Ci siamo svegliati presto anche se avevamo dormito tre ore. Ho riavvitato le braccia nel busto, le gambe nei fianchi e mi sono sfregata gli occhi ancora incrostati di sonno. Sentivo nel petto quell’ebbrezza che si prova da bambini prima di andare in salotto ad aprire i regali, comparsi sotto l’albero per magia. Michele si stava sforzando di prendere la decisione di alzarsi, con le braccia tese a sgranchirsi lungo il cuscino. Di solito è lui quello più bravo ad abbandonare il letto. Ho scostato la tenda di una finestra piccola: fuori le strade erano ancora vuote. Tbilisi ci aspettava. Volevamo fare un miliardo di cose in quella giornata fredda di gennaio, e poi era Natale davvero.

Che avremmo vissuto un doppio Natale, prima quello cattolico e poi quello ortodosso, lo avevamo scoperto dal tassista che la notte prima ci aveva accompagnati all’appartamento in affitto. Si era fermato a metà di una salita buia e aveva delegato la voce robotica di Google Translate a dirci che non poteva proseguire oltre: era senso unico. Il suo saluto era sembrato più un augurio di buona fortuna. Ci eravamo trascinati i nostri trolley sui marciapiedi dissestati di un quartiere polveroso fatto di case basse, con indicazioni confuse segnate a penna su un foglio. Non c’era nessuno. Qualcuno aveva dimenticato i panni stesi in giardino, ormai irrigiditi dal freddo. Da una finestra avevamo intravisto una figura umana illuminata dai bagliori intermittenti di una tv accesa. Solo un cane biancastro ci era venuto incontro scodinzolando: il primo di una lunghissima serie di bestiole affamate che avremmo incontrato in tutta la Georgia.

Ci aveva seguiti fino a casa e si era seduto in fondo alle scale. In salotto avevamo trovato la sagoma metallica di un albero di Natale minimal. Michele si era premurato di accenderlo, mentre io stappavo la bottiglia di vino che ci avevano regalato al controllo passaporti (il degno benvenuto in quella che si definisce “la patria del vino”). Era il 6 di gennaio, e in Italia già si festeggiava l’Epifania con i cammelli di sfoglia e il carbone di zucchero (quello che da piccolo lo desideri, ma poi non ti piace e si finisce a buttarlo). Poi eravamo finiti in un locale che serve khinkali, ravioli georgiani ripieni di carne e spezie, ventiquattro ore su ventiquattro. La dance floor laccata di nero era animata da qualche audace ballerino che danzava a ritmo di vecchi successi italiani. Se fuori la città dormiva, lì dentro, alle due di notte, la gente stava ancora mangiando accanto a un grosso acquario illuminato di verde. Alle tre eravamo sotto le coperte.

Foto 2 : Michele Cardano

 

Quel mattino, ci siamo vestiti a cipolla, con una varietà di strati frutto di una strategia messa a punto in anni di viaggi invernali in posti freddi. Abbiamo percorso la città in lungo e in largo. Il mio conta-passi, che solitamente fatica a superare la soglia dei diecimila, ha registrato un record inaudito. Il giusto allenamento quando si mangia così tanto, perché se sei onnivoro e il cibo costa circa un terzo del prezzo a cui sei abituato, è davvero difficile darti un limite. E poi i piatti della tradizione georgiana sono irresistibili, nessuno domina la frutta secca come loro. Melanzana alla griglia con crema di noci, mela al forno ripiena di noci, pollo freddo in salsa di noci. Nota: ringraziare il cielo di essere allergica al polline e non alle noci.

A metà pomeriggio avevamo già visitato tre quarti delle cose che mi ero segnata sulla guida più due o tre chicche trovate su qualche blog. Le sfavillanti chiese ortodosse, con i cesti di foulard multicolor riservati alle donne. Gli stradoni sovietici impossibili da attraversare a piedi, e il mondo nascosto nei sottopassaggi adibiti a centri commerciali dove acquistare calzini o cachi essiccati. E poi, ai lati, i vicoli tortuosi dei quartieri vecchi, con le verande di legno che avevamo visto in foto, dal vivo più scrostate e traballanti. A cingere la città sparsa lungo il fiume, le colline da risalire in funivia o in funicolare. Una di queste la vedevamo dalla finestra della stanza, dominata da un’antenna televisiva foderata di luci. Salendoci, abbiamo scoperto che ospitava un luna park permanente disseminato nel bosco, dove qualche giostrante infreddolito sperava nell’arrivo di un bambino.

Per il resto in giro non c’era quasi nessuno, se non qualche turista asiatico e dei ragazzini che proponevano una foto in compagnia di un fagiano sul Ponte della Pace, quello “a forma di assorbente”. Abbiamo concluso che forse gli autoctoni erano chiusi in casa a festeggiare con le gambe sotto al tavolo. Finché sbucando da una via della Città Vecchia siamo incappati in una fila di macchine bloccate in coda.

