“Tutti i problemi dello scrivere sono problemi del vivere”, afferma Rachel Cusk in un’intervista per il New Yorker nel 2018. Dopo aver raggiunto una controversa popolarità con alcune opere autobiografiche che questa linea di confine tra scrivere e vivere cancellano d’un colpo – A Life’s Work: On Becoming a Mother nel 2001 (Puoi dire addio al sonno: cosa significa diventare madre, trad. it. di Micol Toffanin, Mondadori, 2009), The Last Supper: A Summer in Italy (2009) e Aftermath: On Marriage and Separation (2012)– Cusk torna al romanzo. Ma lo fa a modo suo, forzandone i meccanismi tradizionali per esplorare nuove forme del rapporto tra realtà e arte.

Outline (2014), Transit (2016) e Kudos (2018) – pubblicati in Italia da Einaudi tra il 2018 e il 2020 rispettivamente con il titolo Resoconto, Transiti e Onori, nella traduzione di Anna Nadotti – formano una trilogia incentrata sul personaggio di Faye, scrittrice di mezza età, recentemente divorziata, con due figli, la quale fa da perno formale e voce narrante. Eppure, paradossalmente, di lei il lettore sa pochissimo perché a nutrire i romanzi è la serie ininterrotta di storie raccontate dai vari personaggi in cui si imbatte la protagonista, prima in occasione di una summer school ad Atene, poi nel corso delle prime settimane di un trasloco londinese, ed infine durante un tour letterario promozionale in due non meglio precisate città europee.

Proprio perché i problemi dello scrivere sono gli stessi del vivere, nella sua forma e nei temi centrali la trilogia nasce (anche) in risposta a una situazione personale. Nello specifico, Cusk è alla ricerca di una forma narrativa capace di rendere l’impasse espressiva del sé in cui si trova in seguito all’esperienza traumatica del divorzio, ma che al contempo riesca a rappresentare l’esperienza personale evitando però le politiche della soggettività e mantenendosi libera da convenzioni romanzesche.

Ora, un discorso ragionato sull’autofiction (e sulla questione se la trilogia di Cusk sia o meno da ascrivere a questo genere) non è cosa banale e meriterebbe un intervento a parte. Mi limiterò qui a dire che il problema dell’asservimento alle politiche della soggettività nasce da uno stallo tra due esigenze contrapposte. Da una parte, la questione dell’esperienza personale è fondamentale per Cusk da un punto di vista sia funzionale, perché l’autrice afferma di aver bisogno di vivere determinate situazioni per poterle poi esplorare nella scrittura; sia tematico, dal momento che lo scarto tra soggettività dell’esperienza e la sua rappresentazione collettiva la interessa molto soprattutto in ottica femminista. Dall’altra, dopo essersi esposta in prima persona nei suoi memoirs su maternità e divorzio con forti conseguenze sul piano sia psicologico che legale, è comprensibile che Cusk senta il bisogno di scindere almeno formalmente la propria persona dall’avatar letterario. Se dunque è vero che Faye e Cusk condividono diversi aspetti, non si può ignorare il fatto che non portino lo stesso nome e che i lettori saranno quindi giustificati ad avvicinarsi ai romanzi come opere di fiction.

Posizionandoci dunque nell’ambito della fiction e delle sue regole condivise, il terreno principe su cui Cusk sceglie di rompere con le convenzioni del romanzo è quello del personaggio, che l’autrice non esita a dichiarare morto insieme alla descrizione, con buona pace della tradizione novecentesca. Una delle prime cose che noterà il lettore man mano che prosegue la lettura di Outline e poi dell’intera trilogia, è che, salvo pochissime eccezioni, i personaggi incontrati sono destinati a non ritornare. Una caratteristica che si pone in aperta e stimolante contraddizione rispetto ad orizzonti di attesa tradizionali, dove il lettore è istigato ad una sorta di strabismo sistemico che gli fa tenere un occhio sulla scena in corso e uno sulle potenziali implicazioni di ogni parola letta e azione immaginata. In questo senso, mi pare che questo schiacciamento sul presente, lungi dall’opprimere come la parola sembrerebbe suggerire, produca invece un effetto liberatorio. Disimpegnato dalla formulazione di predizioni sugli sviluppi futuri (e complicando così ipotesi teorico-narrative di ultima generazione quali il predictive processing elaborato da studiosi come Karin Kukkonen), il lettore si trova coinvolto in una riflessione che procede per accumulo e giustapposizione di pezzi a sé stanti, in cui ci si immerge con abbandono.

