Pubblicato a dicembre 2019 con Mondadori, il romanzo di Elena Molini torna a far parlare della realtà messa in piedi con notevole successo dall’autrice: una libreria indipendente a sud di Firenze, la cui particolarità è il catalogo di opere organizzato non per genere o autore, bensì in base alle emozioni, agli stati d’animo o alle situazioni esistenziali in esse rappresentati.

Dopo aver lavorato per alcuni anni in librerie di catena, Elena Molini inaugura la Piccola Farmacia Letteraria nel 2018, riscuotendo subito un largo interesse a livello nazionale che ne apre le porte a clienti curiosi provenienti da tutta Italia. È la genesi di questa esperienza ad essere raccontata nella storia di Blu – protagonista del romanzo e controparte finzionale di Molini –, giovane libraia trentacinquenne alle prese con una piccola attività appena aperta che stenta a decollare, una vita amorosa insoddisfacente e tutte le gioie e dolori legati al vivere in un appartamento condiviso con tre amiche. Nel corso di disordinate e spesso imprevedibili giornate lavorative, Blu si trova ad aiutare diverse persone che le si avvicinano in libreria, e si accorge di poterlo e saperlo fare attraverso azzeccati consigli di lettura. Decide così di sviluppare questa idea e, supportata dalle amiche, converte un’ampia sezione della libreria a Piccola Farmacia Letteraria, etichetta che diventa anche il nome dell’attività stessa (rubando le luci della ribalta al nome “Libreria Novecento”, di ascendenza baricchiana). Al racconto romanzato delle vicende che l’hanno portata a ideare la Piccola Farmacia Letteraria, Molini intreccia con una certa ironia una linea narrativa che è metafora della presenza pervasiva che i personaggi delle nostre letture continuano ad avere nella vita quotidiana, arricchendola e aprendoci nuove porte e prospettive che altrimenti non saremmo riusciti a immaginare.

Chiunque ami la letteratura e sogni di vivere in un mondo in cui la condivisione di questo piacere possa diventare non solo una professione ma financo un farmaco, non potrà che rimanere affascinato dalla storia di Blu/Elena, il cui allegro ottimismo rimane nell’aria anche dopo aver chiuso il romanzo. L’iniziativa di Molini ha chiaramente saputo rispondere a un bisogno della comunità dei lettori rimasto finora inascoltato: vedersi consigliare dei libri sulla base non della trama, ma dello stato d’animo in cui siamo o a cui vorremmo far fronte: situazioni stressanti, il naufragio di un amore o l’impossibilità del suo inizio, insoddisfazione nella vita o sul lavoro, depressione, nostalgia o tristezza per un’amicizia finita male. Affidandosi alla propria solida esperienza di lettrice e al consulto della sorella e di un’amica entrambe psicologhe di professione, Molini classifica i circa 4,000 titoli della sua libreria in 70 categorie emotive, adatte ad ogni esigenza. Tocco finale è il bugiardino allegato ad ogni libro, che ne indica le capacità terapeutiche, posologia ed effetti collaterali. Ma al di là della mossa commerciale e comunicativa di straordinaria efficacia, la tesi alla base della proposta di Molini non è affatto peregrina e merita di essere considerata con particolare attenzione: cosa significa, ed è davvero possibile, curarsi con i libri?