Il grosso Ponte Baratashvili, lo stesso su cui pochi minuti prima sfrecciavano indisturbate le automobili, era vuoto. Solo alcuni spazzini vestiti di giubbotti catarifrangenti si abbassavano a raccogliere da terra i rifiuti. Ma ce n’erano talmente pochi che sembrava una gara a chi ne accumulava di più. E poi, oltre il ponte, eccoli lì: i georgiani che pensavamo abbioccati sul divano dopo l’abbuffata natalizia, ora erano scesi in strada, muovendosi lenti e compatti lungo lo stradone che risale la collina di Elia, sulla riva sinistra del fiume. Abbiamo corso come due reporter in cerca di una notizia per la tv locale, con le nostre macchine fotografiche che ci rimbalzavano sul petto, e ci siamo uniti al corteo. In mezzo alla folla, alcune automobili a mo’ di carro carnevalesco trasportavano fedeli di tutte le età travestiti con tuniche e turbanti. I fumi dei motori celavano chi vi camminava dietro in una coltre di nebbia irrespirabile, praticamente dimezzando la speranza di vita di metà dei fedeli in coda.

Tbilisi Georgia 3

Alcuni uomini dal sorriso beffardo trasportavano la riproduzione di una grossa tartaruga dorata, altri quella di una giraffa. Altri ancora, poco più avanti, dirigevano buoi e asini affaticati che trainavano un carretto zeppo di bambini euforici. Al centro dell’attenzione, una grossa tela raffigurante la Natività sorretta da uomini forzuti. Alle donne il compito di registrare tutto con grossi smartphone da cui penzolavano le copertine in cuoio sgualcito. I più giovani sventolavano dei buffi soli di carta colorati al pennarello, e anche gli adolescenti meno convinti indossavano tuniche bianche con una grossa croce rossa cucita sul petto.

Ogni tanto qualcuno ci gettava un’occhiata, intuendo come non fossimo dei loro. Probabilmente eravamo gli unici a non esserlo, lì in mezzo. Qualcuno ci ha suggerito di camminare più esterni per non intralciare i protagonisti del corteo. Ogni tanto perdevo di vista Michele, che spariva nella folla attratto da qualche volto. Quando lo ritrovavo con lo sguardo, capivo che anche lui ci aveva messo un attimo a ritrovarmi. Ci rassicuravamo con un mezzo sorriso, poi tornavamo a farci trasportare. Ogni tanto ci si fermava. Chi trasportava cose pesanti le posava a terra, qualcuno parlava nel megafono. Poi la salita è finita e siamo arrivati davanti all’enorme condominio blu di Avlabari, un ecomostro di tutto rispetto. Dalla farmacia sono uscite le farmaciste, tutte donne, con le loro uniformi bianche, e si sono posizionate in fila a osservare il corteo. Michele ha fotografato un’anziana con il volto fitto di rughe e un paio di baffi scuri. Lei se n’è accorta e ha preso ad aggredirlo a colpi di borsa, a urlargli una manciata di parole di cui abbiamo capito solo “americano!”. Poco prima una ragazzina ci aveva fermati chiedendoci in un misto di timidezza ed entusiasmo: «Are you from the United States?».

Foto 4 _ Michele Cardano

Abbiamo svoltato in una via frastagliata, con ai lati case basse arabeggianti sempre sul punto di crollare. I commercianti uscivano dagli alimentari a intonare una preghiera, le panettiere si sporgevano dalle finestrine interrate dei panifici con i ciuffi dei capelli tinti che spuntavano dalle cuffie. Mancava ancora un tratto di salita, il sole calava con una lentezza inusuale, come a regalarci più tempo. Infine ci siamo fermati davanti a una serie di bancarelle, uomini che per l’occasione speravano di vendere bene candeline di cera o piccoli rosari. Siamo rimasti incastrati all’entrata del cancello e abbiamo aspettato il momento giusto per unirci alla folla che confluiva piano. Davanti a noi la Cattedrale di Tsminda Sameba, tirata a lucido, brillava imponente a rivendicare l’ortodossia della città, e dell’intera nazione. Avevo letto che era stata costruita di recente sui resti dell’antico cimitero armeno. Abbiamo salito lo scalone e ci siamo riversati all’interno, trascinati da quel fiume di famiglie. Ormai nessuno ci notava più, stretti com’eravamo in mezzo a tutti, a qualche metro di distanza fra di noi.

«Buon Natale» ho sussurrato a Michele uscendo dalla chiesa buia.

 


 

Fotografie di Michele Cardano.