Dai primi giorni di emergenza sanitaria, prima dell’isolamento della Lombardia, prima della quarantena dell’Italia intera, ho continuato a meravigliarmi dell’assodata, banale, somiglianza della nostra mente a un processore informatico. Ogni volta che riflettevo sulla situazione anomala che stava investendo la mia quotidianità e la mia persona, tutti i termini adatti a spiegare le sensazioni mie e di chi mi circondava, riportavano a un contesto informatico: elaborare, resettare, processare, dati, programmi. A sembrarmi ben chiara era l’incapacità dei nostri schemi mentali di adattarsi alla nuova situazione: un elemento esterno, incompatibile, che il mio (il nostro) cervello non era in grado di elaborare. Per farlo avrebbe dovuto riadattarsi alla nuova situazione e, senza sviluppatori a portata di mano, ci avrebbe messo un tempo sicuramente superiore a quello scandito dagli eventi.

Per molti giorni, diciamo pure settimane, mentre guardavo la situazione – e scrivo guardare, perché di fronte a questa nuova realtà mi sono sentita altro-da-me, osservatrice esterna che analizza il mondo circostante come legge un romanzo o guarda un film – la sensazione dominante è stata l’incredulità: l’incapacità di accettare qualcosa che, semplicemente, per noi europei, per noi occidentali, non era previsto. Certo, molti caratteri sono refrattari ai cambiamenti, e molto probabilmente lo è anche il mio, ma questo caso è, evidentemente, diverso. Una pandemia è uno scarto dalla norma troppo grande, qualcosa che, se sei un certo tipo di persona, sei abituato a fruire attraverso narrazioni, che siano distopie, ucronie, o fantasy. Narrazioni, insomma, che questo scarto dalla realtà lo esplicitano fin dal nome. E se invece non sei quel tipo tipo di persona, magari è un’ipotesi di cui non hai mai beneficiato, neppure con la fantasia, e che si è trasformata in un fatto che ti trovi ad affrontare dall’oggi al domani, senza un briciolo di riferimento culturale a cui appigliarti per fingerti meno smarrito.

Non è quello a cui il nostro processore interno è abituato: si può morire andando in vacanza, per un incidente in tangenziale, si può morire scivolando in casa mentre si passa la candeggina sul pavimento, si può morire per malattie terminali. Sono tutte ipotesi orribili, strazianti, ma in qualche modo, presenti nella sfera della prevedibilità, e quindi, con tutto il dolore del caso, comunque processabili. Morire per un virus sconosciuto, per cui non sono ancora state elaborate cure o vaccini, che si sta propagando di settimana in settimana in tutti i Paesi del mondo, invece, non era previsto. Non era, semplicemente, nei piani. Questa incapacità di elaborare la gravità della situazione (e non parlerò qui di aziende, economia, e capitalismo perché non è il mio mestiere e c’è chi lo sta facendo già in modo eccellente) mi sembra trasversale a tutti, anche a me, che in mezzo al dolore che mi circonda, in mezzo alle preoccupazioni per le persone che mi sono care, alle sette di sera avverto pungentina la voglia insoddisfabile di pizza o di ramen. Perché, anche di fronte al dolore, l’istinto alla quotidianità è qualcosa di difficile da sopprimere, un riflesso condizionato.

Quanto la capacità di adattamento umana (anche in presenza di quei riferimenti culturali di cui ho parlato prima) riesce davvero a scendere a patti con un reale a cui mai si è pensato concretamente? Possiamo abituarci a stare in casa, imparare a restare tra le nostre quattro mura, grandi o piccole che siano, ma possiamo adattarci a quello che dalle quattro mura resta fuori? Ogni volta che dico frasi come: “Quando hanno messo la Lombardia in quarantena…”, “Oggi sono morte cento persone in meno”, “All’Esselunga c’è un’ora di fila”, “Boris Johnson è positivo al virus”, nella mia mente si crea un piccolo scarto, uno spazio di incredulità in una conversazione che è incredibilmente – incredibilmente – aderente alla realtà.

All’inizio ho ipotizzato che questo smarrimento fosse una questione di epoca, momento storico. Che così poche persone abbiano colto immediatamente l’urgenza della situazione; che molti, pur consapevoli e abituati ad analizzare la realtà, il fine settimana in cui è stato annunciato primo lockdown della Lombardia si siano trovati  a dover tornare a casa in tutta fretta dalla montagna o dal mare. L’istinto alla panificazione che ha colto gli italiani; l’incapacità di stare una settimana consecutiva senza mettere piede fuori casa (sto consapevolmente semplificando, ci sono casi in cui uscire è una necessità, ma spero si capisca il punto); da un lato quelli che pensano sia il momento adatto per darsi alla corsa, dall’altro chi si fa prendere dal panico e comincia a far delazioni, copia sbiadita di un Generale della Rovere fuori tempo storico. D’altronde non è solo la pandemia, non è solo la morte, a lasciarci sgomenti, ma anche la limitazione personale. Sentirsi privati di quella libertà in cui siamo cresciuti (sia noi sia le generazioni precedenti), è impensabile, e lo smarrimento provocato dalla quarantena si somma alla paura per l’emergenza sanitaria: un concatenarsi di scenari che, ancora una volta, non siamo in grado di elaborare. Mi sembra un buon emblema il continuo paragone della situazione attuale alla guerra: non siamo in guerra, eppure, in assenza di paradigmi adeguati per interpretare il reale, il riferimento che risulta più immediato è qualcosa di enorme e lontano (per quanto riguarda l’Italia sia nel tempo, sia nello spazio), perché è l’unica simbologia che abbiamo a disposizione.

