Il mio ultimo trasloco è iniziato poco tempo fa. Nel giorno del mio ventisettesimo compleanno, per la precisione, data piantata nel petto della sizigia astrologica di giugno. Era l’ennesimo, certamente non l’ultimo. Negli ultimi sei anni di vita ne conto almeno cinque.

È iniziato rapidamente e la notizia del suo inizio per molto tempo non è stata nemmeno registrata dalla parte cosciente del mio cervello. Come ogni piccola apocalisse, è arrivato di soppiatto, mormorando la sua necessità – mostrando quanto le quattro mura intorno a me fossero insostenibili e traballanti, barriere di carta pesta contro i rivolgimenti del mondo. Come le prossime quattro mura, d’altronde. Penso di aver sviluppato un riflesso condizionato davanti a questo tipo di traumi: così sia.

Devo concedergli, in ogni caso, una certa eccezionalità. Rispetto a tutti gli altri traslochi, questo ha avuto certamente delle peculiarità francamente memorabili. Prima su tutte, è accaduto nel mezzo di una pandemia, con tutta l’aura tragica e pestilenziale che questa porta con sé, e all’ombra di una crisi economica. Ho girato, protetto a malapena da una mascherina e appesantito da un numero preoccupante di valigie, per una città abitata, ma progressivamente sempre più spopolata; viva, ma psicologicamente desertica e terrorizzata dallo spettro dell’infezione e della recessione economica a venire. Una città, fra l’altro, in cui la gente scappa e cerca nuove tane temporanee altrove, ma in cui gli affitti continuano a crescere, nel più insensato fra tutti i giochi di domanda-offerta.

Inoltre, ma questo è, in una certa misura, un dato sostanzialmente soggettivo, mai come ora ho avuto modo di notare quanto la tela di amanti, amici e cospiratori che mi ha sostenuto in questa micro-migrazione sia fragile, gratuita e preziosa. Perdere l’intimità dell’ennesima casa mi ha messo di fronte all’amore e alla delicatezza di tutte quelle persone che mi hanno offerto un letto o qualche ora del loro tempo. Mai ho temuto tanto la solitudine, l’esposizione a ogni mia vulnerabilità o la dislocazione più traumatica, mai sono stato così inspiegabilmente accolto con gioia. Il trasloco, nel mezzo di normalità estreme come quella presente, è sempre più simile a un rito di passaggio o a un momento estatico, in cui misurare quanto ci vorrebbe a frantumarsi contro il pavimento dell’appartamento che ci si sta lasciando alle spalle e quante braccia saranno pronte ad attutire la caduta.

In questo processo labirintico ho fatto anche molti errori, sicuramente. Fra questi, il migliore è stato, senza ombra di dubbio o timore di smentita, lasciare che Gianluca Didino mi togliesse le mie già poche ore di sonno con il suo ultimo saggio Essere senza casa, pubblicato recentemente da minimum fax.

Il libro di Didino è certamente un animale strano, nato «sulla soglia, nel punto di incontro tra la selva dell’esterno e il calore del domestico», nonché un essere attraversato da capo a piedi dall’idea e dal fantasma del weird, dello strano e del perturbante.

Il cuore concettuale di questo testo è la casa e la sua sparizione; è l’emorragia dell’intimità e della familiarità che rapidamente spilla nel mondo esterno frantumando e confondendo le sue coordinate «spaziali e ontologiche». Secondo Didino, le nostre case, intese non solo come il tetto che protegge le nostre teste, ma come tutte quelle strutture più o meno materiali che ci fanno sentire soggetti stabili e ben delimitati, stanno venendo sventrate rapidamente e stanno perdendo la loro capacità di fungere da sacca amniotica contro gli strattoni del mondo là fuori.

