantile insieme). Roberto ha sempre amato Lucrezia in segreto, ricevendo da lei solo insulti ed umiliazioni. Lucrezia non gliele risparmia neppure ora: Roberto Coracaglina ha “la forfora sui capelli”, le “unghie sporche”, non sa “discorrere di cose divertenti”, non ha neppure il fascino della divisa. Lei ama Bernardo, un verme azzurro che è salito a bordo infilandosi nella tasca dell’avvocato. Lucrezia, in quanto giovane e “provinciale” (è sfacciata ma ritrosa, continua ad invocare l’aiuto del padre senatore, è attenta solo a dettagli esteriori) non ha la minima esperienza della vita, e non a caso ama una “larva (verme) azzurra”, ovvero una figurazione ideale inesistente e quasi viscida, un parto della sua mente di ragazzina. Scòzzari, coerentemente con la poetica di “desiderio-repulsione” landolfiana, la raffigura a volte bellissima e levigata, e a volte dura e arcigna. L’Alto Variago si vendica delle offese subite torturando Lucrezia e imprigionando il verme rivale. Ordina poi di veleggiare verso il leggendario mar delle blatte, una sterminata distesa di scarafaggi sonnolenti. Solo attraversando queste “acque” si può raggiungere la tanto vagheggiata quanto indeterminata “isola felice”. La navigazione diventa sempre più difficile, e a mano a mano che le blatte (ovvero il marcio della vita, la noia e la disperazione, il tran-tran di giornate tutte uguali) si avvicinano, la ciurma inizia ad avere paura. Roberto doma alcuni tentativi di insurrezione, ma per salvare l’onore si trova costretto ad accettare la sfida proposta dal verme: Lucrezia andrà a chi saprà amarla meglio. Abbiamo così un altro topos del racconto d’iniziazione, ovvero i primi rapporti d’amore e la scoperta della sessualità. Qui, però, dopo il brillante ma inefficace tentativo di Roberto, la scena è tutta per il verme, e anche solo tentare di descrivere quanto accade (sintesi di sesso, verme-amore e verme-morte, differenza tra realtà e immaginazione erotica) è fare violenza alla bellezza della descrizione landolfiana e della resa fumettistica di Scòzzari, e quindi là rimando. Ovviamente il verme trionfa, ma, furente d’ira, Roberto compie l’azione più logica ed ignominiosa insieme, schiacciando l’avversario sul ponte di coperta. La ciurma insorge, e nella baraonda generale un incauto marinaio uccide una blatta. Le sue compagne si risvegliano così dal loro torpore e assaltano la nave come mare in tempesta. Lucrezia allora, terrorizzata dagli insetti e dalla morte che incombe su tutti loro, implora pietà a Roberto, grida di amare soltanto lui e di aver dimenticato il verme Bernardo: d’ora in avanti sarà la “schiava”[3] non di Roberto, ma dell’Alto Variago. Perfino il padre, che considerava il figlio un inetto perdigiorno, difronte alla minaccia delle blatte promette di aiutarlo economicamente, di lasciargli il tempo necessario per pensare “alle sue cose, ai suoi romanzi”. Così i tre veleggiano verso la fantomatica “isola felice”, e il lettore abbandona il racconto con l’amara consapevolezza che soltanto lo scontro con le “blatte”, cioè con lo “schifo”, con la parte peggiore della vita, e non certo una reale disposizione d’animo, porta l’uomo a più miti consigli, ad una compromissione che sa di sconfitta, di abdicazione.  

Nella sua “traduzione” Scòzzari opera una scelta ben precisa e dal chiaro effetto straniante: le didascalie che scorrono sotto le tavole e quasi tutte le parole dei personaggi sono fedelmente riportate dal racconto originale, mentre il tratto esagerato, coloratissimo, in costante equilibrio sul filo che separa la parodia grottesca dalla cruda rappresentazione realistica stride nell’immaginazione del lettore non avveduto con la lingua letteraria ed arcaizzante di Landolfi, così inusuale per delle tavole a fumetti. Tuttavia, entrambi questi maestri di “sconcertante” hanno in comune un certo geniale compiacimento nel mescolare insieme alto e basso, sublime ed osceno, osservazione “dall’esterno” e passione per il dettaglio. Così, pur nell’evidente diversità di fondo, mano a mano che si procede nella lettura, il raffronto tra parola e immagine diventa sempre più lineare e necessario, i due autori si fronteggiano in un tour de force rappresentativo, quasi a voler dimostrare la superiorità dell’uno o dell’altro mezzo in situazioni limite, come l’indimenticabile scena degli amori tra l’eroina femminile Lucrezia e il verme azzurro, la trasformazione di Roberto nell’Alto Variago (che Scòzzari rende bene mimando nelle fattezze del Variago il viso dello stesso Landolfi) o l’immenso e ripugnante “mar delle blatte”. Così poco importa se il Roberto Coracaglina di Scòzzari pare più vecchio di quello originale, quasi a simboleggiare uno “stato infantile” che perdura ben oltre l’età canonica, se il porto fittizio di Brandeburgo (e Landolfi forse sapeva che nell’antica lingua germanica brand significa “attorniato dalle acque”) somiglia ad una Disneyland distopica, se qualche volta Scòzzari (che se la cava bene anche con la prosa; vedi l’introduzione in calce al volume) integra il dettato landolfiano “dissacrandolo” con quello tipico dei fumetti. Alla fine del match, i due avversari si stringono la mano. Hanno vinto entrambi, e a noi rimane tra le mani questo memorabile incontro tra pesi massimi.


Tommaso Landolfi, Filippo ScòzzariIl mar delle blatte, Coconino Press 2021, 56 pp., € 18.


[1] Prima ed. Rizzoli, 1978.

[2] «Questi contorti o levigati apparecchi, questi bottoni, (…) questi fasci di non so cosa; (…) tutto questo infernale macchinario brilla crudelmente davanti a me…» (Cancroregina, p.11)

[3] La schiava d’amore ritorna sovente nella letteratura russa, che Landolfi conosceva da grande esperto e traduttore. “Schiava d’amore” si professa ad esempio Gruŝenka nei confronti di Dmitri Karamazov ne I fatelli Karamazov di Dostoevskij