Abbandono tanto più godibile dal momento che questi episodi – questi pseudo-monologhi – non risultano mai del tutto slegati e il lettore non è lasciato solo a ricostruire connessioni labili e forse immaginose. La continuità dell’universo narrativo è assicurata. Ma soprattutto sono legati dal fatto di essere esperiti dalla stessa persona, Faye, che benché si pronunci raramente rispetto a ciò che le viene raccontato, non può fare a meno di delinearsi sempre di più in quanto personaggio, soprattutto a partire dal secondo volume della trilogia. È proprio questo procedimento di definizione del soggetto per progressivo riempimento dello sfondo ad essere indirettamente segnalato dal titolo di Outline. Scopro con leggera sorpresa che la traduzione italiana a cura di Anna Nadotti intitola il primo romanzo Resoconto, scegliendo una accezione del termine inglese che è quasi opposta rispetto al significato che avrei attribuito in questo caso. Mentre il resoconto è una summa, outline è invece qui sagoma e contorno, qualcosa che si definisce unicamente grazie ai propri confini, che appare solo nel momento in cui si incontra e si scontra con l’altro da sé.

“while he talked she began to see herself as a shape, an outline, with all the detail filled in around it while the shape itself remained blank. Yet this shape, even while its content remained unknown, gave her for the first time since the incident a sense of who she now was.” (239-40)

Sebbene queste parole si riferiscano ad uno dei personaggi di Outline,così è anche per il personaggio di Faye, che è fondamentalmente occhio che guarda e, soprattutto, orecchio che ascolta. Riconoscere la sagoma di Faye è questione di intuire un silenzio che sostituisce, deliberatamente, il brusio incessante di una mente per noi impenetrabile (altra interessante questione etica) ma che non smette mai di elaborare il reale che la circonda. E tuttavia se in Outline l’impressione iniziale è che la voce narrante abdichi a se stessa per ridursi a cassa di risonanza, a guardare più da vicino ci si accorgerà che i brevi interventi in discorso diretto e gli ampi brani indiretti sono caratterizzati da una sospetta uniformità di linguaggio. Se, come afferma Cusk in un’intervista al Guardian, lo stile della scrittura è inscindibile dalla soggettività, è difficile non ammettere che di tutte queste storie è Faye la mediatrice discreta ma pervasiva.

È dunque lei a farsi specchio dell’altro, o sono piuttosto gli altri a restituire, indirettamente, il riflesso della narratrice? Così posta, la questione è destinata a rimanere irrisolta perché quella di Cusk è in effetti una riflessione sulla porosità dei confini tra sé e l’altro. È anche una riflessione sulla differenza e l’apparente conflitto tra forgiare la propria vita e tesserne il commentario. Outline cattura il momento in cui questa domanda prende forma: “I was beginning to see my own fears and desires manifested outside myself, was beginning to see in other people’s lives a commentary on my own” (p. 75). Malgrado Transit rechi nel titolo l’idea di transitorietà e passaggio, mi pare paradossalmente che il secondo capitolo della trilogia sia non solo l’opera più equilibrata delle tre ma anche quella più positiva – nel senso che vede Faye impegnata in una faticosa, provvisoria ma innegabile pars construens, drammatizzata anche letteralmente nel romanzo: dopo la separazione, la protagonista si trasferisce con i figli a Londra e decide di ristrutturare il fatiscente appartamento appena acquistato, con l’aiuto di un costruttore polacco e in aperta guerra contro gli inquilini del piano inferiore. In questo romanzo di mezzo, Faye cessa di essere sagoma silenziosa e lotta per ricostruire la propria immagine. Anche questa, dunque, un’operazione tesa a ritrovare la propria soggettività. Ma se in Outline l’unica strategia consiste nel riflettersi nelle vite degli altri, qui Faye si trova a sondare i propri margini in maniera più attiva, osservando le reazioni sue e degli altri alla turbolenza delle acque che lei stessa smuove intenzionalmente – trasferendosi a Londra, ristrutturando casa, aprendosi a un primo appuntamento, scegliendo di visitare amici e parenti –, come in una sorta di processo di eco-localizzazione.