Sebbene non manchino riferimenti agli effetti benefici della letteratura già in fonti greche e latine, la pratica della biblioterapia propriamente detta si sviluppa a partire dal Novecento, stimolando un crescente dialogo tra medicina, scienze dell’educazione, psicologia e letteratura. Secondo Liz Brewster (Bibliotherapy, 2018), la prima testimonianza del termine risale a un articolo del 1916 apparso sull’«Atlantic Monthly», A Literary Clinic, in cui Samuel McCord Crothers racconta di un amico medico che usa ricorrere alla letteratura per curare i disturbi esistenziali dei propri pazienti. Da allora la disciplina ha attraversato numerosi ripensamenti e ricollocazioni anche alla luce di uno sviluppo complesso di concetti quali benessere, salute mentale e conseguente trattamento, in relazione tanto all’individuo quanto alla società e alle sue istituzioni. Se inizialmente la lettura viene incoraggiata soprattutto in qualità di svago e distrazione tra pazienti convalescenti o confinati in istituti, già negli anni Trenta lo sviluppo della psicoterapia contribuisce ad alimentare l’idea che la lettura possa avere un impatto ben più profondo su questioni quali processi di identificazione, lo sviluppo di valori morali, la motivazione personale e, in senso più ampio, sulla conoscenza di sé. Tra gli anni Sessanta e Settanta, iniziative di biblioterapia prendono piede con rinnovato entusiasmo e in un’ampia gamma di declinazioni, dalla “somministrazione autonoma” (il cosiddetto autoaiuto, o self-help) a programmi di sostegno più strutturati nell’ambito di biblioteche, comunità, ospedali. Questi programmi, inoltre, variano ampiamente in risposta a specifiche condizioni sociali o mediche – dalla ricerca di una condizione di benessere in assenza di particolari diagnosi, alla gestione della solitudine o del rischio di marginalizzazione tra soggetti vulnerabili, fino a percorsi ad hoc per pazienti psichiatrici o affetti da demenza (tracciando, a grandi linee, la differenza proposta da Rhea Rubin tra biblioterapia dello sviluppo e biblioterapia clinica).

È inoltre curiosa, a mio personale avviso, l’evoluzione dei tipi di libri usati per la biblioterapia. Se prima degli anni Quaranta si ricorreva indifferentemente a opere di finzione e non, sebbene raramente legate in maniera diretta a questioni di salute mentale, i decenni successivi vedono la diffusione soprattutto di testi di carattere fondamentalmente informativo, consigliati sulla base di specifici temi o diagnosi. Negli ultimi vent’anni invece – e la Piccola Farmacia Letteraria ne è un esempio – sembra che si stia assistendo ad un ricongiungimento di queste due tendenze, con la “prescrizione” di testi letterari che non affrontano un determinato problema mediante strategie esplicative ma che possono aiutarci indirettamente a riflettere su di esso percorrendo la strada, più tortuosa ma forse più efficace, della narrativa.

L’idea di base della biblioterapia, dunque, è che nei libri si possano trovare informazioni, guida e conforto. Recenti studi cognitivi hanno dimostrato che la narrativa riesce a soddisfare questi bisogni con particolare successo perché mette il lettore di fronte a scenari ricchi di dettagli, socialmente complessi ed emotivamente coinvolgenti (Terence Cave, Thinking with Literature, 2016). Tornando alla nostra domanda iniziale, se sia possibile curarsi con i libri, la risposta credo sia: dipende cosa intendiamo per curarsi. Se per cura intendiamo una pillola indolore capace di agire sulle nostre cellule o sui nostri ormoni per aggiustare ciò che non va, allora probabilmente no. Curarsi con i libri è possibile, invece, nel momento in cui la cura viene intesa come lavoro su di sé. Come atto dell’uscire da sé, ma in un contesto protetto. Non è infatti necessario buttarsi tutto alle spalle e incamminarsi verso l’Alaska per assaporare il senso di libertà, di ricerca e le sfide affrontate da Christopher McCandless in Into the Wild (Jon Krakauer), né tanto meno reinventarsi assassini con Jean-Baptiste Grenouille leggendo Il profumo di Patrick Süskind. Una biblioteca organizzata in base alle emozioni può aiutarci a vivere meglio nella misura in cui non è pensata come un prontuario di atteggiamenti e soluzioni pret-à-porter, ma come un modo per imparare ad ascoltare se stessi e, soprattutto, ciò che è altro da sé, provando a sintonizzarcisi – nel senso di entrare in relazione con esso, senza appiattirsi nell’imitazione. Karin Kukkonen suggerisce infatti che la narrativa ponga le condizioni ideali per quella che chiama “esperienza per interposta persona” (by proxy), ossia la possibilità di accedere in maniera mediata ai contesti culturali, orizzonti di attesa e sistemi di valori dei personaggi di cui leggiamo, e di sperimentare così ciò che pensiamo e proviamo in questi scenari alternativi. Ed è proprio da questo scarto (o allineamento) che scaturisce la forza principale della lettura.

