I. Fogli, cartelle, quaderni e quinterni

Spicca per solidità, come frutto maturo da cogliere tra i rami alla fine di questa difficile stagione editoriale, la raccolta delle poesie infantili e giovanili di Corrado Costa (apparsa per Argo al termine dell’estate).

Il volume è solido in senso letterale e figurato: la robustezza della fattura rispecchia perfettamente la serietà dell’impresa editoriale. Descriverlo, perciò, può avere un senso: si tiene grazie a resistente cartoncino arancio scuro (che accoglie in copertina sottili caratteri tipografici neri, ricordando vecchie carte da pacco e da imballaggio dove può capitare – è anche il caso di Costa, lo si vedrà – di annotare parole d’occasione); i versi sono stampati su carta lucida e consistente; è inframmezzato da un significativo apparato iconografico, che incarna il dettato costiano in tutta la sua medialità.

Essenziale infatti per cogliere appieno il significato di queste prime prove poetiche (si va dalla alla fine degli anni ’30 alla fine degli anni ’50 del Novecento) – non limitandosi soltanto al loro valore archeologico e genealogico – è tenere conto della varietà dei supporti da cui prendono vita: ovvero visualizzare «questo quaderno dove noto in fretta le parole» (p. 201) tematizzato dall’autore stesso come campo d’azione della scrittura e che, «di riga in riga ai fogli e troppo vuoto» (p. 154), schiude tutte le possibilità, positive e negative, del linguaggio.

Lo spiega bene Chiara Portesine, la curatrice dell’opera, nell’ampio paratesto: avere a che fare, in sede di ricerca, con fogli, cartelle, quaderni e quinterni equivale non solo a riordinarli, ma pure e a metterci dentro le dita e a scegliere – affinché essi felicemente indirizzino i propri criteri operativi e permettano un’effettiva rilocazione del testo che vada al di là della mera trascrizione editoriale.

Le carte di Costa – zibaldone verbovisivo che prelude alle sperimentazioni dei suoi libri successivi e più famosi, e che rimontano alla stagione della Neoavanguardia italiana – sono come i sanguinetiani «fogli di scuola con rigatura regolare» che il poeta maturo inseguirà per non dimenticarsi mai come si scrive «una lettera infinita»[1]: per riassumere ogni componente del segno poetico.

Portesine rende onore al segno in molti modi. Annettendo al corpus le righe dei quaderni e i disegni di Costa e i suoi collages ben fotografati, ma soprattutto mettendo a parte il lettore, nel commento, della conformazione di ogni poesia. In tal modo l’apparato di note si fa regesto: grazie alla descrizione di come ciò che leggiamo si sia anzitutto presentato agli occhi e alle mani di chi studia, riviviamo a un tempo processo creativo e messa in opera.

II. Dinamologica. Canone, modello e sopravvivenze

L’immagine della foglia è in assoluto la più ricorrente di questa raccolta. Basti pensare che la sola parola (“foglia”, in tutte le sue declinazioni) compare e ricompare di continuo, dalle prime alle ultime poesie; mantra oltre che Leitmotif, permette di rischiarare l’intera impresa poetica di Costa alla luce di una vera e propria metaforologia vegetale.

Nel nome delle foglie si possono isolare nuclei tematici – se non teorici – che informano tanto i testi quanto la concezione costiana del ruolo del poeta. In primo luogo, per quanto riguarda il rapporto con gli autori classici.

Molte prove costiane degli anni giovanili sono di fatto poesie d’occasione, riscritture, imitazioni, parodie: strettamente dipendenti da testi altri.

Costa sente tutto il peso della tradizione, specialmente italiana e latina («Se io fossi poeta e incoronata/ dal lauro verde fosse la mia fronte/ vorrei di frusta lasciassero le impronte/ i versi miei», p. 70), e cerca espedienti per esorcizzarla, per non esserne schiacciato e uscirne vinto: se ne vorrebbe liberare («E un giorno abbandonando quei tuguri/ ove me stesso avrò già piano ucciso/ salirò il colle ove verdeggian puri/ gli alberi contro il cielo», p. 75).