In Kudos la dicotomia che vedeva contrapposti commentario e vita – quest’ultima intesa come esperienza “reale” nel senso di “non mediata” – si scioglie e si deforma. I due termini entrano in collisione, mettendo in luce la dipendenza reciproca e confondendosi l’uno nell’altra:

“And all the time I was digging I couldn’t tell whether what I was doing was manly and honorable or just fake as well, because at the same time as I was digging I was imagining telling people about it.” (p. 29)

La riflessione si complica e si sposta sull’uso del racconto come strategia per dare forma alla realtà e che, nel momento in cui comincia ad essere adottata in maniera consapevole, influenza inevitabilmente l’esperienza stessa. All’equazione si aggiunge dunque un terzo elemento: l’io, l’altro, e l’io che guarda se stesso nelle proprie relazioni con il mondo. Non è un caso che la figura del triangolo venga proposta in una delle conversazioni di Kudos, in cui l’ennesimo interlocutore di Faye tenta una rappresentazione matematico-geometrica del rapporto tra Adamo, Eva e il serpente. Nel triangolo, il terzo termine è quello che permette agli altri due di determinare la propria posizione – il che ci riporta alla questione dell’altro come termine necessario alla definizione del sé.

Nel processo di riappropriazione della propria soggettività, il passo successivo è il confronto con l’altro nella sua accezione più ampia, cioè in quanto collettività. È soprattutto in relazione a quest’ultima che nel terzo romanzo della serie diventano preminenti i temi della giustizia e della legge, ossia la pratica che regola i rapporti tra esperienza personale dell’individuo e quella del gruppo. La nozione di kudos rappresenta il premio ma anche, nel significato originale greco, il riconoscimento pubblico delle proprie azioni, ed è quindi fortemente legato all’idea della comunità. Ma kudos, per Cusk, è anche il riconoscimento del lavoro non ufficialmente inteso come tale, a partire da quello genitoriale – e nello specifico di quello materno – che appare invariabilmente marcato dalla difficoltà di trovare adeguata gratificazione. Uno degli aspetti che rendono particolarmente interessante la discussione di Cusk della situazione esistenziale e sociale della donna – sia a livello di drammatizzazione che nelle osservazioni dirette – è la sua capacità di rifuggire interamente il sentimentale. Non certo nel senso di una demonizzazione della dimensione emotiva, quanto del rifiuto, per dirla con Sheila Heti, a lasciarsi guidare da un ‘feeling about the idea of a feeling’ (Motherhood, p. 41). Potremmo forse azzardare l’ipotesi che il sentimentale – ossia la tendenza a privilegiare l’idea relativa al racconto di un modo di sentire rispetto all’esperienza soggettiva del medesimo sentimento – sia il risultato di una mala gestione del rapporto tra vita e arte, poiché l’esperienza viene distorta e da racconto personale si cristallizza nel tempo diventando discorso culturale. Ciò che trovo apprezzabile in Cusk è lo sforzo costante per rimettere in moto la tensione dinamica tra esperienza soggettiva e la sua condivisione sociale nella collettività, evitando che uno specifico racconto si imponga su altre versioni soggettive di un’esperienza analoga – prima tra tutte quella della maternità.

Nella trilogia, questo sforzo è perseguito non solo attraverso le singole riflessioni articolate dai personaggi, ma anche attraverso la forma narrativa stessa che vuole una moltiplicazione esasperata dei personaggi e dei loro racconti. Per Cusk, il personaggio è morto nel senso che non deve più necessariamente farsi espressione di una rete di circostanze che ne determinano le caratteristiche e rispetto alle quali se ne giudica la coerenza. Allo stesso tempo, però, esso rimane una strategia fondamentale per dare forma a un’esperienza che non può fare a meno di essere radicata nella contingenza se non vuole ridursi ad allegoria. Essere portavoce di una prospettiva soggettiva è ciò che rende ogni personaggio degno di essere ascoltato.

