1.

In tempo di quarantena, anche gli editori devono trovare modi per adattarsi e, se possibile, di riformulare strategie. Ha provato a farlo Adelphi, inaugurando una nuova collana, «Microgrammi»: una collana di brevi ebook in cui vengono pubblicati – con tutti i crismi grafici e tipografici – estratti da testi più ampi che finora non avevano trovato collocazione o che sarebbero stati pubblicati in volume più avanti. Estratti che non funzionano però come assaggi o anticipazioni, ma come testi del tutto autonomi. E, come spesso accade quando la necessità aguzza l’ingegno, l’espediente diventa esperimento: e così questa nuova collana diventa, quasi suo malgrado, una proposta culturale: la scommessa su un genere, quello del racconto lungo e del longform. Come ha ben spiegato Matteo Codignola, editor di Adelphi, in un’intervista a Rivista Studio, «Microgrammi» offre la possibilità di leggere materiali altrimenti difficilmente collocabili, perché non avrebbero retto la forma di un vero e proprio “libro”: c’è un inedito trattamento cinematografico di Carlo Emilio Gadda, La casa dei ricchi; c’è uno strano, acerbo racconto giovanile di Shirley Jackson, Pomeriggio d’estate; c’è Lo scarabeo sacro, un inedito del grande entomologo francese Jean-Henri Fabre (antenato – o così lui sostiene – del celebre artista e performer Jan Fabre); c’è una raccolta di milonghe di Jorge Luis Borges, Per le sei corde; c’è, ancora, un doppio soggetto cinematografico di Emmanuel Carrère, Lingua straniera – un autore che qui conoscevamo molto bene come romanziere ma che in Francia è quasi altrettanto noto come sceneggiatore e regista.

La lista continua e probabilmente proseguirà, se – come pare probabile – certe difficoltà di produzione e distribuzione editoriale continueranno ad esserci. Ma resta quella che, al netto della circostanza, rimane un’ipotesi di lavoro interessante: il racconto lungo come forma ideale per il tempo d’emergenza: esperimento in certi casi, osservatorio privilegiato di analisi in altri. Fra i primi titoli della collana, c’è Un delitto in Gabon di Georges Simenon: un autore-simbolo per la casa editrice milanese, che qui ci viene presentato in una veste inedita, nella forma di un dittico “coloniale”. Un delitto in Gabon e La linea del deserto fanno parte di un gruppo di cinque «racconti esotici» (Adelphi li riunirà – o, appunto, li avrebbe riuniti – in un unico volume) che Simenon ha scritto a La Rochelle nel 1938, pubblicati nella collana «Police-Roman» fra il ’38 e il ’39 e che verranno poi raccolti, nel 1944, in Signé-Picpus insieme a tre inchieste di Maigret, a cui si apparentano da vicino per temi e genere. Analizziamo questi testi perché offrono uno specchio fedele, una piccola ipostasi di lettura che proprio per la sua brevità, risulta iconica: un avamposto privilegiato (e finora inedito) per guardare al grande e ormai consacrato scrittore francese.

 

2.

«Se la paura non è mai bella a vedersi, lo spettacolo diventa orribile quando ha per protagonista un omone il cui grasso malsano assume, per effetto dello spavento, un colorito ancora più giallastro…»: il signor Stil, protagonista di Un delitto in Gabon, viene presentato fin dall’inizio come il perfetto epicentro di una farsa: l’attore di una pantomima, di una gag. Stil è grasso, losco, neghittoso; ricco grazie allo strozzinaggio, faccendiere, viscido. Ha una moglie molto più giovane e bella di lui – e, probabilmente, a lui infedele. Alla bruttezza fisica corrisponde fedelmente una bruttezza morale. Siamo a Libreville, il porto più importante del Gabon, nella Guinea Equatoriale. Fa terribilmente caldo – come da manuale in un racconto coloniale che si rispetti – e siamo nell’imminenza di un temporale. Il commissario Bédavent è sdraiato su un’amaca. Compare, fin dall’inizio – il commissario la consegna, quasi liturgicamente, a Stil – una pistola carica.

Un’impalcatura simile si trova anche nel secondo racconto, La linea del deserto: volo aereo dal Cairo a Cape Town; un agente di Scotland Yard deve scovare un imprendibile ladro – chiamato, profeticamente, il Professore, mimetizzato fra i passeggeri. Intorno, un uomo con una barba finta, una bella donna di origini misteriose, uno sfuggente console creolo, uno sgarbatissimo pilota, frullati in un gioco delle parti che ricorda molto il celeberrimo Assassinio sull’Orient-Express (che infatti è del 1933). Anche qui, una pistola carica. Sappiamo quindi che, secondo la regola aurea di Čechov, entro la fine del racconto quella pistola sparerà. Tutto è pronto per un delitto – la trappola è apparecchiata e predisposta, secondo quella che è forse la tecnica narrativa in cui Simenon è maestro: inscenare una teoria di tipi umani ambigui e sfuggenti, miserabili e rabbiosi, folgorati in un gesto o in un desiderio come dannati danteschi. Tutti sono potenziali colpevoli proprio perché nessuno può dirsi innocente: non perché abbiano commesso il delitto, ma perché tutti sarebbero in grado di farlo: la natura umana è corrotta, e il crimine una deviazione sempre imminente. Tutto, da qui in poi, si svolge in un addentellato meccanico, che porta allo svelamento della colpa come la dimostrazione di un teorema.