Le parole ereditate dal passato sono accostate a foglie, che però si staccano dagli alberi («Ho quel ricordo/ lieve/ come foglia secca/ e speranza di viola», p. 162) per ritornare in un flusso che scorre come il fiume (altra metafora chiave, che in Costa rappresenta il poetare: «Dal fiume antico/ immagini più care/ avvicendarsi», pp. 161-162) dove precipitano e viaggiano.

È compito del poeta non farsi sopraffare dal fluire incessante delle acque dove talvolta affiorano frammenti di ciò che è stato, immagini e parole memoriali che hanno lo statuto della sopravvivenza (Nachleben) warburghiana. Il flusso è per Costa, attivamente e ancora warburghianamente, energia; diviene energia creativa ogni qual volta i simboli del passato (nel suo caso le fonti classiche) vengono canalizzati[2]: quando si sfrutta la loro potenza per accenderli o spegnerli, polarizzandoli.

Il poetare è concepito da Costa come un fare poesia, come un’attività dinamica costantemente rimarcata dalla metafora fluviale (il flusso, sottolinea Portesine nell’introduzione, si farà “eracliteo” nei libri costiani degli anni Sessanta, ma in questi esempi il fare artistico appare già caratterizzato – fiedlerianamente – come infinito: senza stasi[3]).

Il poeta dunque è colui che, intuendo la cifra dinamologica del suo compito, sa inserirsi in questa ciclicità di corsi e ricorsi (mnestici, iconici e testuali) e sa prendere ciò che rimane nel letto o ai lati del fiume (resti organici e inorganici, rispecchiando la dicotomia jüngeriana di «foglie e pietre» come polarità formali[4]): «Lo so. Lo so. Perché ritorni sempre/ a ricordarmi il filo d’erba/ raccolto lungo il fiume/ e la conchiglia che cullava nel fango/ un sogno d’onde?» (p. 43).

Per Costa le parole antiche da foglie secche possono rinverdire («Una foglia secca/ ed una viola/ ti svelano/ ad ogni cerchio del mattino/ tanta vita», p. 162); seguendo ancora Warburg, l’attività poetica pulsa forte come «il fluire ascendente della linfa [Säftesteigen[5]: «Figure addormentate/ risognano un trascorrere, forse di foglie» (p. 167).

III. Morfologica. Simboli, immagini e ritmo

L’omologia fra parole e foglie dà modo a Costa di catturare istantanee nell’eterno trascorrere dell’attività poetica. Ogni parola è per lui, in certo senso, fitomorfa («Parole qui hanno le foglie/ e trovano parole le acque», p. 26); solo così la scrittura è lingua viva. Attribuire – o meglio riconoscere – alle parole organicità è, per la sistematicità con cui si verifica negli esercizi costiani, operazione morfologica.

Quella morfologica è primariamente una particolare disposizione verso la forma, anzi verso tutte le forme; una delle sue più icastiche formulazioni la dobbiamo naturalmente a Goethe: «Si basa sulla convinzione che tutto ciò che è deve anche dare cenno di sé e mostrarsi. […] Ci occupiamo subito di tutto ciò che ha forma. […] La forma è qualcosa che si muove, che diviene, che trapassa. Dottrina della forma è dottrina della trasformazione. E la dottrina della metamorfosi è la chiave per tutti i segni della natura»[6].

Come è noto, Goethe venne folgorato quando nel giardino pubblico di Palermo ebbe la sensazione di sentirsi forma tra le forme, e di potere soppesare ogni forma semplicemente guardandola (con uno sguardo simile «all’occhio dell’artista, in quanto […] permette di distinguere e perfino di misurare perfettamente le distanze»[7]) e poi descrivendola.