La verità è che, tuttavia, il nostro non è un software legato a questa epoca, è una struttura più profonda, aderente alla specie, che ci identifica come umani. Così non c’è differenza tra il rifiuto ad adeguarsi a una realtà sconosciuta di una persona che nel 2020 cerca di collegare le informazioni del telegiornale ai dati che trova su Twitter, e quello di una persona che, nel Seicento, vede i suoi vicini ammalarsi uno dopo l’altro e morire in mezzo alla sporcizia. Giuseppe Ripamonti, in La peste di Milano del 1630, racconta di come i nobili “nelle cui mani risiedeva il governo dello Stato” furono inizialmente incuranti della pericolosità del morbo e, di conseguenza, i rimedi erano stati lenti e inadeguati, mentre il morbo già cominciava a diffondersi. Non sembra lontano il paragone con le prime, timide, normative della nostra Milano attuale, per cercare di diminuire gli assembramenti e al contempo permettere ai locali di restare aperti – e anche io, peraltro ne ho giovato.

Quindi, continua Ripamonti poche pagine dopo: “Furono posti cancelli e guardie a ciascuna porta, istituite le quarantene ed altri consueti provvedimenti; ma non andò molto, che si levarono, negligentando per indolenza le precauzioni con tale volubilità ed incostanza, che sembrava uno dei fenomeni della peste”. Ripamonti è sicuro che ad aumentare il contagio fu l’iniziale ostinazione a non prenderlo sul serio, e, anzi, a bollare come allarmista chi lo faceva. Pensiamo a poche settimane fa, ai dubbi se tenere aperti i locali solo di giorno, o aprirli anche la sera, o magari chiudere tutto. Come si dice? Ring a bell? Forse l’inadeguatezza a cui abbiamo assistito i primi giorni viene da più lontano di quanto crediamo.

E ancora, per fare un altro esempio, possiamo cambiare secolo, città e malattia, ma non cambiano le reazioni degli uomini. Nella Storia del colera della città di Napoli, Gennaro Maldacea testimonia come a inizio Ottocento le prime avvisaglie dell’infezione fossero state scambiate per “febbri autunnali”, e per contro di come, una volta che il colera si era ormai diffuso “quasi tutti i cittadini, i quali si rattrovavano in circostanze di abbandonare la capitale non indugiassero a farlo molti, e si dispersero per tutti i paesi d’intorno e molti tra questi sarebbero usciti anche dal regno se le altre Potenze li avessero voluti ricevere: e ciò produsse la diffusione del colera per quasi tutto il regno”. Se inizialmente a stupire sono le analogie con il rifiuto di una situazione imprevista, in questo caso è il panico ad essere lo stesso. Chi può rifugiarsi nelle seconde case lo fa oggi come allora, chi ha famiglia altrove prende il treno per raggiungere la città d’origine, incurante di cosa questo, a conti fatti, possa comportare per la collettività.

Chiara Valerio, mi ha raccontato, in un’intervista fatta qualche mese fa di quando una sua anziana amica, l’antropologa Clara Gallini, si trovò, a seguito di un incidente, con un’emiparesi facciale. Quando era andata a trovarla, Gallini le aveva detto: “Studio le cose che non posso più fare, come se studiassi una popolazione di cui si sono perse le tracce”. La morale a cui voleva arrivare Valerio era il potere dello studio, che pur non potendo lenire i dolori ne può tuttavia dare un racconto. Il dialogo con Chiara Valerio mi è sembrato, in queste circostanze, incredibilmente vicino, e cela il motivo, che sembra elevato, ma in realtà è basso istinto di sopravvivenza, per cui ho sentito il bisogno di scaricare le scansioni di un documento storiografico vecchio di quattro secoli e scoprire che aspetto aveva la mia città durante un’epidemia. È il motivo per cui hanno così successo le interviste a David Quammen e per cui il suo Spillover è ai primi posti delle vendite sui maggiori retailer online.

In mancanza di paradigmi interpretativi, impossibilitati a resettare il software, l’unico modo per attenuare il senso di incredulità è l’acquisizione di nuovi dati, il tentativo (impossibile?) di storicizzare il presente. Forse è solo questione di conforto, per cui non cambia davvero sapere se nel Diciassettesimo secolo le reazioni erano simili alle nostre o meno, ma andare a cercare riconferma che, delle reazioni di qualsiasi tipo, ci siano state. Se notare le differenze può aiutare a cullarsi nella particolarità del periodo storico a cui apparteniamo, le similitudini rincuorano invece perché permettono di riconoscersi uguali nel tempo. Parlarsi tra epoche, per certi versi, non è così diverso dal parlarsi al telefono dopo aver guardato il telegiornale: Ripamonti non potrà mai rispondere alle domande che ci poniamo, non potrà mai modificare la struttura mentale con la quale leggiamo il mondo in cui siamo immersi, ma neanche l’amico dall’altro capo del cellulare potrà farlo, la necessità di sentire la sua voce risponde allo stesso bisogno di riconoscersi. Anche perché, dopo il presente, viene sempre il futuro. E per la prima volta da molto tempo l’uomo occidentale non è sicuro della forma che assumerà questo domani, quando arriverà, a che paradigmi interpretativi risponderà: quelli che già conoscevamo, o quelli a cui stiamo imparando ad adattarci?