Riallacciandomi a quanto scritto all’inizio, la convenzione romanzesca di cui Cusk si e ci libera è quella del processo di identificazione. Destinati a rimanere presenze effimere sul cui futuro non siamo chiamati a investire, i personaggi della trilogia offrono continue variazioni e sfaccettature degli stessi conflitti inevitabili, ed è con questi conflitti che il lettore è portato a identificarsi. Personalmente, trovo che il romanzo più bilanciato sia Transit, in cui la casistica umana e tematica incontrata da Faye raggiunge un perfetto equilibrio tra varietà e ricorso; ma pur essendo vero che in Kudos questo modo di procedere si fa a tratti esasperato e i personaggi diventano intercambiabili perdendo progressivamente rilevanza rispetto alla quantità di storie che raccontano è perché la ripetizione è più potente del cambiamento. Con un afflato un po’ calviniano, potremmo dire che la specificità di ogni storia è controbilanciata dal numero crescente, tale per cui la singolarità non è più gravata dall’essere negazione di tutte le altre storie possibili, ma diventa un tentativo (irrealizzabile) di attualizzazione della potenzialità.

Analogamente, anche le circostanze che portano Faye a trovarsi continuamente nella posizione di ascoltatrice esentata dall’obbligo di replica diventano in Kudos via via più improbabili, culminando in una serie di ben tre interviste fallite. E tuttavia tenderei a interpretare il ricorso sempre più labile ad espedienti realistici come un modo per rivendicare la deliberata artificialità dell’opera d’arte, piuttosto che un segno di stanchezza. I romanzi di Cusk offrono infatti un’esperienza ibrida, in cui il piacere di lettura è garantito da un equilibrio sapiente tra la bulimia di esperienze – dettagli, relazioni, contesti – e il trovarle già composte in una forma definita: racconti-monologo che si rifanno al modello tradizionale dell’Odissea o a quello novecentesco della terapia. E questo perché, da ultimo, vivere e scrivere sono accomunati dall’avere al proprio centro un problema di rappresentazione (e dunque di forma): di sé, dell’altro e dell’esperienza che ci investe ininterrottamente, senza soluzione di continuità.

Nel leggere le riflessioni di chi annovera Rachel Cusk tra le voci più interessanti del panorama letterario contemporaneo, mi sento di concordare sul fatto che la trilogia merita decisamente attenzione non solo perché si gioca su una scommessa ambiziosa dal punto di vista letterario offrendo al contempo spunti interessanti per una riflessione di carattere etico, ma perché tutto questo accade entro la cornice di una narrazione accessibile e decisamente godibile. In questi romanzi, Cusk porta avanti anche un significativo lavoro di revisione del linguaggio: mentre nelle precedenti opere finzionali l’autrice sfoggia uno stile elaborato e denso, ricco di metafore e riferimenti letterari, Outline, Transit e Kudos sono caratterizzati da un linguaggio lineare e preciso, articolato e non banale che se deve scegliere tra una parola in più e una in meno preferisce rischiare in difetto che non in eccesso. La necessità di esporsi il meno possibile impone alla voce narrante un’essenzialità snella che lambisce i limiti dell’ellissi, e lo stile che ne risulta dà alla pagina un ritmo eccellente.

Come ultima nota conclusiva, vorrei portare all’attenzione del lettore un ultimo dettaglio: le copertine delle edizioni inglesi di Faber&Faber (con fotografie di Charlie Engman e design di Rodrigo Corral), la cui tensione misteriosa tra specificità particolare del soggetto e suo portato astratto può essere vista come una chiave di lettura dell’intera trilogia.


Rachel Cusk, Outline (2014) – trad. it. di Anna Nadotti: Resoconto, Torino, Einaudi, 2018, 192 pp., € 17.

Rachel Cusk, Transit (2016) – trad. it. di Anna Nadotti: Transiti, Torino, Einaudi, 2019, 200 pp., € 17.

Rachel Cusk, Kudos (2018) – trad. it. di Anna Nadotti: Onori, Torino, Einaudi, 2020, 192 pp. € 16,50.