Se tutto il mondo appare come un giardino («Tutto ciò notavo nel libero mondo, e una nuova chiarezza sembrava irradiarsi sui libri e i giardini»[8]), si fa presto ad assottigliare le rigide distinzioni formali: ogni forma si riconfigura come parte di un divenire formale in perenne movimento. La foglia è simile alla mano che scrive; la foglia ha qualcosa in comune con la parola: la forma (Gestalt) è conformazione (Gestaltung).

Perché la foglia acquisisca tale portato rivelatore Costa la sorprende, espandendo la sua simbolica, in movimento; in quello del suo ciclo vitale così come nei rapporti con l’ambiente e il clima. Le forme (quindi le foglie) non sono statiche, ma si muovono nel vento («Ricordo:/ il vento/ era desiderio di foglie», p. 31; «Il vento tocca le foglie e bisbiglia», p. 35): sono, in sostanza, ricomprese nella loro ritmica presente, che corre in parallelo alla dinamologica di quelle del passato.

Sentire e seguire il ritmo “climatico” della vegetazione è trovare le parole giuste: isolare le foglie verdi e mettere da parte quelle rinsecchite, ovvero le parole che periscono nella normale ciclicità delle forme: «Perde le foglie il rovo. Nude spine/ offron aspri cilici a foschi asceti/ Oggi la carne è morta» (p. 67); «E la quercia è sempre sola/ qualche ala la sfiora/ ma per poco/ il vento l’accarezza così per gioco/ e le toglie le foglie/ la quercia è incattivita/ sola da anni» (p. 69).

Negli esiti più maturi, Costa lo esplicita senza esitazione: «Il poeta è come l’albero» (p. 187), carico di foglie e di frutti e inevitabilmente esposto agli accidenti della natura. Alcune forme – come in natura – vivono, altre muoiono; ciascuna dunque potenzialmente riassume in sé le caratteristiche eterogenee del processo creativo, ed è passibile di crescita: «Come l’albero nasce cieco nel mondo/ la vita lo assale e germina e germoglia/ e fruttifica/ le sue parole sono seme di sangue» (p. 206).

La parola poetica, così organicamente intesa, ricorda infine l’ammonimento novalisiano per cui «tutto è seme di grano»[9]. Novalis alludeva alla letterarietà insita in qualsiasi tipo di testo; un secolo dopo si sarebbe detto: in qualsiasi tipo di segno.

IV. Botanica. Un erbario verbovisivo

Una concezione della forma poetica talmente eterodiretta ha spinto Costa, dagli anni Sessanta, verso uno sperimentalismo effettivamente verbovisivo (è in preparazione, a tal proposito, il secondo volume della sua opera; possiamo essere certi, stanti le premesse di questo primo, che nella curatela ne verrà tenuto conto). Le poesie di questa raccolta, però, pur essendo banco di prova, ne contengono già il germe.

Molti brani sono veri e propri castoni di iconismo testuale: casi di violente sinestesie («Ho urlato mani rosse», p. 36) che sfociano in versi che risuonano grazie ai cromatismi («E su Asolo/ clavicembali/ un prete rosso tempera/ Come musica/ nelle foglie», p. 231); trasfigurazioni imagistiche («Ora/ stelle dipinte fanno i cieli astratti/ lungo le volte», p. 200); ecfrasi di quadri e sculture incorporate in componimenti dedicati a celebri artisti (Van Gogh e Wiligelmo, pp. 228-229; 231-232).

Ci sono anche le prove di iconismo visuale patente: dalla terna di testi intitolata Astrattismo poetico (p. 144), in cui le parole sono interamente piegate alla resa del visivo, fino ad arrivare al Poemetto – “Dicembre”, in cui i versi sono ritagli di giornale trouvés e applicati al foglio (pp. 179-180 per il testo; il collage è riprodotto nell’apparato iconografico).

Insomma, Costa “botanico” e morfologo non ha potuto fare a meno di affiggere le sue “parole con le foglie” – che tanto ha faticato per collezionare – in un erbario (in un album, superando il libro); affinché le si possa guardare, oltre che leggere.


