Nella prima puntata dell’inchiesta “Ecosistemi poetici – abitare creativamente l’antropocene”, Bianca Battilocchi intervista Laura Pugno e Rita Florit.


Laura Pugno

Nel tuo libro per appunti In territorio selvaggio scrivi «la poesia richiede mezzi minimi, è un’arte di guerriglia». Non è questa una dichiarazione di quanto la poesia sia intrinsecamente (e involontariamente?) sostenibile e necessaria? Nel suo mirare all’essenziale indica una direzione persa da molti, in epoca di consumismo, di distrazioni futili, ‘cementizzazione’ della mente e della natura. 

Attenzione, poesia è sempre una parola plurale, prima di farne tout court un equivalente di qualsiasi decisione, azione o scelta politica è sempre bene sospendere un attimo il passo e il giudizio. C’è sempre uno iato, che è la libertà della parola – libertà di parola – e della poesia stessa. Detto questo, la poesia è un’arte molto antica, prima ancora che antica arcaica, e quindi, proprio per questo, assolutamente contemporanea se non futura. Il tempo della poesia è un tempo in cui si è altamente consapevoli del prezzo di ogni azione, di ogni scelta, un prezzo che è insieme fisico e mentale, come la poesia stessa. Di qui la massima economia di mezzi, la concentrazione e condensazione, che è la condizione della sostenibilità. Ovvero la traduzione in lingua d’oggi di questa preoccupazione del limite, della finitezza, che ha accompagnato tutta la storia umana e che solo in tempi recenti abbiamo sognato di poter dimenticare. E ci siamo dovuti rendere conto di come fosse un sogno, anche se i sogni avvengono nella realtà.

La tua ricerca sul paesaggio e il degrado e la parola ha influenzato anche il tuo modo di scrivere poesia?

A dire la verità è il contrario, è la poesia che viene prima. Ma questo accade sempre, per me. Senza la poesia non riuscirei a percepire il mondo, o, mettiamolo tra virgolette, “il mondo esterno”.

Nello stesso testo menzioni spesso la parola “comunità”. Cosa intendi? Credi che i poeti abbiano bisogno di una comunità più estesa, ma soprattutto non credi che sia verissimo l’opposto? La poesia con il suo porsi, porosa, di spazi bianchi, non è forse esercizio del dialogo, dell’apertura all’Altro, inteso anche come vicino di casa, concittadino … ?

Alla parola comunità mi viene da affiancare continuità, condivisione, nel tempo e nello spazio. Ultimamente mi interrogo spesso sul quotidiano, sulla quotidianità. Comunità: coloro da cui, nel quotidiano, non senti il bisogno di difenderti, da cui – se senti il bisogno di lontananza, di solitudine – alla fine ritornerai. Chi è con un destino, nel senso umile di questa parola, una propria stella sulla fronte, non è mai solo, questo è vero anche per le comunità? Qui ci avventuriamo in un territorio pericolosissimo. Un destino che non sia contro, ma con, che sia aperto e poroso: in questo senso la poesia non cerca la competizione ma l’eccellenza, cerca un tu e non un nemico.

Cito altre tue parole che vorrei commentassi: “Se la poesia è un’esplorazione alle frontiere della lingua, per dire ciò che non è stato detto prima e forse non è del tutto dicibile, da questa esplorazione c’è un ritorno. E la prosa, hai finito col pensare ultimamente, è il momento in cui il bottino di queste esplorazioni viene riportato alla comunità. Spartito, condiviso.” Intendi dire che al ritorno dell’avventurarsi poetico nei luoghi impervi e sconosciuti della mente e della sua wilderness, ci può essere in qualche modo una sua ‘traduzione’ in prosa per la comunità? Attraverso il romanzo di ricerca?  Con quali modalità?

Se tutto può essere scritto in poesia – e tutto, nella storia, è stato scritto in poesia – da una dimensione personale, la mia, per cui la poesia è la parola naturale, a che serve allora la prosa, e la sua quotidiana fatica? Perché, a un certo punto, ho sentito l’impulso, il bisogno, di scrivere prosa, una raccolta di racconti e finora sei romanzi (oltre a tante altre forme e tra queste, ultimo, il saggio)? Non dico che a questa domanda esista davvero una risposta, e certamente ci sono scrittori la cui forma naturale – e siamo nella metafora, attenzione alle metafore organiche – è la prosa. Ma per me, nell’assenza, o con più verità nel mistero della risposta, una risposta è stata in una frase dell’amico di una vita Giulio Mozzi, “il raccontatore di storie getta storie nella sua comunità”. Da qui possiamo ripartire.