L’ipotesi che il valore stia nello scarto è particolarmente rilevante perché delinea uno scenario in parte diverso rispetto all’idea comunemente diffusa che il beneficio della lettura coincida prevalentemente con lo sviluppo dell’empatia, ossia della capacità di simulare (e quindi connetterci con) l’esperienza emotiva e psicologica altrui. Ricerche recenti, tuttavia, suggeriscono non solo che è molto difficile dimostrare il nesso tra la capacità di empatizzare con i personaggi di una storia e una maggiore predisposizione ad un agire più empatico nella realtà, ma anche quanto l’assunto stesso secondo cui la lettura ci rende migliori perché ci insegna a metterci nei panni degli altri sia potenzialmente problematico dal punto di vista etico. Se paragonare l’esperienza di chi legge a quella di chi ha vissuto determinate situazioni può essere irrilevante nel momento in cui si tratta di personaggi finzionali, figure di carta e inchiostro, la medesima equazione diventa controversa quando viene applicata a persone reali.

Nel loro recente volume Storytelling and Ethics sul rapporto tra etica e letteratura, Hanna Meretoja e Colin Davis sottolineano come, lungi dal fornire risposte univoche e preconfezionate, il potere della letteratura sta nell’offerta di uno spazio di sperimentazione in cui bene e male (per usare delle macrocategorie) e soluzioni più o meno efficaci ci si squadernano davanti in tutto il loro ambiguo fascino. Non tutte le letture, dunque, sviluppano le nostre capacità empatiche, né l’empatia è l’unico atteggiamento etico possibile: se il riconoscimento di una similarità – di una universalità – del pensiero e delle emozioni è solitamente percepito come positivo, dovrebbe esserlo altrettanto ammettere e imparare a confrontarsi con l’alterità e, in certa misura, con l’insormontabile opacità della mente altrui. È dunque anche grazie a questo scarto tra l’emozione rappresentata e quella esperita che la letteratura ci apre un varco sulla consapevolezza che esistono tanti modi di sentire e di reagire alle cose; che cambiare idea e scegliere attivamente di comportarsi diversamente è possibile. La Piccola Farmacia Letteraria conta sulla possibilità di beneficiare delle emozioni generate dalla lettura, e mostrare cautela rispetto alla centralità dell’empatia non significa escluderla a priori, bensì cercare di non abusare del concetto, tratteggiando un panorama più sfaccettato e accurato delle dinamiche emotive, psicologiche e cognitive in gioco.

Ma in cosa consiste, allora, il valore aggiunto della lettura alla nostra vita quotidiana? È dunque falso dire che i libri possono curare nel senso che sono in grado di migliorare la nostra esistenza? In attesa di studi che possano darci risposte più specifiche, quello che possiamo affermare senza tema di essere smentiti è che il potere di un’iniziativa come quella di Elena Molini sta nel mettere al centro il libro tanto quanto il progetto umano della relazione tra libraio e lettore. Gli stessi esperti di biblioterapia non mancano di ribadire con forza quanto sia centrale il momento confronto, nella scelta del libro come nella sua successiva elaborazione. È durante il dialogo che avviene davvero quella rinegoziazione di vedute e valori che in fase di lettura è abbozzata, e che può sedimentarsi e articolarsi nella realtà solo attraverso l’interazione dialettica con l’altro. L’importanza del libraio non starà dunque soltanto nella sua competenza, ma nel fatto che si tratti di un’altra persona in carne e ossa con cui, attraverso consigli di lettura, si costruisce nel tempo un rapporto di fiducia. La cura – così come la forza quasi rivoluzionaria della Piccola Farmacia Letteraria – sta nella promozione di una diversa idea di comunità, accogliente, radicata sul territorio e composta da persone che si scambiano opinioni e giudizi. Non ci resta che sperare che l’interesse per questo luogo non si spenga ma anzi trovi sempre nuovo alimento, permettendo a questa realtà di non soccombere alle esigenze stringenti di un mercato che, da parte sua, non guarda più in faccia nessuno da tempo.


 

Piccola farmacia letteraria_Molini_copertinaElena Molini, La Piccola Farmacia Letteraria, Milano, Mondadori, 273 pp., € 19.