[1] E. Sanguineti, “Reisebilder, 29” (1971), in Id., Segnalibro. Poesie 1951-1981, Feltrinelli, Milano 1982, p. 133.

[2] «Il simbolo è un contrassegno [Kennzeichen] che ha acquisito il proprio senso tramite ricordi [Erinnerungen] (storie) noti», A. Warburg, Grundlegende Bruchstücke zu einer pragmatischen Ausdruckskunde (Frammenti sull’espressione), n. 141 (1891), cit. e tr. it. in A. Pinotti, Memorie del neutro. Morfologia dell’immagine in Aby Warburg, Mimesis, Milano-Udine 2001, p. 169; cfr. in particolare, per la tematica in oggetto, i capp. “Dinamologia” e “Polarità”, alle pp. 169-175, 177-183.

[3] Il filosofo e teorico dell’arte ottocentesco Konrad Fiedler fu tra i primi a elaborare una concezione dell’attività artistica come flusso eracliteo, continuo e incessante, di percezioni formalizzate: «L’arte è infinita, ogni opera d’arte ne appare solo un frammento, e tuttavia in sé si presenta come qualcosa di perfettamente concluso», K. Fiedler, Aforismi sull’arte (1914), tr. it. di R. Rossanda, Minuziano, Milano 1945, p. 127; cfr. anche il seminale scritto fiedleriano “Sull’origine dell’attività artistica” (1887), in K. Fiedler, Scritti sull’arte figurativa, tr. it. e a cura di A. Pinotti e F. Scrivano, Aesthetica, Palermo 2006, pp. 69-152.

[4] Cfr. E. Jünger, Foglie e pietre (1934), tr. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997.

[5] A. Warburg, Notizbuch (1927), cit. e tr. it. in A. Pinotti, Memorie del neutro, cit., p. 171. Sull’estetica dell’energia cfr. invece A. Barale, F. Desideri, S. Ferretti (a cura di), Energia e rappresentazione. Warburg, Panofsky, Wind, Mimesis, Milano-Udine 2016.

[6] J.W. Goethe, “Morfologia” (1795-1798), in Id., Per una scienza del vivente. Gli scritti scientifici: Morfologia III, tr. it. di R. Rizzo, Il Capitello del Sole, Bologna 2009, p. 115.

[7] J.W. Goethe, Viaggio in Italia (1816, 1817), tr. it. di E. Zaniboni, Rizzoli, Milano 2019, p. 246. Per la celebre descrizione della Urpflanze, la pianta originaria, cfr. ivi, pp. 271-27 e la lettera a Herder da Napoli scritta il 17 maggio 1787, in ivi, pp. 320-331.

[8] J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante (1790), a cura di S. Zecchi, tr. it. di B. Groff, B. Maffi, S. Zecchi, Guanda, Parma 1983, p. 51. Il carattere onnicomprensivo dell’idea di giardino viene approfondito, nella Frühromantik, anche da Wackenroder, che la associa alla sintesi delle arti: «Non riesco tuttavia a comprendere come un vero amore per l’arte non attraversi tutti i loro [delle arti] giardini e non si rinfreschi a tutte le fonti», W.H. Wackenroder, “Fantasie sull’arte” (1799), in Id., Opere e lettere. Scritti di arte, estetica e morale in collaborazione con Ludwig Tieck, tr. it. di F. La Manna, Bompiani, Milano 2014, pp. 329-578, qui p. 471.

[9] Novalis, “Frammento n. 188” (1798), in Id., Scritti filosofici, a cura e tr. it. di F. Desideri e G. Moretti, Morcelliana, Brescia 2019, p. 405.


Corrado Costa, Poesie infantili e giovanili (1937-1960). Opere poetiche I, a cura di Chiara Portesine, Argo, Ancona 2020, 320 pp., 20,00 €.