Rita Florit

Quanto è importante nella tua esperienza personale il legame tra poesia e natura/ecologia?

L’imprinting l’ho ricevuto nell’infanzia, un lascito vibrazionale in forma di profumi, colori, percezioni tattili dei fiori, degli alberi, della terra, che mi precipitava nello “stupore infantile”,  ha radicato nel tempo una persistente affinità col mondo naturale. Esperienze sensoriali si dilatavano nelle vastità del paesaggio, nelle sue forme e aperture, con la necessità di ricrearlo in parola. La botanica, e più tardi l’erboristeria, il desiderio di conoscere nomi, aspetti, segreti e proprietà delle piante si consolidava nel rendere in linguaggio il senso di meraviglia fusionale che tuttora mi pervade al loro contatto. Certo un viaggio immaginopoietico, distante ma non del tutto svincolato da uno spirito ecologico vero e proprio, poiché il legame che si era formato aveva i tratti di una fraternità durevole, di un’esigenza d’osservazione e di fruizione che andava ben oltre l’estetismo o la descrizione oggettiva. Nonostante avessi già scritto in tema nella mia prima raccolta poetica, nel 2006 la spinta si condensò in una nuova raccolta poi antologizzata e in una poesia in particolare, nata come studio sul colore rosso, che diventò video. Fu un’intensa esperienza di scrittura automatica che mi riportò al mio passato studio del Surrealismo. Nel tempo ho approfondito un pensiero critico più maturo, anche grazie all’incontro con la poesia di Emilio Villa, approdando a un nuovo stile, una nuova scrittura che pur con vari orientamenti richiama anche queste tematiche. Non escludo che l’attrazione naturalistica possa aver innescato un tale processo anche se non come sola motivazione, certo è che ho sempre coltivato, anche a colpi d’antinomie, il legame poesia-natura.

Qual è la tua opinione su poesia e attivismo, militanza poetica, partecipazione dei poeti rispetto al collasso culturale e ambientale in cui ci troviamo?

Mi è difficile coniugare parole come militanza e attivismo alla poesia, nonostante conosca la poesia civile e politica associo inevitabilmente questi concetti al mio vissuto nei primi anni 70, alle lotte e all’attivismo contro la guerra del Vietnam, la politica militarista americana, il golpe cileno, fatti ormai lontani dall’attuale immaginario collettivo, se non addirittura rimossi. Percorriamo tempi straordinari e straordinariamente forieri di opportunità di pensiero, tempi che ci obbligheranno sempre più a scegliere e schierarsi.

Credo che al momento non ci siano condizioni favorevoli in Italia affinché si possa formare un movimento poetico che abbia peso nella realtà che ci soverchia. Invitare i poeti a re-agire rischia di sembrare idealistico, cionondimeno necessario; anche il più ritroso o isolato in una solitudine scelta e vissuta con pienezza può non rendersi monade. Fare poesia è di per sé un’azione, una presa di posizione cui consegue un collocarsi. Pensando al profondo senso di propulsione che si associa all’essenza della poiesis, anche il poeta più evitante e inconsapevole pensandosi antipolitico, nella scrittura concretizza comunque un atto politico persino a sua insaputa. Se apriamo lo sguardo e l’ascolto spaziando nelle verità dell’Altro, potremo comprendere meglio le scelte di ognuno.

Credi che possa sorgere una connessione utile tra poeti e ambientalisti/ attivisti per il clima? Di che tipo? Conosci già realtà esistenti? Ti aspetti risultati incoraggianti?

Una collaborazione è certamente possibile ma sono anche dubbiosa circa i movimenti per il clima, pur animati da sincero interesse da parte dei giovani; intravedo criticità dovute alla manipolazione mediatica. Sono più favorevole alle comunità locali, specie nelle campagne dove esistono nuove realtà anche piccole; è necessario che le voci resilienti si uniscano. L’aggregazione tra affini per buone pratiche di vita, culturali, pedagogiche è molto importante e lo sarà sempre più in futuro, fondamentale imparare a impostare le nostre vite alla sussistenza autonoma e al contempo alla condivisione, alla ricerca e all’attuazione del bene comune, unica via che ci rimane.