A sostegno di questa tesi, certamente radicale, ma emotivamente molto naturale per molti di noi, troviamo una sorta di periodizzazione del presente che dipinge la nostra epoca come una fase storica che si è lasciata alle spalle le dotte citazioni e gli ironici mash-up del postmoderno per entrare in una forma di modernità efferata e inarrestabile, che viene definita da Didino, sulla scorta di Raffaele Donnarumma, Gilles Lipovetsky e Paul Virilio, ipermodernità. Per Didino, l’ipermodernità è un momento in cui le coordinate sicure del «qui e ora», i confini ontologici stabili segnati dagli steccati bianchi delle case della nostra vita vengono meno, diventando una soglia verso una perenne uncanny valley. «Oggi, nella modernità accelerata, le nostre fragili case non sono più in grado di proteggerci dalle minacce dell’esterno».

La personificazione più limpida dell’ipermodernità, termine che permea ogni passaggio del saggio di Didino e talmente ricorrente da risultare una sorta di ossessione, è, a mio avviso, una figura che l’autore accarezza di sfuggita in alcuni passaggi, ma che, a ben guardare, ritorna cocciutamente nei punti nevralgici del saggio: il mostro di Frankenstein di Mary Shelley, uno fra le varie «creature che si nascondono nel bosco» con cui abbiamo una «pericolosa, scioccante intimità».

Il mostro di Frankenstein è, in Essere senza casa, l’ipermoderno incarnato per almeno due motivi. In primo luogo, l’essere di Mary Shelley è una Zona pynchoniana ambulante: un insieme di oggetti estranei fra loro che si mescolano l’uno con l’altro senza soluzione di continuità. Il mostro, il cui corpo consiste in un patchwork di cadaveri dissotterrati dal cimitero, è una soglia che rimanda ad un milione di altre soglie, ad una moltitudine di Altri, siano essi corpi deceduti, macchine o ignari abitanti dei villaggi limitrofi. Questo celeberrimo abominio gotico è una commistione di vita e morte, di corpi estranei che si ritrovano ad abitare uno stesso spazio senza poter ricostruire una propria interiorità. Questo mostro è tutto esteriorità, una somma di cadaveri redivivi in balia del mondo. È, in breve, l’apolidia e l’assenza di casa fatta carne.

In secondo luogo, nel mostro di Frankenstein vive una certa psichedelia nera che contraddistingue le alterità che l’ipermodernità definita da Didino sostiene di averci messo davanti dopo aver liquidato le nostre sicurezze. Questa creatura, infatti, è la rappresentazione di tutti quei processi storici, economici e culturali, che, ad un certo punto, hanno preso possesso delle proprie gambe. Questi fenomeni complessi di origine antropica, divenuti bambole assassine, possedute, paradossalmente, da una volontà propria, riempiono le pagine di questo saggio. Se, infatti, l’ipermodernità è l’epoca in cui la casa si sgretola e viene rasa al suolo da forze che le sono estranee, queste potenze del Fuori hanno immancabilmente la caratteristica di essere nostre creature impazzite: dal capitalismo sregolato al progresso tecno-scientifico che arriva a tramutarsi in una sorta di miracolo inumano che procede da sé fino al catastrofico cambiamento climatico che ci circonda, il Grande Altro ipermoderno è un esperimento sfuggito dai nostri sistemi di contenimento.

Partendo dalla rapida cancellazione delle nostre case e sostenuto da questa tesi sul presente, Didino lavora per spietate addizioni, affastellando fenomeni culturali eterogenei a sostegno del cuore concettuale del suo lavoro, creando una sorta di piccolo, parziale canone della nostra inquietudine, e tracciando, capitolo dopo capitolo, una serie di cerchi concentrici che allargano il significato del termine “casa”, fino a farlo coincidere senza sforzo con l’intero pianeta. Passando dai terroristi islamici che utilizzano il gore per tramortire l’Occidente passando per un’interessantissima analisi dello stroytelling come creazione di nicchie cognitive e arrivando a serrate analisi del folk horror di Ari Aster e dell’ipermodernità di Lost, Didino ci mostra in maniera cristallina lo smantellamento di ogni senso di appartenenza, arrivando a sostenere, con, fra gli altri, Philip K. Dick e Martin Heidegger, che siamo nel mezzo di un processo di «demondificazione», un movimento di disincanto del mondo che permette al pianeta Terra di ritornare ad essere semplicemente un pianeta, privo di senso e libero dalla responsabilità di farci da riparo contro il cosmo. Nel pieno della compilazione del suo archivio della fine del mondo, Didino afferma:

Oggi la casa non è il luogo fisico in cui viviamo, perché nel capitalismo globalizzato ogni luogo è un non-luogo e tutto cambia troppo in fretta perché sia possibile mettere radici; non è la Terra, resa aliena e inospitale dal riscaldamento globale; non è il corpo, che è solo l’oggetto imperfetto che racchiude e limita il nostro desiderio; non è l’identità, resa problematica dall’ambiguità del concetto del Sé […] questo è il territorio ambiguo in cui prolifera il weird.

A livello stilistico, questa massa di riferimenti culturali, chiamati a testimoniare la fine delle nostre interiorità, conferisce al libro un ritmo affannoso e claustrofobico, tenendo il lettore in un costante stato di apnea, senza concedere appigli o riposo. L’assenza di punti saldi, porti sicuri e identità certe viene resa da Didino in maniera performativa attraverso una scrittura che ripete e smantella, senza pause. Con una cadenza quasi meccanica, Didino presenta al lettore nuovi esempi della demondificazione che ci inghiotte, reiterando lo stesso paesaggio alieno con alcuni nuovi dettagli ad ogni rivolgimento della spirale. Nei momenti più felici e più dolorosi, si ha la netta impressione di essere di fronte alla rapida successione delle diapositive dell’incidente più grave della propria vita.

Il momento più alto, però, si ha nel finale del saggio, una manciata di pagine giustapposte al corpo principale del testo. In queste poche righe Didino traccia, infatti, la sua via d’uscita, che risulta, a tutti gli effetti, una sovversione delle aspettative del lettore. Davanti alla progressiva espunzione di ogni sicurezza, la soluzione più naturale, probabilmente incisa col fuoco e col sangue nella corteccia cerebrale della nostra specie, sarebbe cercare nuovi confini stabili e più solide certezze. Dopotutto, buona parte della politica contemporanea, tanto a destra quanto a sinistra, sembra una virulenta reazione allergica alla esteriorità protagonista di Essere senza casa. Al contrario, Didino propone la cura opposta: lanciarsi nell’ignoto, accettare il Fuori e imparare a sopravvivere e amare i mostri. Didino propone, contro ogni xenofobia identitaria, la «xenofilia», riconoscendo lo splendore tremendo del presente che ci è capitato. Andando contro ogni riflesso pavloviano che ci spinge verso il solito e il conosciuto, questo saggio ci esorta a sviluppare una sorta di veggenza, di shining che ci permetta di vedere tutte le possibilità latenti in questo mondo in frantumi. Secondo Didino: «Abbiamo ancora molto da imparare, ma abbiamo già cominciato a mappare questa terra incognita, a studiarne i rischi e soppesare le possibilità» e «almeno di tanto in tanto, riusciamo anche a vedere la bellezza della weirdness e non solo l’orrore». Questo lavoro – metà saggio divulgativo, metà horror sotto mentite spoglie – si conclude, proprio in virtù dell’orrore che lo attraversa, con un elogio dell’ignoto e con un’esortazione a spingerci ancora più in là, sapendo che l’unica via di uscita sarà passare attraverso i bagliori dello strano e dell’imprevisto. Senza casa e liberi da ogni identità, dovremo imparare a gioire come i mostri.


Gianluca Didino, Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani, minimum fax, Roma 2020, 172 pp. 15,00€