Tuttavia, qui, il delitto vero e proprio non accade mai; la colpa è una casella vuota, un vero e proprio atto mancato. Proprio questa peculiarità rende questi due racconti un eccezionale punto di vista sulla narrativa di Simenon: qui il delitto, proprio perché mai avvenuto, appare in tutta la sua valenza metaforica. Il crimine, in Simenon, è un atto potenziale: spazio di ricaduta di una motivazione esterna, e mai fine a se stesso. Delitto annunciato e previsto, come in Maigret e il caso Saint-Fiacre; delitto senza colpevole, come in Maigret e la spilungona; delitto “mediatico” come in L’uomo che guardava passare i treni; delitto tutto mentale, analitico, in Colpo di luna (che peraltro è anch’esso ambientato a Libreville). E si potrebbe continuare: libri che ruotano intorno a un omicidio in cui l’omicidio non è mai il centro, ma sempre “pretesto”, specchio amplificatore di una passione o di una postura. Un delitto in Gabon e La linea del deserto costituiscono un dittico a suo modo esemplare, giacché mostrano come il delitto perfetto sia sempre – come dimostrerà poi anche Dürrenmatt – un delitto virtuale. E quindi, forse proprio per la sua inumana perfezione, un delitto fallito.

 

3.

Entrambi i racconti strutturano, come da canone, un agonismo a due. Nella Linea del deserto sono l’agente Nordley e il Professore; in Un delitto in Gabon il commissario Bédavent – perfetta “controfigura coloniale” di Maigret – e il plautino signor Stil. È una polarità connaturata al genere, ma che in Simenon ha ben poco del classico rapporto cacciatore-preda; è piuttosto una polarità di tipo speculare. Lo sanno bene i lettori di Maigret: ogni colpevole è portatore di un riflesso, e l’agnizione procede per un processo di immedesimazione: Hubert in Il signor Cardineau, il Marchese in Maigret e l’uomo solitario; Ernest in Maigret e il caso Saint-Fiacre; Giovanni Pepito in Maigret e la vecchia pazza. Ogni atto criminale è uno sguardo in un abisso dell’umano che, per quanto fetido, appartiene sempre anche a chi guarda. Ben lontano dall’approccio neopositivista che faceva di Sherlock Holmes un formidabile campione di metodo analitico-deduttivo, Bédavent-Maigret trova il colpevole perché conosce il cuore dell’uomo. L’esperienza gli ha concesso il dono e il peso di una dolorosa saggezza. Come un medico o un confessore, vorrebbe forse non sapere, ma sa. La sua ricerca del colpevole si fonda sul motto di Madame de Stäel: tutto comprendere, tutto perdonare. La sua indagine traccia sempre i lineamenti di un volto umano. I colpevoli entrano nel racconto come mostri, e ne escono uomini. Lo disse esplicitamente Simenon in un’intervista del 1985 a Giulio Nascimbeni: «Ho dato a Maigret una regola fondamentale della vita mia: comprendere e non giudicare, perché non ci sono colpevoli, ma soltanto vittime».

Da qui, la concezione specifica, e in fondo dostoevskiana, che Simenon ha del delitto: esso non è mai un atto incomprensibile, non è mai davvero altro: ma anzi lo si scopre proprio in virtù della sua indefettibile umanità. In Simenon il movente non manca mai: la colpa sta nella sovrapposizione, inguardabile ma umanissima, fra nevrosi e desideri. Da questo punto di vista, questi racconti sono quanto di più lontano esista dal “racconto coloniale” come siamo abituati a conoscerlo: qui non c’è mai un altrove. L’ambientazione esotica è un fondale vuoto su cui si proiettano le proprie stesse ossessioni. Nel mondo al di là dei confini ritroviamo un mondo identico al nostro; al di là della conradiana linea d’ombra agisce lo stesso schema che uccide nel centro di Parigi; il cuore di tenebra è quello di sempre: quello che è sempre stato qui.


86264b6584865de807f32f968684d5dd_w480_h_mw_mh_cs_cx_cyGeorges Simenon, Un delitto in Gabon, Adelphi, «Microgrammi» 2, Milano 2020, 75 pp. 1,99€